17 marzo 1861
Nigra scrive a Cavour e lancia l’allarme sul Mezzogiorno
Costantino Nigra, segretario generale del Governatore delle province meridionali (il principe Eugenio di Savoia-Carignano), scrive al conte di Cavour.
Confidenzialissima
Napoli 17 marzo 1861
Ecc.mo Sig. Conte
In procinto di ricomporre l’amministrazione in un senso francamente unificativo, credo non sarà discaro a V.E. ch’io le faccia un sunto retrospettivo e confidenziale del nostro operato.
Quando venimmo qui, trovammo il paese irritato e malcontento. Farini e i suoi consiglieri impopolarissimi. Il nome di V.E. impopolare anch’esso. Del Principe non si augurava né ben né male. Il Re non aveva lasciato desiderio di sé. Di me si diffidava. Si temeva l’invasione del piemontesismo. Se ci fossimo messi subito in urto colle popolazioni, avremmo naufragato subito, inevitabilmente. Pigliai il partito di chiamare alla testa dell’amministrazione il solo uomo che avesse conservato una certa popolarità, Liborio Romano. Poerio, Arnulfi, Fasciotti, e tutti quelli che interpellai in proposito furono dello stesso avviso. Il Principe anch’esso partecipò a quest’opinione. Se si lasciava Romano in disparte, la sua popolarità si sarebbe resa gigante, e ogni governo sarebbe stato impossibile. Posso assicurarla che se Romano non era consigliere, avrebbe avuto non otto, ma venti elezioni. Romano venne dunque al potere. Romano non ha capacità di nessuna specie; non è cattivo di proposito deliberato, ma è debole, senza carattere, con una certa furberia tra contadinesca e curiale, di nessuna convinzione politica, e tenerissimo della sua popolarità buona o cattiva che sia, vera o falsa. Fin dal primo giorno che lo vidi, fui certo che avrebbe male amministrato, ma fui egualmente certo che avrebbe ben tosto perduto ogni prestigio, e sarebbe diventato di pericolosissimo che era, innocuo affatto. Quel che previdi, avvenne. Commise errori, su errori; alcuni dei quali spiegabili per le circostanze veramente difficilissime. Nell’ultima riunione del consiglio io posi netto il partito. Invitai i consiglieri a pronunciarsi tra Romano che voleva far nuove concessioni (in certe nomine) agli uomini del partito ultraliberale, e Spaventa che non voleva farne nessuna. La discussione s’inasprì e il ritiro di Romano, da me preveduto, avvenne. Nello stesso consiglio si trattò di nominar un certo Ciavania a governatore di Foggia (Capitanata). Il Ciavania dicono sia uomo onesto e bastevolmente capace; il che è molto in questo paese. Ma la nomina fu combattuta da Mancini e Spaventa. Io allora proposi Bardesono che fu accettato. Questa nomina di Bardesono avrebbe eccitato un mese fa il malcontento dei napolitani. Oggi l’hanno accolta con favore. Ma il guadagno immenso che abbiamo fatto è questo. Abbiam reso evidente che non si può camminare con uomini municipali, che bisogna procedere nella via dell’unificazione, che bisogna accettare gli uomini nostri e i piemontesi. Tutti si sono convinti che non c’è qui un uomo, napoletano, che possa reggere il peso dell’amministrazione, se non è con noi e per noi. Non un solo nome possibile è stato messo innanzi per surrogare il Romano o il Laterza.
Tutti i giornali mostrano malumore coi consiglieri attuali, non uno seppe suggerire gli uomini atti a surrogarli. Si va dileguando l’impopolarità del Re, ed è già dileguata quella di V.E. Il Principe non vede molta gente, non esce quasi mai; appena riesco a farlo assistere a qualche inaugurazione di scuole, d’asili, di ferrovie. Tuttavia comincia a guadagnare nella simpatia del pubblico. Io pure comincio ad inspirare una certa fiducia. Tutto questo ci dà forza ad agire ed agiremo. Ma tutto questo è il risultato esclusivo della dura prova sostenuta. So che di qui la nostra condotta vi sarà parsa talora inesplicabile. Ma so egualmente che non potete farvi un’idea esatta delle veramente straordinarie difficoltà contro cui abbiamo a lottare. Gli errori commessi han servito a questo scopo. Essi però non sono gravissimi né irrimediabili. Alcune nomine mal fatte. Le ho già spiegato in qual modo il Principe ed io, che non conosciamo le persone, abbiamo ordinato che le nomine si controllino da tutti i consiglieri. Malgrado ciò succedono errori e succederanno. I meno incapaci fra gl’impiegati sono borbonici; e non si vogliono, almeno i troppo noti, a nessun costo. Gli altri sono o incapaci o non troppo onesti. Comunque poi siano, fossero pure capacissimi e onestissimi, eccitano, subito nominati, l’invidia e quindi le calunnie, e poi l’impopolarità. Ogni napoletano si crede derubato appena vede una nomina. Perciò non Le mandai ancora le proposte per le decorazioni, perché prevedo che col far cento contenti, se ne fanno centomila malcontenti ed ostili. La relazione di don Liborio sulla Guardia nazionale, fu dettata dal desiderio di lui di non urtare la suscettività della Guardia nazionale di Napoli, che vede di mal occhio Cerruti e i suoi progetti d’uniforme e quanto sa troppo ostensibilmente di piemontese. Ma quest’errore diede il tracollo al povero don Liborio, ed è quindi scusabile, tanto più che appunto per la cattiva impressione fatta io mi trovo in misura (ora e non prima) d’applicare la nostra legge. Sicché, com’Ella vede, a quelque chose malheur est bon. L’incapacità di Laterza e gli errori suoi rendono possibile Oytana alle Finanze. Senza questa prova, avrebbero qui strillato come aquile. La posizione è adunque migliorata. Possiamo ora agire più francamente e siamo assai più forti di prima. Non so ancora se farò direzioni o consiglieri di Luogotenenza. Ma il nome poco importa. Farò un passo decisivo verso l’unificazione.
Faccia preparare i decreti pel trapasso al Governo centrale delle poste, dei telegrafi, e delle strade ferrate se è possibile. Peruzzi mandi qui un suo uomo per operare la fusione della direzione delle ferrovie. Oytana mi ordinerà le Finanze, che sono sull’orlo dell’abisso, per la inerzia e l’imprevidenza dell’attuale dicastero. Spaventa ordinerà l’Interno. Per le provincie, si va attuando di già la legge provinciale e comunale. Fra un mese al più le elezioni saranno fatte. Manderò gli organizzatori della Guardia nazionale nelle provincie. Uno di essi va con Bardesono. Per la provincia di Capitanata, con Bardesono, dormo tranquillo. Per quella di Benevento c’è Torre che è capace, attivo ed onesto. Ma trova difficoltà perché del paese. Se non riesce, lo cambio. In cinque o sei altre provincie ci sono uomini su cui si può contare, per quanto è possibile contare su uomini di qui. Alle altre ci penso. Intanto mi mandi un altro Bardesono o un altro Cles; perché il mio povero Casalis stette lottando ier l’altro colla morte, ed oggi non sono ancora affatto tranquillo. Adunque non stia di mal animo, non si corrucci con me, perché m’ha dato una dura croce a portare. Spero di non cadere per via, se mi sorregge un poco. E lascierò Napoli diventata davvero provincia italiana, non nello spirito della popolazione (per questo ci vorrà un po’ di tempo), ma nella forma dell’amministrazione.
I pericoli però non sono affatto passati. Pensi che abbiamo infiniti soldati borbonici sbandati, senza occupazione, senza vitto. Abbiamo i briganti che in primavera occuperanno i monti. Abbiamo il clero nemico; i garibaldini malcontenti, irritati, affamati. Cinquecento di essi, dopo aver preso congedo e soldo per tre mesi, si trovano ora qui in preda alla peggior consigliera, la fame, che girano le strade di Napoli, rubando per vivere. Abbiamo le febbri tifoidee che imperversano nei reduci di Gaeta e mettono in commozione la città. Gli ufficiali napoletani di terra e di mare irritati, malcontenti, mal ricevuti dai nostri; l’aristocrazia, avversa, fa il lutto dei Borboni a Portici, divenuto il nostro faubourg de St. Germain. Gli operai dell’arsenale e delle ferrovie inquieti. L’immenso numero dei municipali offesi nei loro interessi. I devoti in soqquadro per l’abolizione dei conventi. Gl’impiegati, gli infiniti curiali, e l’immensa caterva di chi viveva d’elemosina ufficiale e di ruberie, implacabili. Il corpo municipale col sindaco e gli eletti offesi dalle lettere di Ricotti; i cittadini reclamanti di continuo contro la gravezza degli alloggi militari. Gli ufficiali piemontesi, gl’impiegati piemontesi e tutto quello che viene dall’Italia settentrionale, non cessano dal dire apertamente e declamare ogni sorta d’ingiurie (talora meritate) contro tutto quello che vedono ed odono qui. Ecco in qual bolgia mi ha mandato. E per sopramercato pochi carabinieri e poca forza nelle provincie. E un’amministrazione corrottissima da capo a fondo. Pessima stampa. Popolo docile sì, ma instabile, ozioso ed ignorante. Viveri relativamente cari. E in capo a questo quadro la figura gigantesca di Garibaldi, che grandeggia dal suo scoglio di Caprera e getta fin qui la vasta sua ombra.
Lei mi chiede miracoli. E sarà miracolo davvero se non naufrago. Il 19, quando riceverà questa lettera, ci sarà qui una gran festa in onore di Garibaldi. Impedirla impossibile senza inconvenienti gravi. Tenterò di dominarla, quindi impegnai il sindaco a prender l’iniziativa. Si minacciano grandi dimostrazioni. Molti garibaldini vogliono uscire in camicia rossa. La società degli operai inaugura la sua costituzione. L’autorità militare ha preso tutte le occorrenti disposizioni. Io ho preso le mie. Spero evitare gli scandali. Le dirò poi in qual modo, se riesco. Faccia discuter presto la legge provinciale. E mi mandi poi a Parigi a trattare la cessione di Roma.
Aggiungo una lettera della buona Lady Holland, addoloratissima perché V.E. non vuol accettare Carafa nella marina. Il Carafa è ottimo giovane, appartenente ad una delle prime famiglie non solo di Napoli ma d’Italia. Guardi d’accettarlo, e nomini un segretario di legazione, uno dei Baracco, per esempio.
Il figlio d’Imbriani, ottimo giovane, desidera pure, come il nipote di Bixio, d’entrare nel collegio di marina; li faccia accettare; credo sarà ottima cosa. Infine il figlio di Settembrini, testa ardente, ma che si va correggendo, è raccomandato dal padre a V.E. perché sia pure riammesso nella marina. Mi faccia rispondere, La prego, intorno a questi vari soggetti.
E gradisca, ecc.mo signor Conte, l’espressione dei miei sentimenti più rispettosi.
Suo dev. obb. serv.
C. Nigra
[Cav., Ep. XVIII, 976]