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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

GOOD MORNING QAYYARAH, DOVE L’INFERNO È UN CIELO NERO

Chi si prenderà cura della salute di decine di migliaia di abitanti di Qayyarah, bambini in maggioranza, intossicati da mesi dal fuoco perenne dei pozzi incendiati dall’Isis in fuga? Per le autorità irachene non è una priorità. La missione è chiara: prima sconfiggere il nemico comune, il resto si vedrà. Eppure, nella cittadina sulla sponda ovest del Tigri, provincia di Ninive, 50 chilometri a sud-est di Mosul, lo spettro di una catastrofe ambientale si sta mano a mano materializzando. Ecco la “terra dei fuochi” irachena. Tutti, compresi i residenti, sembrano aver sottostimato i rischi provocati dalle esalazioni prodotte dall’idrocarburo più conteso della terra. Il petrolio sta bruciando ininterrottamente da quasi tre mesi, senza che i vigili del fuoco riescano a venire a capo del problema. Alla fine di dicembre, i pompieri sono riusciti a estinguere appena cinque dei venti pozzi che eruttano lingue di fuoco e un fumo nero come la pece. Un mese fa, il ministro del Petrolio iracheno, Jabar al-Luaibi, aveva tranquillizzato tutti, parlando di problema quasi risolto: “Abbiamo spento l’incendio al pozzo 72. Dopo la rimozione delle mine piazzate dal Daesh in fuga attorno agli impianti, l’intervento procede spedito”.
Le operazioni di spegnimento nei diversi siti, al contrario, in particolare i pozzi 39 e 46, i più ostici, non hanno ancora prodotto gli effetti sperati: “Stiamo cercando di andare all’origine del fuoco, la vena di petrolio da cui tutto ha avuto origine, ma non è facile”, sostiene Ferhad Nazraddine, capo dei vigili del fuoco del posto. “Ogni giorno vanno in fumo 20 mila barili di greggio. Non so dirle quando riusciremo a spegnere tutti i roghi. Quando pensiamo di averne domato uno, poco dopo riprende a sputare fuoco”. La colonna di fumo è visibile a Makhmour, base militare dell’esercito iracheno e distante una trentina di chilometri da Qayyarah. Alla periferia della città gli occhi cominciano a bruciare. Il fastidio diventa senso di pesantezza a pochi chilometri dai fuochi e una volta davanti alla fonte originale serve la maschera antigas per non rischiare un’intossicazione.
Un caterpillar lavora in mezzo all’inferno per strappare terra mista a petrolio al furore delle fiamme. Dentro la cabina, priva di protezioni, c’è Mohanned Sabah, dipendente della compagnia privata che collabora coi pompieri. Ha 30 anni, è ricoperto di nero, eppure quando scende dall’escavatrice non fa altro che pigiare i tasti del telefono e placare chi lo chiama eroe.
“Se non lo facevo io questo lavoro, al posto mio ci sarebbe stato un altro. Devo lavorare, ne ho bisogno, dopo anni di vita sotto l’Isis”. La gente di Qayyarah, a prima vista, sembra appartenere a un’etnia diversa rispetto alle altre. In realtà i volti sono segnati dal nero del petrolio bruciato che, spinto dal vento, invade la città e non fa respirare. I bambini sembrano non badarci troppo, per loro è quasi un gioco, ma quando osservi da vicino le loro facce modificate dall’inquinamento, il pensiero corre alle grandi emergenze umanitarie. Secondo le stime dell’Onu, a Qayyarah sono almeno 2000 le persone che in un mese hanno dovuto ricorrere a cure mediche specifiche per casi gravi. L’ospedale di Qayyarah è stato messo fuori uso da Daesh e ci vorranno mesi prima che torni a funzionare. Al mercato centrale carne, pesce, frutta e verdura sono ricoperti da una patina nera. La sottostima del rischio è legata anche alla situazione contingente.
Fino all’inizio di novembre, da queste parti imperversavano ancora i tagliagole del Califfo. Qayyarah non è stata una preda casuale. Qui si trova una delle più importanti basi militari irachene, attaccata alla fine della scorsa settimana dal Daesh con almeno 200 uomini. Pesanti le loro perdite, almeno 40 miliziani, nel tentativo di riconquistare la città. Il corridoio strategico dell’Isis in Iraq partiva da Mosul per scendere verso Baghdad, incontrando Ramadi, Fallujah, Samara e soprattutto Kirkuk, la città con i giacimenti petroliferi più importanti del Paese. Per sfregio, ritirandosi, gli uomini di al-Baghdadi hanno incendiato i pozzi, distrutto mezza città e piazzato trappole esplosive ovunque.