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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Il breve anno da marziano di Carlo Verdelli in Rai

“È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura”. Con un paradosso che strazia il lettore inizia Nel museo di Reims di Daniele Del Giudice, un autore che Carlo Verdelli ha studiato in quelle sere fin troppo silenziose in un anonimo residence che ricorda un albergone di costiera, non lontano da Viale Mazzini, quartiere di uffici nel centro di Roma. Chissà se adesso che tutto è finito, rovesciato e ancora contorto, neanche un anno dopo l’esordio, per l’esattezza 362 giorni fa, l’ex direttore editoriale ha cominciato ad amare (oppure a detestare) la Rai che avanza sfiancata sotto i colpi della politica.
Antonio Campo Dall’Orto ha proposto l’incarico a Verdelli per due motivi: una lunga carriera nei giornali e nei settimanali e mai un contatto con i palazzi romani o con Matteo Renzi.
Un profilo ideale per coordinare l’informazione del servizio pubblico. Verdelli era l’antibiotico che doveva contrastare il batterio dei partiti e depurare Campo Dall’Orto dal peccato originale: il legame con Renzi che gli ha permesso di guidare l’azienda. S’è scritto tanto dei napoletani a Milano e forse poco dei milanesi a Roma. Il milanese Verdelli ha trascorso le giornate romane fra la stanza ai piani alti di Viale Mazzini e una quaterna di ristoranti che appena fa buio ritirano il menu affisso all’esterno e servono vini rossi di modesta qualità. Ha attraversato il confine del fiume Tevere verso piazza di Spagna o piazza Navona una decina di volte, e non per andare ai banchetti.
Più che una condotta monastica, Verdelli ha scelto di non cedere ai vizi di una Capitale che all’aperitivo milanese preferisce il salotto borghese o di nobiltà crepuscolare. Quante relazioni vengono propiziate da una tartina col finto caviale. Con la stessa frequenza con cui ha declinato gli inviti a cena dei dirigenti di Viale Mazzini, nei primi mesi, ha respinto la corte dei portavoce e degli intermediari che fanno gli interessi del governo, dei ministri e finanche dei viceministri. Approcci pudichi, però reali. Per rispondere con un messaggio collettivo, all’esordio in commissione di Vigilanza, davanti a un plotone di senatori e deputati, Verdelli ha sentenziato: “Il servizio pubblico è fermo al Novecento. Nei fatti siamo in un altro secolo. Non userò il Cencelli”. E poi ha ripetuto: “Non sono qui a fare il censore. La politica non decide cosa non va in onda”.
Verdelli ammira lo stile di Del Giudice perché asciutto, gelido nelle descrizioni, non prolisso e dunque essenziale, ma un approccio così tagliente ha scatenato la politica e quei meccanismi interni all’azienda che si muovono con logiche politiche. Il conflitto con la presidente Monica Maggioni era automatico.
Il “piano news” ha fornito il movente ai consiglieri, soprattutto a quelli di sinistra che dialogano con i renziani. Il progetto ha spaventato il Cda per una coppia di elementi: il trasferimento a Milano per la redazione del Tg2, proposta ispirata dall’esigenza di attrarre su Rai2 un pubblico meno anziano del pubblico medio di Viale Mazzini e, in particolare, la fusione delle testate locali in cinque macro-regioni per smantellare i megafoni dei governatori di turno. Il referendum ha rimosso le ultime titubanze di Maggioni, che si sente ancora più protetta con Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi: anche l’attuale capo del governo e all’epoca ministro degli Esteri l’ha sostenuta in maniera esplicita per la presidenza di Viale Mazzini. Campo Dall’Orto ha coperto Verdelli finché la politica non ha reclamato le poltrone, perché neppure la presunta innovativa riforma renziana – che non ha eliminato la legge Gasparri – ha sottratto il servizio pubblico al controllo dei partiti.
Con dichiarazioni ufficiali e sortite informali, il Cda ha bocciato da settimane il “piano news”. Verdelli ha aspettato il verdetto di martedì, peraltro senza una votazione, per comunicare le dimissioni.
Eppure in un anno l’azienda ha risposto: è un po’ imbolsita, non defunta. I telegiornali fotocopia restano, ma almeno un giornalista – e l’esempio ricorrente è l’inviata degli esteri Lucia Goracci – può apparire su più canali. E le dirette non sono vietate: quasi 200 ore nel 2016, fra stragi terroristiche, cadute di governi, golpe falliti. Se il flusso non s’interrompe, magari per maggio, il servizio pubblico potrà ritrasmettere Lezioni di mafia di Alberto La Volpe con la consulenza di Giovanni Falcone. Per conoscere la televisione pubblica, Verdelli ha letto La Volpe. Allora ha scoperto che quel programma, nel giugno del ‘92, arrivò sugli schermi con una sedia vuota. Quella di Falcone, ammazzato a Capaci da Cosa Nostra. Anche nel ‘92 c’era la politica in Viale Mazzini. Ma non era sola.