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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

LA CENA DEI GENI CHE BATTEZZÒ LA FISICA QUANTISTICA


Non fu una classica cena di gala. Anzi, chissà se Hendrik Lorentz nello stilare l’elenco degli invitati usò il principio di esclusione o quello di indeterminazione, se si affidò al calcolo delle probabilità o ebbe un più tradizionale approccio meccanicistico. Riunire intorno allo stesso tavolo, per di più alla presenza dei reali del Belgio, le menti più brillanti e provocatorie del Novecento che stavano lavorando alla meccanica quantistica comportava il rischio che si innescasse una reazione a catena. Umana più che atomica.
Lorentz, scienziato olandese premiato con il Nobel nel 1902, era da anni l’organizzatore delle Conferenze Solvay, congressi voluti dall’industriale belga Ernest Solvay per fare il punto sui progressi della fisica. Quella del 1927 sarebbe passata alla storia per aver visto nascere la teoria dei quanti, non senza fibrillazioni tra i protagonisti. Sei giorni di scontro intellettuale sulla natura della luce e su quella della materia, sulla matematica per descriverle, sulle implicazioni filosofiche di tutto ciò. La sera del 29 ottobre la quinta edizione della Conferenza Solvay si concluse con una cena al Salon de la Taverne Royale di Bruxelles: ospiti di sua maestà Alberto I e della regina Elisabetta, Albert Einstein, Marie Curie, Niels Bohr e un’altra manciata di premi Nobel.
Si sa pochissimo di come andarono le cose a tavola. Se, per esempio, Einstein e Bohr abbiano continuato a battibeccare come alla conferenza: Hendrik Lorentz, nello stabilire i posti per gli invitati, collocò in via cautelativa i due rivali sullo stesso lato, in modo che fossero separati da tre commensali. In uno schizzo autografo dello stesso Lorentz, conservato negli archivi Solvay di Bruxelles, si riconoscono intorno al tavolo i nomi dei fisici più blasonati dell’epoca. Oltre a Einstein, Curie e Bohr, anche Bragg, Born, Langmuir, Langevin e Richardson. Cosa si dissero? Erano consapevoli di aver varato una teoria che avrebbe cambiato il nostro modo di concepire l’universo e che avrebbe avuto conseguenze pratiche notevoli, dai laser ai cellulari?
Ha provato a immaginarlo, in un romanzo, Gabriella Greison. L’incredibile cena dei fisici quantistici (Salani) è una ricostruzione di quella serata. «Già da studentessa di fisica a Milano» racconta Greison «ero affascinata dalla foto di gruppo che ritrae i 29 scienziati della quinta Conferenza Solvay. Quando poi mi trasferii alla École Polytechnique di Parigi me la ritrovai nell’atrio in formato gigante e divenne una vera ossessione. Tornata in Italia ho dedicato due anni a fare ricerche. Negli archivi Solvay mi sono imbattuta nello schizzo di Lorentz e nel menù della serata. Solo allora ho capito che potevo romanzare quella straordinaria cena per raccontare in realtà la nascita della meccanica quantistica e i suoi protagonisti».
La fotografia dunque. È il pomeriggio del 29 ottobre 1927, i lavori della Conferenza si sono appena conclusi. Mancano poche ore alla cena e i partecipanti si ritrovano all’aperto, nel Leopold Park di Bruxelles, per una foto ricordo. Un’immagine che diventa il simbolo di una rivoluzione culturale senza precedenti. Disposti su tre file, come una scolaresca d’altri tempi, ci sono 29 fisici, 17 di loro hanno già vinto o vinceranno negli anni a venire un Nobel: in primo piano i «grandi vecchi», con al centro Albert Einstein. In realtà ha appena 48 anni, ma è già una celebrità: nel 1905 ha spiegato l’effetto fotoelettrico (usando i quanti di energia proposti da Max Planck) e presentato la Relatività ristretta, nel 1915 ha dato alle stampe la Relatività generale. Alla sua destra Lorentz, la cui matematica si è rivelata fondamentale per descrivere lo spazio-tempo einsteniano, e Marie Curie, l’unica donna (e tra i rarissimi scienziati in assoluto) ad aver vinto due Nobel. Accanto a lei Planck, l’iniziatore della meccanica quantistica: è stato lui a proporre nel 1901 l’idea che gli atomi assorbano ed emettano radiazioni in modo discontinuo, attraverso quanti di energia.
Dietro di loro la generazione di mezzo, fisici cresciuti con la meccanica classica che però stanno guidando il cambiamento. Niels Bohr, che ridisegna l’atomo alla luce della teoria dei quanti, Louis De Broglie che immagina l’elettrone come se fosse un’onda, Max Born e Erwin Schrödinger che descrivono le particelle con una funzione che rappresenta la probabilità di trovarle in un certo punto dello spazio.
In ultima fila i «giovani leoni», nati a Novecento già iniziato e pronti a sovvertire le vecchie teorie che non riescono più a descrivere il mondo atomico e subatomico in cui i fisici hanno iniziato a sbirciare. Li guidano Werner Heisenberg e Wolfgang Pauli. Il primo formula il principio di indeterminazione (non si possono conoscere simultaneamente la posizione e la velocità di una particella), il secondo firma il principio di esclusione: due fermioni (categoria di particelle in cui rientrano elettroni, protoni e neutroni) identici non possono occupare lo stesso stato quantico.
«Il congresso del 1927 è passato alla storia perché fu l’occasione in cui si confrontarono le principali visioni della meccanica quantistica. E fu lì che nacque, non senza travaglio, la teoria come la conosciamo oggi» spiega Guido Bacciagaluppi, docente di filosofia della scienza all’Università di Utrecht e coautore, con Antony Valentini, di Quantum theory at the crossroads: reconsidering the 1927 Solvay Conference. «Ci fu lo scontro tra Einstein e Bohr, quello tra Schrödinger e la coppia Bohr-Heisenberg, tra De Broglie e tutti gli altri. Alla fine di quella settimana la scuola di Copenaghen (guidata da Bohr e Heisenberg) risulterà vincitrice, mentre Schrödinger, De Broglie e persino Einstein dovranno battere in ritirata».
«Il padre della relatività» conferma Giovanni Battimelli, storico della fisica alla Sapienza di Roma, «non poteva accettare che la casualità regolasse l’universo. Ma lo scontro si accese anche perché Bohr e Heisenberg avevano sovraccaricato di significati filosofici il principio di indeterminazione». E così Einstein provò a mettere in difficoltà i due proponendo ogni giorno un esperimento concettuale che avrebbe dovuto dimostrare la fragilità della nuova teoria. Quando Heisenberg ebbe esposto il suo principio di indeterminazione, Einstein commentò con il celebre «Dio non gioca a dadi». Ma Bohr lo zittì: «Albert, non sei tu a dire con cosa deve giocare Dio».
«Einstein riconosceva che la meccanica quantistica dava risposte corrette, ma era convinto che non fosse la teoria definitiva» continua Bacciagaluppi. «Soprattutto non lo convinceva il fatto che sembrava presupporre 1’esistenza di segnali istantanei tra particelle molto lontane e quindi contraddire l’insuperabilità della velocità della luce, fulcro della sua Relatività ristretta».
L’incredibile cena dei fisici quantistici ricostruisce quel dibattito, tra finzione e realtà (e con qualche licenza nell’ampliare l’elenco degli invitati a tavola). «È un’opera di fantasia, tuttavia nel costruire i personaggi e i loro dialoghi mi sono basata sulle biografie e sui documenti rinvenuti nell’Archivio Solvay» conferma Greison. L’ultima scena vede Einstein, Bohr e altri tre commensali passeggiare nella notte per le vie di Bruxelles, discutendo ancora di onde, particelle e indeterminazione. Accadde davvero? Probabile.
Luca Fraioli