Francesco Bonami, La Stampa 20/8/2016, 20 agosto 2016
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Cina
ACCUMULARE È UN’OSSESSIONE. GIONI LA METTE IN MOSTRA
Leggendo l’introduzione al catalogo della mostra The Keeper da lui curata al New Museum di New York dove è direttore artistico, non ci sorprenderebbe se Massimiliano Gioni commettesse qualche gesto scriteriato pur di ottenere un’opera per una delle sue mostre o un libro per la sua biblioteca. Nel testo infatti racconta candidamente della sua ossessione per i libri. Potremmo quindi vedere Gioni sulle cronache nere e non nelle pagine dell’arte come accadde al libraio di Barcellona Don Vincente. Questi (lo racconta il critico d’arte francese Pierre Cabanne nel libro I Grandi Collezionisti) assassinò ben tredici persone pur di recuperare dei libri che gli aveva venduto, ma senza i quali non poteva vivere. Scherzi a parte con questa mostra Gioni conferma di aver creato uno stile curatoriale che a questo punto non si può altro che chiamare Gionismo. Uno stile dove le ossessioni del curatore diventano anche il contenuto, ricchissimo, della mostra. Le origini del Gionismo vanno cercate a Gwangju, città della Corea del Sud famosa per la sua Biennale di cui Gioni curò nel 2010 l’ottava edizione intitolata 10 mila vite. Avendo avuto la fortuna di vedere quella colossale ed eccezionale esibizione posso dire che The Keeper è la terza tappa, forse conclusiva e in versione tascabile, di un percorso che passa poi attraverso il Palazzo Enciclopedico, titolo della Biennale di Venezia del 2013 curata sempre da Gioni.
La mostra pur occupando l’intero museo sulla Bowery proprio per questioni di metri quadri non può competere con il respiro che si poteva avere nei luoghi veneziani e nell’immenso edificio di Gwangju. Gioni è affascinato dalla compulsione creativa e accumulativa di cose ed immagini. In questa mostra non è il collezionista classico e oggi principale protagonista delle vendite all’asta a fare da leone. Ma appunto The Keeper, colui che tiene, che non butta via nulla, colui che trova ordine nel numero di ciò che organizza e non nell’esclusività di pochi oggetti trofeo.
Se il collezionista storico sceglie e seleziona costruendo un percorso chiaro, The Keeper invece no. Accumula, organizza ossessivamente rischiando però di rendere illeggibile il materiale ammassato. Stesso rischio che a volte si corre dentro le mostre di Gioni. La sensazione di non poter assorbire con chiarezza tutto quello che viene magistralmente e coerentemente mostrato c’è. Ma potrebbe essere solo un problema di certi spettatori mentre altri troveranno continue fonti d’ispirazione e di approfondimento. Se infatti non ci facciamo prendere dall’ansia o dalla fretta in The Keeper attraverseremo momenti gloriosi. Come l’incontro con Wilson Bentley un signore americano che fra il 1865 e il 1931 catalogò e fotografò più di cinquemila fiocchi di neve. Perché lo fece? Principalmente perché rimase folgorato dalla bellezza e dal design di queste effimere gelide particelle. Vedendole infatti sembrano l’opera di un grande artista o di un fantastico designer. La passione di Bentley dimostrò anche che non esistono due fiocchi di neve identici, cosa che non si direbbe guardando una pista di sci. In tutta la mostra si respira un senso di inutilità meravigliosa che poi è ciò che rende l’arte bassa o alta che sia misteriosa e insostituibile. Ma c’è anche il lato oscuro della medaglia, una sensazione di angoscia ed isolamento emanata da alcuni dei protagonisti della mostra. Un esempio le foto di Mario Del Curto delle case, baracche, sculture del canadese Richard Greaves, affascinanti ma mostruosi monumenti al degrado mentale. Gioni scava, cerca e tira fuori dal suo cilindro documenti incredibili, interessato più all’importanza dei contenuti che all’originalità dell’artefatto. Basta prendere le riproduzioni dei disegni dall’album che viene dalla collezione dell’Auschwitz-Birkenau State Museum. Una sorta di fumetto disegnato metodicamente da un anonimo MM, molto probabilmente vittima dell’Olocausto, che racconta sia le brutalità che la normalità giornaliera del campo di concentramento. I disegni furono trovati dentro una bottiglia sotto una baracca vicina alle camere a gas. In questo caso l’ossessione dell’autore era quella di far sì che questo incredibile documento potesse arrivare nella storia. Una dimostrazione eccezionale di come la fiducia nell’umanità abbia preso il sopravvento sulla disperazione personale.
Un altro punto di vista personale sulla storia lo racconta Danese Henrik Olesen con una serie di collage che costruiscono un racconto visivo della storia dell’omosessualità. Mentre una breve storia dell’egocentrismo sono i 62 ritratti fotografici del cinese Ye Jinglu che dal 1901 al 1963 ogni hanno si fece immortalare. Forse per dimostrare, come diceva Eraclito, che alla fine si diventa quello che si è.
Ci sono poi i cento acquerelli di padre Korbinian Aigner. Un pomologo che passò la sua vita a disegnare e dipingere mele e pere. Ma l’epicentro di tutta la mostra è Partners o il progetto degli orsacchiotti. Una stanza a doppio livello stipata di orsetti e foto di gente con orsetti, 3000 in totale. Messo assieme nel 2002 dalla collezionista tedesca naturalizzata canadese Ydessa Hendeles questo progetto è un inno alla paura, alla disperazione e alla ricerca del conforto. Un’esperienza claustrofobica che però dà senso a tutta la mostra. Nelle cose e nel loro possesso noi cerchiamo un rifugio o un nascondiglio dove sentirsi anche illusoriamente confortati e protetti dalle infinite aggressioni del mondo esterno. The Keeper diventa allora il rifugio del curatore dove può mimetizzarsi nell’ossessione per le ossessioni sentendosi protetto dall’inevitabile e spesso inclemente giudizio del mondo esterno.
Francesco Bonami, La Stampa 20/8/2016