Silvia Guerriero, SportWeek 23/4/2016, 23 aprile 2016
UN GRAN SALTO VERSO RIO– [Gianmarco Tamberi] Manager personale, rappresentanti dello sponsor e Chiara, la fidanzata che ha sempre meno tempo di vedere: Gianmarco Tamberi arriva nello studio fotografico scortato come un calciatore
UN GRAN SALTO VERSO RIO– [Gianmarco Tamberi] Manager personale, rappresentanti dello sponsor e Chiara, la fidanzata che ha sempre meno tempo di vedere: Gianmarco Tamberi arriva nello studio fotografico scortato come un calciatore. Ci sono già i vestiti, quelli della nuova linea Nike e quelli eleganti, regalo di Corneliani e Coltorti per le ospitate in tv. Mancano solo Marco, l’onnipresente papà-allenatore, e la mezza barba, perché quella serve a gareggiare: ha portato fortuna anche a Portland, dove il 23enne marchigiano ha saltato 2,36 diventando campione mondiale indoor e volto copertina dell’atletica italiana. «Ma non chiedetemi foto rasato a metà, non vorrei diventare una macchietta». E no, decisamente non lo è. Anzi. Tanto estroso in pedana ed esuberante nella vita di tutti i giorni, quanto serio quando si allena e riflessivo mentre si racconta: anche in un’intervista, Gimbo sa come stupire. Soprattutto quando a un certo punto se ne viene fuori con «una cosa che non ho mai detto», e cioè «a dire la verità a me il salto in alto non piace». Scusi?? «Detta così è un po’ forte, lo so, ma lo faccio perché sono bravo, non perché lo amo. Non mi ha mai appassionato come per esempio il basket. Che nel 2009 ho dovuto lasciare per l’atletica: ho tenuto duro solo perché nel giro di tre anni sono migliorato di 30 centimetri, che nella mia disciplina è tantissimo, arrivando a 2,30 e qualificandomi per l’Olimpiade. Avevo tutto tranne... la testa: fino a tre anni fa uscivo tutte le sere e tornavo a casa alle 6 del mattino, mi svegliavo alle due del pomeriggio, pranzavo e dopo un paio d’ore mi presentavo all’allenamento che ero uno straccio. Insomma, l’anti-atleta per eccellenza. Infatti poi, nel 2013, sono iniziati i guai». Che cosa è successo? «Diciamo che ho esagerato: oltre alla vita che facevo, ho ripreso a giocare a basket, in Serie D. Ed è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo un sacco di problemi, fisici e anche mentali. Ma il più grande era che la mancanza d’amore per il salto in alto rendeva tutto difficile. Ho dovuto lottare come un cane e continuare a stringere i denti per uno sport che non era la mia passione e non mi stava riuscendo, anche dopo delusioni e pianti perché da ogni gara uscivo piangendo». Agassi, nell’autobiografia Open, ha raccontato che era arrivato a odiare il tennis, impostogli dal padre, eppure non poteva fare a meno di giocare. «Il mio non è un odio, e non sono stato obbligato a fare salto in alto. È stata una scelta mia. Diciamo che sono stato spinto, sia da papà (ex saltatore, olimpico a Mosca ’80; ndr) sia dagli amici. Mi dicevano che mi sarei mangiato i gomiti se non l’avessi fatto perché ero molto dotato: nel 2008 avevo fatto i campionati italiani studenteschi di salto in alto e li avevo vinti, senza aver mai fatto atletica prima. E tutti a dirmi: “Che cavolo stai a fare, a tirare la palla in un cesto?”. Me lo hanno ripetuto finché mi sono sentito un coglione. All’inizio, poi, avevo anche entusiasmo, perché facevo progressi incredibili. Pensavo “spacco tutto, non mi ferma più nessuno”: in quel momento mi sentivo un supereroe! Avevo appena iniziato e battevo gente che si allenava da una vita, e a Londra ero il più giovane saltatore. Fra me e me dicevo: “Pensa a quando farò l’atleta seriamente!”. Non voglio sembrare arrogante, ma con quella vita e quei risultati c’era di che montarsi la testa». Ma i suoi genitori non le dicevano niente? «Mia mamma impazziva, mio papà si incazzava. Ma è successo che proprio in quel periodo lì i miei si sono separati, per cui non volevano litigare anche con me e me le facevano passare tutte. E io ci marciavo. Inconsapevolmente». Quando è arrivato a toccare il fondo? «Alla fine del 2013; sono stato convocato a Roma da federazione, Fiamme Gialle e papà: mi hanno fatto un mazzo così. È stata la prima e unica volta in cui papà non è stato dalla parte mia. Mi hanno detto che se non avessi cambiato stile di vita mi avrebbero mollato tutti quanti. Papà è stato quello più pesante: quando mi ha detto che non mi avrebbe allenato più mi sono sentito il mondo crollare addosso. Pensavo: “Ho smesso il mio sport preferito per fare il tuo sport, per essere seguito da te e adesso che ci sono difficoltà mi molli così?! Ma vaff...”. Ecco, questo c’era nella mia testa. Mi sentivo tradito e ferito, per me la sua era stronzaggine a mille. Per un mese non ci siamo più parlati. Io, che vivevo con papà, sono andato a stare da mamma e mi sono allenato da solo. Stavo anche per smettere, perché il modo in cui mi allenava papà era, ed è, completamente diverso da tutti gli altri. Noi lavoriamo sulla velocità e non sulla potenza: cambiare tecnico avrebbe significato cambiare anche metodo e ricominciare tutto daccapo. L’altra possibilità era tornare da lui, alle sue condizioni». Ovvero? «Restare a casa la sera se il giorno dopo avevo allenamento, svegliarmi alle 9 tutte le mattine, non cenare più fuori, andare a dormire alle 11 e mezza al massimo. Già questo qui bastava... Però sono tornato e gli ho detto: “Va bene, seguo le tue regole”, provando comunque a rosicchiare qualcosa, ma lui è stato irremovibile. Ovviamente io ero sempre tesissimo e nervoso, era frustrante che lui mi avesse imposto quelle cose, trattandomi come un bambino. Ma era così, punto. Per 5-6 mesi sono stato ligissimo, non potevo sgarrare. Avevo capito che era o dentro o fuori, mi aveva dato un ultimatum: è stato molto severo, duro, però era l’unico modo per farmi cambiare e lui lo sapeva. Ma io questo l’ho capito molto tempo dopo...». Quanto è cambiato, adesso? «Beh, siamo arrivati al punto che papà mi dice: “Ma dai, esci una sera, vai a divertirti!”, e io niente perché Rio è un sogno talmente grande che non ho neanche più voglia di fare qualcosa che non sia per lo sport. Ma c’è stato un altro passaggio importante: all’inizio dell’anno scorso ho deciso di andare a vivere da solo. Papà era contrario, poi però ha riconosciuto che è stata la decisione giusta. Sto molto meglio, e lui pure. Il discorso di responsabilizzarsi, degli orari, di mangiar bene non stiamo neanche più a farlo, perché sono io che pretendo da me stesso certe cose. E adesso voglio anche di più: sono carichissimo!». Beh, con 5 gare su 5 vinte quest’anno ne ha tutte le ragioni. È anche campione del mondo: che effetto fa? «È molto bello ma sinceramente vedo gli altri più felici di quanto non lo sia io. Non vorrei essere monotono, ma ho Rio come unico obiettivo e le vittorie ottenute finora le considero solamente tappe in vista dei Giochi. L’anno scorso mi ero “imposto” di vincere una qualsiasi medaglia prima di Rio, per poi non potermi accontentare di un bronzo o un argento ai Giochi. Nella nostra disciplina è così: quando rimani in tre sai che comunque sali sul podio, e a quel punto può capitare di non lottare più per vincere. Poi è arrivata la medaglia più bella... Ci voleva, dopo la mazzata di Pechino (ottavo al Mondiale 2015 in cui era tra i favoriti; ndr). Quest’inverno ho fatto un gran lavoro, improntato a spingere al 600% in ogni allenamento, con tutti i dettagli curati in modo maniacale». Quindi a Rio... «... l’importante è partecipare (ride, ndr)! Dire che vado lì per fare il mio meglio è una stupidata. Un giornalista mi ha detto: “Rio sarà un bel trampolino per Tokyo 2020”. “Tokyo chi?”, ho risposto. Questa è l’Olimpiade mia. Non esiste altro, non può andare male. Voglio vincere». E sarà proprio lei l’uomo da battere... «Purtroppo di uomini da battere ce ne sono tanti. Okay, io ho vinto l’ultimo Mondiale, però non mi metto come il capo della fila. Anzi: il qatariota Barshim e il canadese Drouin sono più forti di me. Ma so che posso provare a batterli: il mio obiettivo resta l’oro». L’altro suo obiettivo di quest’anno era arrivare a 2,40. Giusto? «La misura è sempre molto stagionale come obiettivo, cambia rapidamente. È un sogno realizzabile, comunque». L’ha mai fatto in allenamento? «Macché, io in allenamento sono una pippa! Sono un animale da gara, un agonista nato. Quest’anno sto migliorando, ma fino all’anno scorso il mio record in allenamento era 2,20...». Che cosa le succede in gara? «Succede che mi trasformo, perché ho dentro tanta adrenalina e tanta cattiveria: è sempre così, anche quando gioco a carte. D’altronde vengo da una famiglia di sportivi (oltre al papà saltava il nonno, la mamma faceva il lungo e il fratello, Gianluca, lancia il giavellotto; ndr), voler vincere è nel nostro dna. A me poi, se perdo, rode dentro una cifra: ho proprio difficoltà ad accettare la sconfitta e sono molto autocritico. Dopo i Mondiali di Pechino sono stato incazzato nero per due settimane, non mi si poteva parlare. Per fortuna papà è molto più morbido di me». Suo padre aveva il record italiano di 2,28: l’ha “massacrato” quando lo ha superato la prima volta? «No, ma solo perché era una gara particolare: quella che mi ha dato il pass olimpico per Londra. Una gioia molto più grande dell’aver superato papà. Un po’ comunque gliel’ho menata...». Che cosa le resta dei Giochi del 2012? «Oddio, ero proprio un bimbo... Però aver già vissuto un’Olimpiade, anche se non da protagonista, è fondamentale in vista di Rio. Perché so che cosa mi aspetta: lì capisci davvero che il mondo si ferma a guardare quell’evento. Giri scortato da 25 macchine, ovunque vai trovi seimila fotografi, la gente ti vede col pass da atleta e ti ferma... è un mondo in cui siamo tutti Cristiano Ronaldo. E noi non siamo abituati. È difficile. Anche per questo ho deciso di portare in Brasile il mio mental coach, Luciano Sabbatini: le pressioni saranno sicuramente infinite». Anche perché lei è visto come il possibile salvatore della patria dell’atletica: è un peso o uno stimolo? «In realtà questa è una cosa che a me piace un sacco, mi dà molta energia in più. Spero solo che una volta là le pressioni non mi schiaccino, è l’unica paura». In che cosa la migliora il mental coach? «Mi fa sfogare ed elaborare ciò che mi succede. Secondo me mi dà le risposte che vorrei sentirmi dire, anche se in fondo le conosco già. Però se lo fa una persona competente e di cui ho stima, hanno un altro peso. Poi mi aiuta molto con le tecniche di visualizzazione. Stiamo già lavorando per Rio: già immaginiamo come sarà lo stadio, le persone che incontrerò, il mio stato d’animo... quando inizierà la gara, io l’avrò già affrontata un sacco di volte. Sarò un po’ emozionato, ma poi mi divertirò come sempre». Già, lei in gara è un vero istrione: si diverte e fa divertire... «È un mio modo di essere che porto anche in pedana. Dove gli altri non riescono a essere loro stessi: io ormai conosco bene tutti e vi assicuro che l’80% di loro non è musone come in pedana. Il mio modo di gareggiare invece è il mio modo di vivere, che è condividere con la gente le emozioni che provo. Mi piace ridere e scherzare, lo faccio anche lì. E il pubblico, quando l’ho conquistato, mi dà una carica pazzesca». Va bene se poi vince, ma se perde non rischia di sentirsi dare del buffone? «C’è qualcuno che magari lo pensa comunque, soprattutto se mi ha visto solo in tv. Allo stadio è diverso. Mi è capitato un sacco di volte, anche quando sono arrivato ultimo, che la gente smettesse di guardare la gara per venire a chiedere l’autografo a me. Forse il fatto che esca dagli stadi e senta che tutti sono innamorati dell’halfshave, di quel pazzo che salta con la faccia rasata a metà, è l’unica cosa che mi fa piacere questo sport».