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 2016  aprile 22 Venerdì calendario

CARNEGIE HALL – [NEW YORK LA CANTA E LA SUONA A TUTTI–]


Centoventicinque anni fa, era la primavera del 1891, un distinto compositore russo di mezza età si preparava, non senza qualche apprensione, a imbarcarsi per una lunga traversata dell’Oceano Atlantico. Si chiamava Pyotr Ilyich Tchaikovsky. Tempo prima gli era giunto un invito da parte di una coppia di miliardari americani, Andrew Carnegie e sua moglie Louise: voleva inaugurare la nuova sala da concerti che avevano appena finito di costruire a New York? «Tutti i giornali hanno scritto del mio arrivo» appunterà sul suo diario, «mi conoscono più qui che in Europa!». Il concerto ebbe luogo il 5 maggio con grande clamore: sala piena, dame in lungo, frac e carrozze. Tchaikovsky diresse la sua Marche Solennelle e stese la platea.
Oggi la Carnegie Hall, al numero 881 della 7ª Ave. (angolo con la 57esima), si trova più o meno nel mezzo di Manhattan, ma allora l’indirizzo era decisamente fuori mano. Eppure fu subito adottata dai newyorchesi e divenne una delle più prestigiose sale da concerto del mondo. Per festeggiare le 125 candeline esce adesso un cubitale cofanetto di 43 Cd, Great Moments at Carnegie Hall (Sony), che raccoglie le più significative incisioni registrate «live» dalla Rca Victor e Columbia/Cbs nel corso di quasi un secolo. Da Arturo Toscanini a Vladimir Horowitz, da Leontyne Price a Glenn Gould, da Jorge Bolet a Rudolf Serkin, le incisioni ci fanno viaggiare nel tempo e riassaporare l’atmosfera di quelle magiche notti, anche perché il suono è corredato da un libro splendidamente illustrato. Ma questa è solo una parte della storia. Ne esiste un’altra, anzi, molte altre, che i muri di quel massiccio edificio potrebbero raccontare.
Se questa strana e per certi versi segreta epopea fosse un film, la scena finale vedrebbe ondeggiare una gru, nel cielo terso dell’estate del 2010, alla quale sta appeso un pianoforte a coda: il traffico, decine di metri sotto, scorre indifferente. A nessuno frega nulla di quello che sembra l’ennesimo trasloco di New York. Ma quel piano ha un vecchio, eccentrico proprietario di nome Donald Shirley. Don è uno degli ultimi inquilini che vivevano nella Carnegie Hall, o meglio, sopra. Il pubblico e molti dei musicisti in cartellone hanno sempre visitato e frequentato le tre sale da concerto senza sapere che sopra c’erano decine di «studio» monolocali, mansarde, appartamenti, abbaini. Dagli anni Quaranta una comunità di artisti ci viveva a «fitto bloccato». Shirley, pianista classico che ha incrociato le mani persino con Duke Ellington, era lì dal 1955 in una casa diventata museo. Con lui c’erano stati fotografi, scrittori, ballerine, cantanti come Enrico Caruso che nella sala 826 registrò nel 1904 per la prima volta la sua voce. Negli anni ci sono passati Marlon Brando e Marilyn Monroe, che ci veniva a studiare recitazione, e vissuto per brevi periodi Leonard Bernstein e Norman Mailer.
L’idea era venuta a Andrew Carnegie, grande filantropo, fondatore di musei, scuole, biblioteche, che era nato in Scozia e aveva fatto fortuna in America con l’acciaio: pochi anni dopo l’inaugurazione fece costruire la celebre torre che rende l’aspetto del palazzo così singolare, e quindi decine di appartamenti proprio per ospitare professionisti dello spettacolo, insegnanti, impresari, che ci potessero lavorare. Negli anni Venti la vedova Louise decide di vendere, e da lì comincia una storia avventurosa perché nel frattempo quella parte di Manhattan si è valorizzata e l’immobile, grande come un isolato, è un patrimonio che fa gola agli squali del business immobiliare. Si arriva al punto, nel 1959, di sentirne annunciare la demolizione e veder circolare sui giornali il progetto di ciò che prenderà il posto della Carnegie: un grattacielo di uffici rosso fuoco. Gli inquilini, come la fotografa Editta Sherman, musa di Andy Warhol e ritrattista di celebrità quali Tyrone Power e Bela Lugosi, entrano in fibrillazione: Editta abitava nello studio 1.208 dal 1949. A scendere in guerra è anche uno dei più celebri violinisti del mondo, Isaac Stern, che considera impensabile l’abbattimento del palazzo. La sera del 10 gennaio 1960 raduna a casa sua imprenditori e politici. Riesce a coinvolgere il sindaco Robert Wagner Jr e poi a far firmare una legge dal governatore facendo in modo che il palazzo venga comprato dalla città di New York e dato in affitto a un consorzio che lo utilizzi secondo i fini originali.
Tra quelle mura non si è consumata solo la storia della musica, ma anche quella dell’America. Qualcuno scrisse che la notte dell’11 febbraio 1901 il grande Mark Twain, alla Carnegie, «salvò la nazione»: nel giorno del compleanno di Abraham Lincoln (era nato il 12 febbraio 1809) introdusse il confederato ed eroe Henri Watterson con un discorso che incendiò la platea e segnò la riconciliazione tra sudisti (come lui) e i nordisti che avevano vinto la guerra di secessione: «Le vecchie ferite sono guarite e ora siamo fratelli» arringò Twain, «ed è un onore aver combattuto per una causa persa e un privilegio essere adesso qui a cantare uniti per la grande America».
Ebbene, nel 1960 la battaglia era vinta di nuovo e il palazzo restava in piedi, e oggi l’auditorium principale con la sua acustica perfetta è intitolato proprio a Isaac Stern. Qui il 23 febbraio 1968 Martin Luther King, poche settimane prima del suo assassinio (il 4 aprile), tenne uno dei suoi ultimi discorsi. Quattro anni prima, la Carnegie Hall aveva ospitato il debutto americano dei Beatles (il biglietto costava 5 dollari e mezzo), seguiti pochi mesi dopo, nel giugno del 1964, dai Rolling Stones. E mentre sul palco si scrivevano pagine di storia dello spettacolo, ai piani alti proseguiva la vita di un popolo che aveva trovato il suo paradiso in terra. C’era Robert Modica, stimato insegnante di recitazione (tra i suoi allievi John Turturro), inquilino dal 1964, mentre la cantante Jeanne Beauvais ci stava dal ’41. E continuava a viverci l’ormai mitologica Editta Sherman nel suo vasto studio dal pavimento bianco e nero: la «duchessa dalla Carnegie», da buona oriunda italiana, era considerata una specie di mamma che non negava un brodo di pollo a nessuno. Sua vicina era la poetessa Elizabeth Sargent, schiva autrice di poesie d’amore, presente nel palazzo dagli anni Sessanta. «Un segreto villaggio bohémien» lo ha definito Josef Astor, anche lui inquilino e autore del documentario Lost Bohemia, che racconta gli ultimi anni della comunità, della quale forse il più famoso esemplare è stato quel Bill Cunningham che i lettori del New York Times conoscono da decenni per le sue cronache fotografiche delle strade di New York, sorta di Monsieur Hulot che si aggira con bici e obiettivo fissando le mode e i party che colorano la vita della metropoli. Cunningham (e lo si può vedere nel bel film Bill Cunningham New York) viveva in un microscopico studio, con una branda tra gli archivi, le camicie appese ai raccoglitori e il bagno in corridoio. Mai avuto una cucina. Nel 2007 l’idillio si spezza: i gestori dell’immobile vogliono ristrutturare e nel 2010 lo sfratto diventa esecutivo. A coloro che avevano canone bloccato verranno trovati nuovi alloggi. Bill è tra questi, come Donald il pianista, che mostrerà a tutta la città lo sfregio calando il suo pianoforte con la gru. Stessa sorte per Editta Sherman, che morirà nel 2013 a 101 anni.
Dicono che anche dopo lo sgombero qualcuno degli inquilini avesse conservato l’abitudine di tornare nell’edificio, risalire le scale, sbirciare negli studi trasformati, respirare l’aria di un tempo. Lì c’era stata una comunità: qualcosa, disse uno di loro, che non si può comprare e sicuramente non si può vendere.
Alberto Riva