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 2008  marzo 11 Martedì calendario

Un libro, di Sylvia Nasar e un film, diretto da Ron Howard, entrambi intitolati ’A Beautiful Mind’ e di grande successo, hanno raccontato la storia di John Nash, il genio che ha legato il suo nome a una serie di risultati ottenuti nel giro di una decina d’anni e pubblicati in una decina di articoli, un paio dei quali gli sono valsi il premio Nobel per l’economia nel 1994

Un libro, di Sylvia Nasar e un film, diretto da Ron Howard, entrambi intitolati ’A Beautiful Mind’ e di grande successo, hanno raccontato la storia di John Nash, il genio che ha legato il suo nome a una serie di risultati ottenuti nel giro di una decina d’anni e pubblicati in una decina di articoli, un paio dei quali gli sono valsi il premio Nobel per l’economia nel 1994. È una tragica ironia del destino che un uomo (oggi 80enne, è nato nel 1928 a Bluefield in Virginia) che ha vissuto 25 anni da squilibrato, soffrendo di schizofrenia paranoide e credendosi l’imperatore dell’Antartide e il Messia, sia passato alla storia per aver introdotto la nozione di ’equilibrio’ che porta il suo nome, ed è universalmente usata nella teoria dei giochi (che analizza le situazioni del conflitto cercandovi un apporto di razionalità): di un comportamento, cioè, che non può essere migliorato con azioni unilaterali, nel senso che lo si sarebbe tenuto anche avendo saputo in anticipo il comportamento dell’avversario. Questa ’mente meravigliosa’ ha partecipato lo scorso anno al Festival di Matematica di Roma, e la cosa dev’essergli piaciuta: ci ritorna quest’anno per una conversazione pubblica con Robert Aumann, anch’egli un teorico dei giochi premiato col Nobel per l’economia nel 2005. Per l’occasione abbiamo chiesto a Nash di ripercorrere con noi alcune delle tappe della sua vita e della sua carriera. Professor Nash, l’anno scorso al Festival lei ha giocato una partita a scacchi con l’ex campione del mondo Spassky. Com’era andata? "Come principiante non ho potuto fare molto. Quando Spassky ha fatto una certa mossa con il suo alfiere, ho pensato che ci fosse un tranello e non ho risposto nella maniera ovvia. Invece il tranello era appunto quello, che non c’era tranello". Gli scacchi possono essere una metafora della matematica, o viceversa? "Ci sono molte somiglianze tra un teorema e una partita: ad esempio, nella precisione e nella bellezza. Giocare bene è come fare una bella dimostrazione". A proposito di giochi, lei ne ha inventato uno chiamato Hex. "Sì, all’inizio dei miei studi, nel 1949. L’ho fatto per illustrare in pratica alcuni concetti teorici. È un gioco in cui il primo giocatore ha un vantaggio teorico nei confronti del secondo, ma non sa come sfruttarlo in pratica". L’ha mai commercializzato? "A Princeton è stato molto popolare al dipartimento di Matematica. Ma quando cercammo di venderlo a un editore, scoprimmo che qualcuno in Danimarca lo aveva già introdotto". Com’è arrivato a interessarsi della teoria dei giochi? "Era stato pubblicato da poco il libro di von Neumann e Morgenstern ’La teoria dei giochi e il comportamento economico’, che oggi è un classico. E in quel libro si faceva un parallelo molto ambizioso e attraente con l’economia". Lei all’epoca si interessava già alle applicazioni economiche? "Avevo un certo interesse. Prima di andare a Princeton avevo seguito un corso di economia, oltre a quelli di matematica, fisica e chimica". E quelli furono gli unici studi di economia che fece? "Da un punto di vista formale, sì". Lei ha studiato a Princeton quando Einstein insegnava lì. Lo ha mai incontrato? "Sì. All’epoca riflettevo anche sulla cosmologia e sulla gravitazione, e sapevo che lui aveva una personalità stimolante. In fondo anche lui era un matematico, e i suoi studi sullo spazio-tempo erano dei pezzi di bravura matematica". Spiegò le sue teorie ad Einstein, dunque? "Sì, ma lui non aveva molto tempo per ascoltare. Mi disse che avrei dovuto studiare di più". In pratica, la rimandò a scuola? "Sì, diciamo così". Nel film ’A Beautiful Mind’ c’è un’unica scena in cui si accenna alla teoria dei giochi. "Ho apprezzato molto il lavoro del regista e dello sceneggiatore. La teoria dei giochi non è che si possa applicare a qualunque cosa, ma in quella scena del film sono riusciti a concentrare l’attenzione su alcuni interessanti elementi psicologici". Sono riusciti a spiegare la sua teoria, dell’equilibrio di Nash? "Non credo che ci abbiano seriamente provato". Perché non prova lei a spiegarcela, in quattro parole ? "Un gioco può essere descritto in termini di strategie, che i giocatori devono seguire nelle loro mosse: l’equilibrio c’è, quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare, occorre agire insieme". Italo Calvino, ha scritto una frase che molti usano per descrivere la teoria dell’equilibrio di Nash: a volte nella vita non riusciamo a raggiungere il meglio, ma almeno possiamo evitare il peggio. È una buona descrizione della sua nozione? "Direi di sì. Perché unilateralmente possiamo solo evitare il peggio, mentre per raggiungere il meglio abbiamo bisogno di cooperazione". Ci vuole parlare delle sue vicende personali? "Allude alla mia malattia? Ebbene, era l’anno 1962. Avevo 34 anni. Successe qualcosa che mi portò lontano dalla matematica: incominciai a soffrire. Mi hanno diagnosticato un tipo di schizofrenia molto raro". Aveva allucinazioni, visioni, come nel film? "Visioni no, almeno non agli inizi: non è che quando si sta male si abbiano necessariamente illusioni visive, come nel film. Le allucinazioni, più che su qualcosa che si vede, sono su qualcosa che si pensa. In seguito le mie furono anche uditive, sentivo delle voci". Potrebbe fare qualche esempio di allucinazione non sensoriale? "Visto che siamo alla vigilia delle elezioni. Immagini una persona che dovrebbe essere democratica, ma pensa da repubblicano. O una che dovrebbe essere repubblicana, e pensa da democratico". E come ci si accorge che questo è uno stato allucinatorio? Ad esempio, come facciamo a sapere se uno che vota Berlusconi o Veltroni è una persona sana che vuole veramente votare per loro, o uno schizofrenico che vorrebbe votare per l’altro? "È complicato. Ma comunque, scherzi a parte, la psicosi è un fatto reale, non illusorio, e ci sono stadi diversi di psicosi". Parliamo di matematica: che legame c’è tra essa e il pensiero allucinatorio? "Io direi nessuno. Nel suo lavoro il matematico deve pensare in termini razionali e logici, anche se può commettere errori. Come uno scacchista, d’altronde". Qualcuno pensa, o almeno dice, che troppa logica fa diventare matti. "Non ho molta esperienza, ma il matematico italo-statunitense Giancarlo Rota ha scritto in un suo libro che i logici effettivamente sono un po’ tutti matti". Io sono un logico... "Sì, ma non dev’essere paranoico e pensare che mi riferisca a lei. Se no, finisce per darmi ragione. In ogni caso, io credo che Rota avesse abbastanza colto nel segno". E dove starebbe il nesso fra logica e follia? Forse nel fatto che il pensiero logico è astratto, e tende a essere distante dal mondo reale? "Direi piuttosto che il pensiero logico deve essere introspettivo, mentre il pensiero matematico deve guardare alla realtà". E la sua esperienza coi logici conferma la sua teoria? "Abbastanza. Ad esempio, ho incontrato il grande logico Alonzo Church, che a onor del vero non è mai stato matto, né sul punto di diventarlo, ma certo si comportava in maniera molto strana. Aveva una caratteristica tipica dei pazienti psichici: parlava con se stesso, da solo, mentre camminava. E si mangiava tutti i biscotti alle feste". E di Kurt Gödel, grande logico, anch’egli professore a Princeton, scomparso 30 anni fa, cosa può dirci? "È anche lui un esempio di ciò che stiamo dicendo. La sua follia lo condusse addirittura alla tomba, perché si lasciò morire di consunzione. E sicuramente anche prima aveva forti elementi di eccentricità". Abbiamo parlato di scacchi, e sembra che anche lì ci sia un legame con la follia: basta ricordare Bobby Fischer, che è morto da poco in circostanze simili a quelle di Gödel, perché non si lasciò curare di una malattia banale. "Fischer non sembrava razionale a parlarci, ma giocava in modo razionale". Lei da malato riusciva a fare matematica? "Il delirio non era continuo, ma intermittente: le crisi andavano e venivano, e quando accadevano mi sentivo come sotto tortura. Si trattava di stati di irrazionalità che io stesso, nei momenti di lucidità, non accettavo. E quando tornavo razionale, ero pronto a lavorare e a fare ricerca". Questo avveniva negli anni ’60. E negli anni ’70? "Negli anni ’70 non ho lavorato. Negli anni ’80 coltivavo i miei hobbies, dall’informatica ai programmi statistici. Passavo da un’attività all’altra". Si può dire che la matematica le sia stata d’aiuto per la sua malattia? "Se una persona ha problemi mentali è come se fosse scollegata dalla realtà, e qualunque tipo di terapia psicologica può esserle di aiuto. Quando, in concomitanza con la farmacoterapia, si è introdotta anche la psicoterapia, l’interazione fra le due cose è sicuramente stata di aiuto". Ha detto prima che a un certo punto ha cominciato a sentire delle voci. Nella storia ci sono altri esempi: il Socrate platonico, ad esempio, diceva anche lui di sentire una voce. "Sì chiamavano demoni, all’epoca. E si parlava di sogni in cui uno aveva l’impressione di ricevere il messaggio di Dio". Sogni e voci, però, sono cose diverse. "Un sogno non è considerato un’allucinazione, ma se ci si crede, l’effetto potrebbe essere lo stesso. Se Dio non esiste, ma tu hai l’impressione di sentire la voce di Dio, cosa cambia?". Possiamo allora classificare come schizofrenici tutti quelli che nella storia hanno sentito delle voci? "Forse sarebbe esagerato, ma certo sentire delle voci non è un fatto positivo". Com’è avvenuta la sua ripresa? "È stata una ripresa progressiva. Mi sono reso conto che certe cose non erano fondate". E alla fine sono arrivati il Premio Nobel e la fama. "Il Nobel mi ha dato la possibilità di portare avanti il mio lavoro. Mi sono occupato di nuovo di teoria dei giochi e di cosmologia, e ho sviluppato qualche idea nuova". Quanto è cambiata la sua vita, dopo il Nobel? "Per molti il Nobel non ha cambiato molto la loro vita, o solo in misura molto modesta: avevano già avuto i loro risultati, e il premio ha solo aggiunto un onore. Per me invece è stato diverso, perché nel 1994 io non avevo neppure un lavoro. E dopo l’ho avuto. Forse, se non avessi vinto il Premio Nobel, per me ora sarebbe tutto diverso".