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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

INTERVISTA A MASSIMO CIALANTE

L’Aquila, marzo
Le avevano presentate come la salvezza dell’Aquila e della sua gente, ma adesso sembrano terremotate anche loro. A Cese di Preturo, a Sassa, ad Arischia, le New town, nuove città volute dall’allora premier Silvio Berlusconi e dal capo della Protezione civile Guido Bertolaso per sistemare migliaia di senza tetto, dopo nemmeno sette anni cadono a pezzi. Devono essere sgomberate e puntellate come se il sisma del 6 aprile 2009 avesse colpito anche loro.
In realtà sono nate male. Il legno usato nella costruzione, privo di trattamenti isolanti, si è imbevuto di umidità e ora si lascia andare come un biscotto inzuppato nel latte. Balconi che crollano, pavimenti che si affossano e minacciano di sfondarsi. La Pm dell’Aquila Roberta D’Avolio ha aperto un’inchiesta per frode, falso e truffa ai danni dello stato per 18 milioni di euro. Dopo le indagini del Corpo forestale dello Stato, agli atti ci sarebbe già un indizio: i 494 appartamenti, costati in media 2.700 euro al metro e distribuiti su 18 piastre antisismiche, sono stati tutti realizzati dalla stessa ditta, la Iter di Napoli.
Dopo crolli e indagini, il 25 febbraio Stefano Palumbo, capogruppo della maggioranza Pd, ha presentato al consiglio comunale dell’Aquila un ordine del giorno per «avviare un ragionamento» sui 4.439 alloggi delle New Town. Il ragionamento si è subito esaurito in una parola: smantellamento. Il primo a pronunciarla è stato il sindaco Massimo Cialente: «Per il governo erano strutture durevoli», ha detto, rivelando un risvolto poco noto, «ma per l’Unione Europea, che aveva pagato 493 milioni sui 900 complessivi, dovevano essere demolite al termine dell’emergenza».

Tutti d’accordo sull’opzione ruspe
Da destra a sinistra, l’opzione ruspe all’Aquila mette d’accordo tutti. Nonostante il consenso, però, Cialente non riesce a mantenere il sangue freddo. Sono passati quasi sette anni. Ma per lui, sindaco del terremoto, è come se fosse passata una settimana. Dal Gran Sasso spira su Cese di Preturo un vento gelido. Cialente è un fiume in piena. Come se le emozioni e le lacrime della primavera 2009 non avessero smesso mai di circolare.
«Questa è stata la fogna del sistema paese, organi d’informazione compresi», attacca Cialente, «il malaffare e il torbido sono venuti qui per conto dello Stato e prima o poi darò nomi e prove, racconterò L’Aquila show. Ma per mesi tutto il mondo ha parlato di ’sta m… Il miracolo italiano che cancellava la vergogna del Belice. La gente sistemata in sei mesi. Il cancan di giornali e Tv. Ne abbiamo viste di tutti i colori. Roba da barzelletta. Berlusconi alla consegna delle case di Onna costruite dalla Croce Rossa riuscì a infilare nel discorso del vescovo una pagina in cui si tessevano le sue lodi, e non contento la rilesse la sera stessa a Porta a Porta. C’ero anch’io da Vespa e rimasi senza parole. Il terremoto era diventato uno spot colossale per il centrodestra. La sinistra messa all’angolo rosicava. E noi dell’Aquila in mezzo a fare da spettatori».

E cosa dicevate?
«Non le volevamo queste case. Perché spendere tutti quei soldi, quasi un miliardo di euro, quando c’era la nostra città da rimettere in piedi? Serviva roba provvisoria, case su ruote da rivendere a fine emergenza a campeggi e camperisti, per risparmiare e concentrare le risorse sulla ricostruzione».

E perché allora non vi siete battuti per quello?
«Da sindaco ho fatto come la moglie che per il bene dei figli subisce botte, corna e umiliazioni dal marito ubriaco. Nessuno ci avrebbe ascoltato. La Protezione civile di Bertolaso era una poderosa macchina di comunicazione. Ci hanno ridotti al silenzio, si faceva quel che dicevano loro. Il giorno dopo il terremoto arriva Berlusconi, fa un giro in elicottero sulla città distrutta, m’incontra e dal primo istante mi parla delle New Town. “Vedrai”, mi dice, “le persone con 40 o 60 metri quadri sono felici, gli facciamo le strade, la pista ciclabile, la gente vive contenta e poi un domani ti serviranno per gli anziani”. Avevano già in mente tutto, andavano avanti come panzer. Non avevamo ancora sepolto i nostri morti e già loro sapevano che fare di noi vivi».
Vuol dire che contrariamente ai messaggi tranquillizzanti fatti passare attraverso la commissione Grandi Rischi, si aspettavano un terremoto all’Aquila?
«No, sto dicendo un’altra cosa. La Protezione civile aveva pronto un modello d’intervento e non vedeva l’ora di metterlo alla prova nella prima catastrofe, terremoto o alluvione che fosse. Senza capire che un conto è intervenire in dieci paesini, un conto è farlo in una città. Senza capire che quel modello avrebbe ucciso la città».

Perché l’avrebbe uccisa?
«Perché in fondo era quello che volevano. Per due ragioni. La prima di opportunità economica. L’Aquila era in macerie e per molti non valeva la pena ricostruirla. Il Progetto case, presentato nel decreto 39 come intervento durevole, doveva sostituire la città distrutta. La beffa è che il Progetto case oggi va in pezzi e davanti ai crolli, agli impianti antisismici che non funzionano, vengono indagati i miei tecnici che avrebbero dovuto occuparsi della manutenzione».

La seconda ragione?
«Opportunismo della peggior specie. Il centrodestra abruzzese si giocò la partita per dividersi le spoglie dell’Aquila. L’ho capito la notte del 4 maggio 2009 davanti a un’ordinanza della Protezione Civile che di fatto faceva di noi una nuova Pompei. Tutti gli uffici pubblici, le agenzie regionali e gli ospedali volevano trasferirli ad Avezzano o Pescara, l’ospedale con tutte le specialità andava a Teramo, l’università di Ingegneria a Celano. Ognuno si pigliava un pezzo e gli aquilani venivano dispersi come profughi, nelle città vicine, negli alberghi sulla costa, nelle New Town. Era la morte della città».

Come lo avete impedito?
«Quella notte ho fatto il pazzo. Diedi venti minuti a Bertolaso e agli altri per abbandonare L’Aquila. Vi do venti minuti, dissi, dopodiché farò scendere la gente in piazza e non potrò più garantire la vostra incolumità perché io chiederò il vostro sangue agli aquilani, chiederò che vi taglino la testa. Avvisai i generali che avrebbero dovuto sparare sulla folla. Giuro sulla tomba di mia madre che l’avrei fatto».
Cosa le fece cambiare idea?
«Bertolaso provò a convincermi: non rompere il giocattolo, mi ripeteva. Ma io il giocattolo lo volevo distruggere. In quella fase l’unico a capire fu Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. La sua fu una mediazione decisiva. Alle 3 di notte Berlusconi ritirò l’ordinanza e io mi tranquillizzai».

Non ha più dovuto fare il pazzo?
«Non ho mai smesso. Quando nel 2013 è nato il governo di Enrico Letta e ho visto che non era previsto un finanziamento per l’Aquila, ho fatto togliere la bandiera dagli edifici pubblici, sono andato da Napolitano e gli ho restituito la fascia tricolore. Mi diedero 1,2 miliardi per sei anni. E adesso con quello che ci ha dato Renzi, un miliardo l’anno per i prossimi cinque anni, la città potrà rinascere».

A che punto siete?
«Abbiamo ricostruito il 95 per cento delle periferie e abbiamo riportato a casa 44 mila persone. Gli alloggi delle New Town per il 40 per cento sono vuoti, li assegniamo a famiglie povere e giovani coppie. Nel centro storico va avanti il recupero di edifici privati, mentre sul fronte pubblico è tutto fermo. Ma ho fiducia. Tra un anno io mollo, ho gà fatto due mandati e ci saranno nuove elezioni. Ma se tutto va avanti così per il 2020 avremo un centro storico arrapante, meglio di Trastevere e Montmartre».

E le New Town?
«Quando l’ultimo degli sfollati rientra a casa, si smantella. Terremo le più belle e butteremo giù il resto. Il problema sono le piastre antisismiche. Non sappiamo quali funzionano e quali no, smantellarle costerebbe una fortuna e noi non abbiamo soldi da buttare. Europa permettendo, potremmo riutilizzarle per farci ville o negozi. Ce lo dica chi le ha volute cosa dobbiamo fare»