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 2016  marzo 03 Giovedì calendario

UN DEPOSITO PER I RIFIUTI RADIOATTIVI


A fine di luglio dello scorso anno, sulle principali reti televisive nazionali italiane è andato in onda uno spot particolare. Il tuffo di un ragazzo mostrato al contrario, i capelli di una donna che si riattaccano al capo, il tuorlo e l’albume che rientrano nel guscio mentre una persona cucina. «Sullo smaltimento dei rifiuti radioattivi diceva la voce fuori campo non siamo andati avanti».

La campagna informativa, creata dalla quotata agenzia pubblicitaria internazionale Saatchi & Saatchi, aveva lo scopo di far tornare l’attenzione su un tema che è scomparso da tempo dal dibattito pubblico italiano: il futuro delle scorie nucleari nel nostro paese. Sono trent’anni ormai che in Italia non si produce più energia elettrica da fonte nucleare, eppure solo oggi si comincia a intravedere una soluzione definitiva per il problema dei rifiuti radioattivi. Dopo decenni di ritardi, lentezze burocratiche e passi falsi, SOGIN (che sta per Società gestione impianti nucleari), il gruppo interamente di proprietà del Ministero dell’economia e delle finanze che si occupa del decommissioning degli impianti nucleari italiani, ha completato studi e progetti e ha fornito al governo tutti i materiali per decidere dove e come costruire il deposito unico nazionale, dove gran parte dei rifiuti radioattivi prodotti in Italia sarà custodita in modo permanente.

In totale, il deposito smaltirà 75.000 metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media radioattività prodotti e che continueranno a prodursi nei prossimi decenni, dagli impieghi non energetici sul territorio nazionale. Sono rifiuti che oggi sono sparsi in numerosi depositi sul territorio italiano, e che in almeno un caso si trovano in condizioni meno che ottimali. A Statte, alle porte di Taranto, i rifiuti radioattivi sono abbandonati in un capannone in attesa di bonifica, dopo il fallimento di CEMERAD, l’azienda che lo gestiva. Per la maggior parte, comunque, i rifiuti si trovano in strutture controllate e monitorate, negli altri 22 siti temporanei sparsi per il territorio nazionale, dal Piemonte alla Sicilia.

Il nostro passato nucleare

L’Italia è stato il primo grande paese a decidere di interrompere il suo programma di produzione di energia elettrica da fonte nucleare. Nel 1987, l’anno del referendum abrogativo, cerano quattro centrali nella penisola. Quella di Garigliano, in provincia di Caserta, aveva prodotto energia a partire da aprile 1964, ma era stata fermata per manutenzione nel 1978 e chiusa definitivamente quattro anni più tardi. Le tre ancora attive erano quelle di Latina, dal maggio 1963, Trino Vercellese, entrata in funzione a ottobre 1964, e la più recente e più grande d’Italia, Caorso, in provincia di Piacenza. Al momento della sua entrata in esercizio, nel dicembre 1981, era la più potente d’Europa.

Di fatto, al momento del referendum, l’incertezza che era seguita all’incidente di Chernobyl del 1986, in Ucraina, nell’allora Unione Sovietica, aveva già portato a un fermo di tutti gli impianti nell’arco dei mesi precedenti. In occasione della periodica ricarica del combustibile, le centrali erano state fermate e non più riattivate. Diciannove mesi dopo il disastro in Ucraina, nei tre quesiti referendari sul nucleare i «sì» vinsero con percentuali tra il 70 e l’80 per cento. L’Italia quindi diventò anche il primo paese a doversi porre la domanda: che fare delle centrali?

Nonostante abbia smesso di produrre energia elettrica da quasi trent’anni, l’edificio cilindrico che ospita il reattore della centrale di Caorso, con i suoi 45 metri di altezza, si intravede ancora dall’uscita dell’autostrada A1. Per arrivare ai cancelli, però, bisogna percorrere ancora qualche chilometro nelle campagne a poca distanza dal Po, che in quel tratto segna il confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna.

Alla fine degli anni ottanta, in pochi avevano un’idea chiara di che cosa fare di un impianto nucleare spento. La teoria più accreditata era la cosiddetta «custodia protettiva passiva»: rimuovere tutte le parti debolmente contaminate o pulite, chiudere l’impianto e attendere tra i 50 e i 200 anni che il decadimento radioattivo facesse il suo corso, e solo allora procedere allo smantellamento del grosso della struttura.

«Vari studi a livello internazionale portarono a concludere, alla fine degli anni novanta, che non si trattava di una strategia del tutto perseguibile», dice Davide Galli, responsabile SOGIN del decommissioning per i siti nucleari dell’Italia settentrionale. «Ci si rese conto che si sarebbe perso il know-how del personale che, avendo lavorato alla centrale in esercizio, avrebbe potuto rendere molto più semplici le attività di smantellamento». Nel 1999 l’Italia decise di cambiare strategia, passando dalla custodia protettiva passiva al decommissioning della centrale in una fase unica o «accelerato». Significa, in pratica, iniziare lo smantellamento di una centrale al momento dello spegnimento e completare il processo senza aspettare molti decenni. Anche se elimina la lunga fase di attesa, il decommissioning accelerato non è comunque un procedimento veloce, come dimostrano le imponenti strutture della centrale di Caorso.

Dopo la fermata delle centrali nel 1986-1987, i siti rimasero di proprietà dell’ENEL per oltre un decennio. Il decommissioning è cominciato con la costituzione di SOGIN, alla fine del 1999. Nella società pubblica lavorano ancora diversi tecnici e ingegneri che gestivano gli impianti e le centrali italiane quando erano ancora in funzione. «Il decommissioning della centrale è cominciato nel 2000», conferma Galli.

Anche se, vista dall’esterno, la centrale di Caorso può apparire intatta, diversi passi avanti sono già stati fatti negli ultimi anni. Sono state demolite le torri RHR, che servivano a rimuovere il calore residuo all’interno del nocciolo del reattore, il camino e l’impianto di trattamento degli scarichi gassosi, e smontati i componenti del ciclo di produzione, ovvero le turbine e gli alternatori che usavano il vapore per produrre energia elettrica. I materiali metallici decontaminati, alcune migliaia di tonnellate, sono stati mandati in fonderia per essere recuperate per altri scopi civili.

A «quota 90», così chiamata perché si trova a 90 metri sul livello del mare, c’è la grande sala circolare da cui si effettuavano le operazioni di carico e scarico del combustibile del reattore. Il nocciolo (o vessel), dove avveniva la fissione nucleare, la reazione di scissione dei nuclei di combustibile che produce energia, si trova parecchi metri sotto il grande sigillo di cemento armato che lo chiude. In una delle due piscine di stoccaggio del combustibile ai lati del coperchio sono riposte ancora, da quasi vent’anni, alcune barre di controllo del reattore, schermate da diversi metri d’acqua. Le barre di controllo sono in grado di assorbire molti neutroni rimanendo stabili, e sono quindi usate per controllare la fissione del combustibile, che può essere formato da uranio e da plutonio.

È all’interno del reattore, sotto il sigillo di cemento, che si trovano le parti più pericolose della centrale di Caorso, quelle con il maggior contenuto di radioattività. Diventeranno «rifiuti di terza categoria», o rifiuti ad alta radioattività nella nuova classificazione adottata ad agosto 2015.

Nel complesso, solo 1’1,5 per cento del peso totale dei materiali che costituiscono l’impianto (320.000 tonnellate) diventeranno rifiuti radioattivi al termine del processo di decommissioning, circa 4800 tonnellate. Le parti più radioattive, cioè il combustibile nucleare che generava il 99 per cento della radioattività totale nell’impianto, sono già state rimosse. Le barre che al momento dello spegnimento non erano state usate, circa un terzo del totale, sono state vendute all’estero. Le 190 tonnellate di combustibile già irraggiato, invece, sono state inviate tra il 2007 e il 2010 a un impianto di riprocessamento gestito dalla francese AREVA a La Hague, nel nord della Francia. Il riprocessamento serve a separare, attraverso processi chimici, i diversi elementi presenti nel combustibile nucleare già usato. Dopo che sarà finito – e comunque non prima del 2025 – i residui del riprocessamento dovranno però tornare in Italia. Saranno pochi metri cubi di rifiuti ad alta attività – intorno alle 8 tonnellate – che andranno al deposito nazionale, in vista della loro sistemazione definitiva in un deposito geologico europeo (ancora da individuare).

Combustibile a parte, circa 2400 metri cubi di rifiuti radioattivi sono oggi stoccati in depositi temporanei all’interno del perimetro dell’impianto. Nei depositi a bassa attività, i fusti metallici sono impilati l’uno sull’altro a tre a tre, con il simbolo della radioattività ben visibile in vernice nera. L’aspetto esterno non è diverso da un qualsiasi capannone industriale, non fosse per il cartello che lo designa come «zona controllata» per i suoi livelli radiologici ed elenca i comportamenti vietati.

Questo deposito di Caorso, una struttura semplice e temporanea, non restituisce un’idea di come potrebbe essere il grande deposito unico nazionale. Una struttura che in qualche misura gli si avvicina di più si trova a Ispra, 130 chilometri a nord di Caorso, tra i boschi e le colline sulla sponda lombarda del Lago Maggiore. Un sesto del territorio del Comune è occupato dal sito più grande del Joint Research Centre (JRC), l’ente di ricerca della Commissione Europea, che ha strutture in cinque paesi europei. Qui, in provincia di Varese, c’è la sua sede maggiore. Si estende per 170 ettari (di cui 100 coperti da aree verdi), attraversati da 36 chilometri di strade. Al suo interno sorgono più di 400 edifici, in cui lavorano quasi 2300 persone. Vi si effettuano ricerche su ambiente, materiali, emissioni inquinanti degli autoveicoli e organismi geneticamente modificati. Ma se il sito è interamente chiuso da un’alta recinzione metallica, e i controlli di sicurezza all’ingresso sono molto stringenti, è soprattutto perché parte del passato e del presente del JRC è ancora legato al nucleare.

Per i primi vent’anni della sua storia, infatti, a Ispra si sono portate avanti attività di ricerca nucleare. Le prime cominciarono sotto l’egida del Comitato nazionale per le ricerche nucleari (CNRN), l’allora ente di coordinamento dell’atomo italiano, nato all’inizio degli anni cinquanta. Ad aprile 1959 venne messo in funzione il reattore Ispra-1, il primo sul territorio nazionale e su cui si formarono molti tecnici nucleari italiani. Pochi mesi dopo venne firmato l’accordo tra governo italiano ed EURATOM, la Comunità europea dell’energia atomica, per stabilire un centro di ricerca comune europeo sull’energia nucleare. Tra le molte strutture costruite negli anni successivi c’è un altro reattore, il progetto sperimentale ESSOR, attivo dal 1968 al 1983.

Ma a partire dai primi anni ottanta il focus della ricerca scientifica a Ispra si era spostato dal nucleare ad altri settori. «Oggi il nostro interesse principale è per altri temi, come l’efficienza energetica», dice Dan Chirondojan, direttore del sito di Ispra. Alla gestione dei rifiuti radioattivi e allo smantellamento delle strutture legate al nucleare sono destinate 65 persone, più un centinaio di contractor selezionati con gare di appalto internazionali (circa il 40 per cento sono state vinte da ditte italiane). Le attività di decommissioning nel centro di Ispra sono cominciate nel 1999 e proseguiranno, si prevede, per circa trent’anni, al costo di circa 750 milioni di euro, di cui 200 già spesi. Tutti i finanziamenti vengono dal bilancio dell’Unione Europea.

Il segno più visibile di questa attività è la nuova Interim Storage Facility (ISF), il deposito per rifiuti radioattivi temporaneo terminato nel 2013 e costruito in soli due anni con la tecnologia del prefabbricato: «Un esempio unico al mondo», e certo in Italia, sottolinea l’ingegnere Francesco Basile, project controller dell’unità JRC responsabile del decommissioning. Più che un capannone industriale, il deposito di Ispra sembra un’installazione militare. Spesse pareti di cemento racchiudono una struttura da 13.000 metri cubi, in grado di ospitare 2500 degli speciali contenitori per i rifiuti progettati dallo stesso JRC. L’ISF, realizzata da un’azienda italiana del gruppo Gavio e costata circa 10 milioni di euro, è pensata per ospitare i rifiuti radioattivi del JRC Ispra per un massimo di cinquant’anni. La struttura è ancora vuota, e dovrebbe restarlo per un altro paio di anni. Nei grandi spazi interni si trovano solo i due massicci carrelli elevatori elettrici e i contenitori che hanno subito le varie prove tecniche per testarne solidità e durata, in un’involontaria esposizione temporanea di scienza dei materiali. Ma per quanto costoso e tecnologico anche il deposito di Ispra è una soluzione di passaggio: i rifiuti radioattivi prodotti qui in decenni di attività dovranno confluire nel deposito italiano.

II progetto del deposito nazionale

Anche se la campagna informativa di SOGIN lo ha fatto tornare alla ribalta negli ultimi mesi, «la storia del deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi, nel nostro paese, nasce con lo stesso programma nucleare italiano», dice Fabio Chiaravalli, direttore della Divisione deposito nazionale e Parco tecnologico di SOGIN. «I primi studi che riguardano la sua ubicazione risalgono alla fine degli anni sessanta». Il deposito di allora, però, era molto diverso da quello di oggi. Doveva fare i conti con una produzione di rifiuti radioattivi di diversi ordini di grandezza superiore: il piano energetico nazionale, al momento dell’uscita dell’Italia dal nucleare, prevedeva la costruzione di numerosi nuovi reattori e i volumi del deposito erano maggiori in proporzione.

Il passaggio decisivo, paradossalmente, è stato il recente ritorno di interesse della politica nazionale per l’energia nucleare, che diversi anni fa ha compiuto passi molto concreti. «Siamo andati molto vicini a rientrare nel nucleare», commenta l’ingegnere Francesco De Falco, dal 2009 al 2011 amministratore delegato della società Sviluppo nucleare Italia (SNI). Si trattava di una joint venture italo-francese, per il 50 per cento di proprietà di ENEL e per il 50 per cento della francese EDF. «Il suo scopo sociale era di progettare il nuovo sistema nucleare per l’Italia. La tranche iniziale era di quattro reattori da 1600 megawatt». In soli due anni SNI è cresciuta molto in fretta, assumendo circa 150 persone, per lo più giovani e neolaureati. «Nel 2009 – prosegue De Falco – coerentemente con l’indirizzo che veniva dal governo Berlusconi, si cominciano a modificare le leggi e a muoversi anche in direzione normativa per permettere un ritorno al nucleare».

Uno degli snodi legislativi è il Decreto Legislativo n. 31 del 15 febbraio 2010. Con esso si ponevano le basi legali per un ritorno dell’Italia al nucleare e si individuava di nuovo la necessità del deposito unico, con «un cambio di passo sostanziale», spiega Chiaravalli. Venivano infatti delineati i criteri di base per localizzare le nuove centrali, ma anche quelli per trovare finalmente la collocazione del deposito. SOGIN ha cominciato allora ad approfondire concretamente la questione, istituendo un apposito gruppo di lavoro già a fine febbraio 2010. Si prevedeva che il deposito unico potesse ospitare i rifiuti provenienti dalla nostra eredità nucleare, più i volumi che ci si poteva attendere dalle nuove centrali italiane e dagli impieghi medici e industriali: in totale, si cercava un sito grande più del doppio di quello necessario oggi.

Ma di lì a un anno, nel 2011, l’incidente di Fukushima in Giappone e un nuovo referendum hanno messo la parola fine sul nucleare italiano. Del Decreto Legislativo 31/2010 è sopravvissuta solo l’ultima parte, quella sul deposito unico nazionale, che è rimasta intatta e operante. Quando la politica è tornata a occuparsi del nucleare, insomma, pensando a una sua nuova vita nel nostro paese, è riuscita se non altro a fare un passo decisivo per risolvere una vicenda che si trascinava da trent’anni.

Tra archeologia informatica ed esperienze straniere

Il progetto del deposito unico italiano prevede una struttura da 90.000 metri cubi, di cui 75.000 a bassa e media attività e 15.000 ad alta attività. Per il 60 per cento circa si tratta di rifiuti collegati alla produzione di energia elettrica, mentre per il 40 per cento provengono da altre fonti, come quelle industriali, di ricerca e ospedaliere: in radioterapia, per esempio, si usano diversi elementi radioattivi come il cobalto-60 e il cesio-137.

Il progetto preliminare, avviato da SOGIN nel 2010, si articola in diverse strutture. Oltre al deposito definitivo per i rifiuti a bassa e media attività, prevede un deposito temporaneo di lunga durata per i rifiuti ad alta attività (in attesa di trovare una destinazione definitiva a livello europeo) e poi gli impianti necessari alla gestione e al funzionamento del deposito. Non ultimo il parco tecnologico, un centro di ricerca in cui svolgere attività collegate a decommissioning, rifiuti radioattivi e tutela ambientale. Il tutto sarà compreso in un’area di 150 ettari, più o meno come duecento campi da calcio.

Ma come sarà scelto il luogo dove sorgerà il deposito? Una guida tecnica dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), emessa nel 2014, fissa i criteri di esclusione da considerare per la localizzazione dell’impianto. Alcuni sono molto semplici: per esempio, il deposito non potrà essere ubicato a un’altitudine maggiore di 700 metri sul livello del mare, in un parco naturale, in un’area ad elevata attività sismica o vulcanica oppure a meno di cinque chilometri dalla costa. Questi requisiti escludono già la quasi totalità del territorio nazionale (basta un solo criterio per eliminare definitivamente un’area dalla carta). Ma altri sono di applicazione più complessa: uno, per esempio, stabilisce che si debbano escludere le aree «caratterizzate dalla presenza nota di importanti risorse del sottosuolo». L’idea è che sia opportuno evitare di costruire il deposito in una zona in cui, in futuro, si potrebbero scavare pozzi petroliferi o gallerie minerarie per sfruttare un giacimento. Per verificare questo requisito è stata necessaria una ricerca ad hoc: l’esperienza che ne è nata, spiega Giancarlo Ventura, responsabile della localizzazione del deposito di SOGIN, è stata un esempio notevole di collaborazione tra enti dello Stato e ha toccato, a tratti, l’archeologia informatica.

Nel giugno 2014 i tecnici di SOGIN hanno ripescato i risultati di una ricerca, effettuata a partire dagli anni settanta dal Ministero dell’industria, che aveva prodotto un dettagliato catalogo delle risorse nel sottosuolo italiano: «Un’attività strategica che si era concretizzata in centinaia di migliaia di analisi», spiega Ventura. Si trovavano però sotto forma di migliaia di fogli di carta, su microfilm oppure su supporti informatici ormai non leggibili dai computer. I tecnici di SOGIN e quelli del Ministero dello sviluppo economico (erede del Ministero dell’industria), con la collaborazione del Centro di geotecnologie dell’Università di Siena e di una società specializzata di Milano, sono riusciti a recuperare i dati e a trasferirli in una moderna banca dati che ora può essere usata e consultata per altri scopi.

Alle molte attività per la localizzazione svolte da SOGIN hanno collaborato sette università italiane (Roma 3, Roma «La Sapienza», i politecnici di Torino e di Bari e le Università dell’Insubria, di Pisa e di Siena), Consiglio nazionale delle ricerche, Istituto nazionale di statistica ed ENAV, oltre allo Stato maggiore della Difesa e al Ministero dello sviluppo economico. Ne è nata una mappa, denominata Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (CNAP1), che individua tutte le zone dove, a livello nazionale, potrebbe essere ubicato il deposito. Sono parecchie decine. «Abbiamo messo in piedi uno dei più grandi, completi e importanti sistemi informativi territoriali che ha l’Italia, sicuramente il più aggiornato», commenta Chiaravalli. La proposta di CNAPI è stata consegnata il 2 gennaio 2015 all’ISPRA: la palla è ora in mano al governo, che deve decidere quando SOGIN potrà renderla nota. Un evento che gli addetti ai lavori si aspettavano già per la fine dell’estate.

La sfida del deposito nazionale

Quando succederà, a ogni modo, la parte difficile dovrà ancora cominciare. Sulla vicenda del deposito nazionale, infatti, aleggia ancora un grave passo falso che risale a più di dieci anni fa. Il 14 novembre 2003 il governo Berlusconi aveva approvato il Decreto Legge 314/2003 che, senza preavviso, individuava il sito del deposito nel Comune di Scanzano Jonico, in provincia di Matera, e dava mandato a SOGIN di costruire lì la struttura entro cinque anni. Le grandi proteste che sono seguite, in Basilicata e non solo, per questa decisione calata dall’alto e per nulla condivisa con i cittadini hanno poi costretto il governo a fare marcia indietro.

Per evitare che un errore simile si ripeta, questa volta SOGIN intende adottare un approccio diverso, nonché, assicurano, innovativo. «La vera valenza di questo progetto è che la fase di localizzazione sarà totalmente condivisa», sottolinea Chiaravalli. La CNAPI, a cui hanno lavorato a tempo pieno decine di persone di SOGIN e della comunità scientifica, sarà messa a disposizione di chiunque la voglia vedere, dopo il nullaosta governativo: ci saranno poi mesi di consultazione pubblica, in cui tutti gli enti coinvolti saranno chiamati a partecipare, commentare e discutere la carta. «Ogni singolo cittadino potrà entrare in possesso delle informazioni che hanno portato alla stesura della carta, nella loro integrità», prosegue Chiaravalli. Al termine della consultazione pubblica gli enti locali potranno presentare le loro manifestazioni di interesse, «novità assoluta per l’Italia»: in altre parole, gli enti potranno candidarsi alle successive verifiche e studi che porteranno alla localizzazione vera e propria del deposito. In cambio, oltre alle ricadute occupazionali e dell’indotto, il decreto legislativo di febbraio 2010 prevede «benefici economici diretti alle imprese residenti, agli enti locali e alle imprese operanti nel territorio». L’entità di questi contributi e i loro destinatari saranno comunque definiti meglio nella fase di consultazione pubblica.

Quanto ai costi del deposito, le stime di SOGIN parlano di 1,5 miliardi di euro in totale, divisi tra localizzazione, progettazione e costruzione (650 milioni di euro) e circa 700 milioni per le altre infrastrutture necessarie, come le linee di comunicazione per raggiungere il sito. La realizzazione del Parco tecnologico peserà per altri 150 milioni. La fonte principale di finanziamento, come per le altre attività di decommissioning italiane, sarà la componente A2 della bolletta, parte degli oneri generali che pesano per un quarto circa dei soldi che paghiamo per i servizi elettrici.

Quella di 1,5 miliardi è una stima preliminare, che non può ancora tenere conto delle caratteristiche del luogo in cui sorgerà il deposito. Per fare un confronto, il deposito di rifiuti radioattivi del Dipartimento francese dell’Aube, attivo da gennaio 1992 e con una capacità di un milione di metri cubi, è costato circa 220 milioni, ma non ha una struttura per i rifiuti ad alta attività né un parco tecnologico. C’è anche una differenza sostanziale nelle modalità di stoccaggio, perché il deposito francese non prevede una delle quattro barriere, il modulo: i fusti vengono posti direttamente nelle celle.

«Le scelte strutturali e tecnologiche per il deposito italiano sono già state fatte tutte dice Chiaravalli prendendo a riferimento le migliori pratiche già adottate all’estero». In questi anni SOGIN ha dialogato soprattutto con i colleghi francesi, spagnoli e belgi. «Teniamo conto che stiamo parlando di depositi analoghi a quello italiano, ma che gestiscono quantitativi di rifiuti che non hanno nulla a che vedere con i nostri. Abbiamo potuto fare tesoro di esperienze notevolissime, anche dimensionali: il deposito francese oggi in esercizio arriverà a gestire un milione di metri cubi. Il nostro sarà un gioiello, non perché siamo i più bravi, ma perché siamo gli ultimi arrivati».

Il tono compassato di Chiaravalli fa uno scatto solo quando gli si chiede se vede problemi concreti nella gestione e realizzazione del deposito e nel suo esercizio, quando si tratterà di far convergere al sito le migliaia di metri cubi di rifiuti della nostra eredità nucleare. «Si sa perfettamente che cosa bisogna fare, dove mettere i rifiuti, quanto tempo passi perché cessino di essere radioattivi, come trasportarli... Si sa tutto. Il problema è riuscire a farsi ascoltare e spiegare che si sa tutto». Resta che, dopo Scanzano e tante altre esperienze di opere pubbliche dalla genesi travagliata, sembra difficile che un’infrastruttura come il deposito nasca senza resistenze e opposizioni, soprattutto se riguarda il nucleare, un tema che in Italia suscita ancora tante paure. «Io ho una fiducia illimitata nell’intelligenza umana», dice Chiaravalli. «Sono convinto che, se riusciremo a spiegarci, parecchi Comuni si candideranno per ospitare il deposito».