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 2016  marzo 03 Giovedì calendario

MENO FAME


Tristram Stuart ha 24 ore per allestire un pranzo per 50 persone: comporre il menu, procurarsi gli ingredienti e accogliere gli ospiti in un locale di una città che non è la sua. A complicare quella che sembra una sfida da reality show, c’è una regola: la maggior parte degli ingredienti deve provenire da fattorie o attività commerciali che altrimenti li butterebbero.


Tornato di corsa a New York da una fattoria del New Jersey dove ha trovato 30 chili di zucchine gialle che secondo il contadino erano troppo deformi per essere vendute, Stuart salta giù da un’auto bloccata nel traffico e si fionda in una panetteria del Greenwich Village. Alto e biondo, sciorina il suo discorsetto da dieci secondi con un ricercato accento britannico: «Gestisco un’organizzazione che lotta contro lo spreco alimentare e devo preparare un banchetto per domani usando cibo che non andrebbe venduto né donato in beneficenza. Potreste aiutarmi con un po’ di pane?». Il fornaio non può dargli niente, ma per consolarlo il commesso gli porge due biscotti al cioccolato rotti.
Stuart risale in fretta nell’auto. La fermata successiva è al mercato contadino di Union Square. Si sofferma a spiare un cuoco che prepara dei fagottini di pasta brioche ripieni di pesce, tagliandoli a mezzaluna. «Potrei avere la pasta che le avanza?», gli chiede con un sorriso che dovrebbe essere affascinante. Niente affatto impressionato, il cuoco gli dice di no. Ha intenzione di riutilizzare lui stesso quei ritagli. Imperterrito, Stuart prosegue il suo giro tra i banchi del mercato, pronuncia le frasi di rito e alla fine riesce a ottenere foglie di barbabietola, erba di grano e mele.
Diciotto ore più tardi decine di cuochi, esperti di recupero del cibo e attivisti discutono di spreco alimentare gustando tempura di zucca, ravioli di rape e tofu e noodles di zucchine preparati dalla chef Celia Lam. Stuart non ha cucinato quasi nulla personalmente, ma è riuscito, senza alcuna riunione ufficiale, a convincere una mezza dozzina di persone a studiare un menu, trovare gli ingredienti, cucinare, servire un pranzo e poi rassettare, ricevendo in cambio soltanto il piacere di aver collaborato con una delle figure più carismatiche del movimento internazionale che si batte contro lo spreco alimentare.

In tutte le culture lo spreco del cibo è considerato immorale. Dopo tutto, quasi 800 milioni di persone nel mondo soffrono di fame. Eppure secondo i dati della FAO sprechiamo 1,3 milioni di tonnellate di cibo l’anno, una quantità sufficiente a sfamarne almeno il doppio. Ma dove finisce tutto questo cibo, in pratica un terzo della produzione mondiale? Nei paesi in via di sviluppo gran parte dei prodotti alimentari si perde dopo il raccolto per la mancanza di adeguate infrastrutture per la conservazione, il trasporto e la refrigerazione. Nei paesi sviluppati, invece, il cibo si spreca in altre tappe della catena di distribuzione, quando i commercianti al dettaglio ordinano, servono o espongono troppi prodotti e la gente dimentica gli avanzi in fondo al frigorifero o getta via cibi deperibili prima della data di scadenza.
Lo spreco alimentare rappresenta anche un costo ambientale. Produrre cibo che nessuno mangia, che si tratti di salsicce o biscotti, significa sperperare acqua, fertilizzanti, pesticidi, semi, carburante e terreno in quantità non certo irrisorie. Per produrre tutto il cibo che non viene consumato in un anno si spreca una quantità di acqua equivalente alla portata annua del Volga, il fiume più lungo d’Europa. Secondo Jonathan Bloom, autore di American Wasteland, per coltivare i 60 miliardi di chili di cibo che rivenditori e acquirenti americani scartano ogni anno si consuma l’equivalente della quantità di petrolio sversata nel Golfo del Messico dopo il disastro della Deepwater Horizon moltiplicata per 70. E queste cifre impressionanti non includono tutto ciò che si perde nelle fattorie, nelle navi da pesca e nei macelli. Se lo spreco alimentare fosse una nazione, sarebbe la terza al mondo per emissioni di gas a effetto serra, preceduta solo da Cina e Stati Uniti. In un pianeta in cui le risorse sono limitate, e che nel 2050 avrà altri due miliardi di abitanti, un simile sperpero è un’indecenza, sostiene Stuart nel suo libro intitolato Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare.

Nella cittadina agricola di Huarai, circa 80 chilometri a nord di Lima, in Perù Stuart beve una spremuta appena fatta in compagnia di Luis Garibaldi, proprietario del Fundo Maria Luisa, il più grande produttore di mandarini del paese. Seduto sotto un pergolato accanto a una piscina, Stuart è chino in avanti e lo incalza con una serie di domande. Quanti ne esportate? Quanti vengono rifiutati? E per quali ragioni? Dove finiscono quelli scartati? Il 70 per cento della produzione, risponde Garibaldi, viene esportato nell’Unione Europea e in America del Nord. Ma il 30 per cento non ha le dimensioni, il colore o la dolcezza adeguati, oppure presenta imperfezioni, segni, macchie, è stato bruciato dal sole, colpito da funghi o morso dai ragni. La maggior parte di questi prodotti scartati finisce nei mercati locali, e Garibaldi guadagna solo un terzo rispetto al prezzo delle esportazioni.
Ci dirigiamo in auto 300 chilometri più a sud, oltrepassando alte dune di sabbia e colline erose dal vento. Intorno a noi solo polvere e giallo ocra, fino a quando non raggiungiamo vallate verdeggianti di campi irrigati, frutto di investimenti stranieri, accordi commerciali favorevoli, manodopera a basso costo, clima mite e falde acquifere un tempo abbondanti. Nella regione di Ica Stuart incontra un contadino che ogni anno abbandona nei suoi campi milioni di asparagi che non può esportare perché troppo sottili, ricurvi o con le punte già aperte. Un produttore gli racconta che ogni anno è costretto a buttare nella cava di sabbia dietro il suo magazzino migliaia di tonnellate di mapo che presentano minuscole imperfezioni e un centinaio di tonnellate di pompelmi.

Gli standard di qualità dei prodotti alimentari – dettati dall’industria o scelti volontariamente – vennero stabiliti molto tempo fa affinché coltivatori e acquirenti potessero avere un linguaggio comune con cui valutare il prodotto e mediare i conflitti. Questi stessi criteri possono essere utilizzati per ridurre gli sprechi. Coltivando asparagi o mapo che rispondono a determinati standard si hanno maggiori possibilità di trovare un mercato anche per quelli di “seconda scelta”. I supermercati sono sempre stati liberi di fissare i propri standard, ovviamente, ma negli ultimi anni i negozi di alta gamma hanno cominciato a gestire i reparti di frutta e verdura come se fossero concorsi di bellezza. A detta dei commercianti, i clienti vogliono comprare solo prodotti “perfetti”: mele rotonde e scintillanti, asparagi dritti e con le punte perfettamente chiuse.
«I fattori chiave per la vendita della merce sono la qualità e l’aspetto», dice Rick Stein, vice presidente del dipartimento prodotti freschi del Food Marketing Institute. «Ma solo i prodotti più belli inducono la gente ad aprire il portafoglio». Quelli che non convincono gli acquirenti vengono donati alle banche del cibo o utilizzati per le confezioni di frutta o insalata già tagliata. Tuttavia, nella maggior parte dei negozi degli Stati Uniti il cibo eccedente non viene né donato né riutilizzato. Stuart guarda con favore alle recenti iniziative dei supermercati europei e statunitensi di vendere i prodotti “brutti” a prezzi scontati, ma si augura un cambiamento dell’intero sistema. «Non sarebbe meglio rivedere gli standard?», si chiede osservando una distesa di agrumi peruviani abbandonati, per i quali non esiste neppure un mercato secondario.

Per sette giorni Stuart va in giro per fattorie e magazzini, fa le sue domande, raccoglie dati e campioni di prodotti rifiutati. Tra una visita e l’altra si accuccia come un pipistrello della frutta sul sedile posteriore di un’auto e scrive sulla tastiera. Tic tic. Prende accordi per il prossimo viaggio, poi accetta l’invito a bere qualcosa in compagnia del direttore generale del Banco alimentare del Perù. Tic tic. Fissa un appuntamento con un altro attivista appena arrivato da Santiago del Cile. Sembra che dovunque vada ci siano persone pronte a raccontargli fantastiche storie sullo spreco alimentare.
Con poche ore di sonno, non rasato e a volte con i postumi della sbornia – che senso ha visitare nuovi paesi senza gustare i liquori locali? – Stuart rimane comunque concentrato sul suo lavoro. Imbottigliato nel traffico e nello smog organizza l’incontro con un deputato peruviano che vuole modificare le norme fiscali che incentivano lo smaltimento del surplus di produzione, introducendo invece l’obbligo di donazione. Tra un tornante e l’altro di una strada in discesa, Stuart revisiona una proposta di legge del Parlamento britannico sulla riduzione dello spreco alimentare e scrive una lettera per ampliare i poteri del Groceries Code Adjudicator del Regno Unito. Poi discute con altri colleghi l’idea di organizzare a Lima una disco soup, una cena
a base di cibo riciclato sulla falsariga di quella di New York, da tenersi tra quattro giorni per un numero di commensali compreso tra 50 e 100.
Qual è lo scopo della disco soup oltre al recupero del cibo? Sensibilizzare la gente sul problema, spingendola a impegnarsi attivamente. Il suo modo di fare funziona. Da Lima a Londra, diversi chef si sono messi in contatto con le organizzazioni benefiche per donare il loro cibo in eccesso; alcuni imprenditori californiani hanno sviluppato programmi per salvare dal macero la frutta difettosa; alcuni gruppi della società civile hanno avviato progetti per una rete di recupero del cibo in Kenya; un birrificio belga è stato spinto a trasformare il pane raffermo in birra commerciabile.
Organizzare una disco soup a Lima può sembrare assurdo, considerato che al momento Stuart è a cinque ore di distanza dalla città, ha un appuntamento imminente per visitare una piantagione di banane in Colombia, non dispone di un locale né di una cucina per la cena, non ha fondi né materie prime. Ma la storia ci insegna che probabilmente ci riuscirà lo stesso.

STUART, che oggi ha 38 anni, è nato a Londra, ultimo di tre figli maschi. Cresciuto in città, a 14 anni ha deciso di andare a vivere con il padre nelle campagne dell’East Sussex, dove la famiglia paterna possedeva una grande casa nella foresta di Ashdown, la stessa a cui è ispirato il Bosco dei 100 acri di Winnie the Pooh. Dall’altra parte della valle si trovava quella che un tempo era la tenuta dei suoi nonni, una grande proprietà con tanti di quei dipendenti da poter formare una squadra di cricket che gareggiava contro quella del villaggio. Simon, il padre di Stuart, era cresciuto lì e i suoi racconti sulla prosperità della fattoria affascinavano il figlio minore.
Vivere lontano da una città e vicino, almeno psicologicamente, alla fattoria autosufficiente dei nonni ha inciso sulla personalità di Stuart. Suo padre curava un grande orto, mentre Stuart allevava maiali e galline. In cambio del letame, Simon dava al figlio i resti dei suoi ortaggi. «In questo modo avevo carne e uova, ma andavo anche a caccia di conigli con i miei furetti o sparavo ai cervi». La dispensa di casa era sempre ben fornita. Dopo un po’ Stuart iniziò a vendere maiali e uova ai genitori dei suoi compagni di scuola, ma si rese presto conto che comprare il mangime per gli animali gli costava una fortuna. Così nacque l’idea del recupero del cibo: raccoglieva le patate rovinate o le torte non più fresche nei negozi del posto e nella cucina della scuola. In questo modo, oltre a nutrire la sua scrofa Gudrun, scoprì quanto cibo ancora commestibile la gente buttava ogni giorno.
La coscienza ecologista di Stuart cominciò così a svilupparsi. A 12 anni scrisse un tema in cui paragonava il consumo di combustibili fossili al fumo delle sigarette, due pratiche dannose che creano dipendenza. Dopo aver lavorato per quasi un anno in un allevamento francese, si iscrisse all’Università di Cambridge per studiare letteratura inglese e si scontrò con una realtà molto diversa dal suo paradiso agro-ambientalista. Il cibo della mensa era preparato «senza alcuna attenzione alla sostenibilità». Per reazione Stuart si unì ad altri attivisti che mangiavano il cibo recuperato dai cassonetti dei supermercati, cominciò a bere sidro ottenuto da mele coltivate da altri, a mangiare cervella arrostite, milza e orecchie fritte dei tanti piccoli di Gudrun e, una volta scoperto quanto fossero gustose, le lumache degli orti degli amici.
Non sorprende sapere che in quegli anni Stuart si sia interessato anche al teatro. «Mi piaceva», racconta, tanto che alla fine rischiò di farsi distrarre «dal lavoro veramente importante, salvare il pianeta». Aveva sufficiente consapevolezza di sé da capire che studenti privilegiati che raccoglievano dalla pattumiera vaschette di ricotta ancora integre avevano grandi potenzialità retoriche. All’epoca, prosegue, né i supermercati né le agenzie di governo adottavano misure contro lo spreco alimentare. La situazione però era destinata a cambiare.
Nel 2002 Stuart e la sua pratica di rovistare nei cassonetti in cerca di cibo avevano attirato l’attenzione al punto che gli fu chiesto di partecipare alla realizzazione di un documentario sullo spreco alimentare per la BBC; attivisti di tutto il mondo si misero in contatto con lui per collaborare al recupero del cibo (allora Stuart viveva a Londra). Quando ebbe a disposizione dati sufficienti sui motivi per cui tanto cibo andava perduto lungo la catena alimentare, Stuart si rese conto di poter fare qualcosa al riguardo. Nacque così l’idea di scrivere Sprechi, un saggio in cui analizza le cause e i costi ambientali dello spreco alimentare in tutto il mondo.
Il libro fu acclamato dalla critica ma Stuart non si accontentò: voleva che tutte quelle informazioni arrivassero a milioni di persone, convincendole a unirsi alle sue battaglie. «Per questo ho ideato Feeding the 5,000», spiega, ispirandosi alle parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni, 6: 12: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Lanciato nel 2009, Feeding the 5,000 è diventato il fiore all’occhiello di Stuart, un grande banchetto pubblico realizzato interamente con cibo salvato dalla distruzione. A tutt’oggi la manifestazione è stata organizzata in oltre 30 città del mondo. L’iniziativa vede la partecipazione di migliaia di persone, cui seguono fiumi di inchiostro e di pixel, che amplificano la protesta. Ben presto Stuart si è ritrovato a tenere conferenze in giro per il mondo e a criticare aspramente i potenti dell’industria alimentare, spingendone molti sulla difensiva. I supermercati, a loro volta, hanno cominciato a vederlo come “un gran rompiscatole”. «E in effetti lo sono», ammette.
Da dove nasce la formidabile sicurezza di Stuart? Difficile dirlo con precisione. Stuart è ambizioso, combattivo e narcisista. Ma è anche carismatico, divertente ed estremamente preparato sull’argomento che più di ogni altro gli sta a cuore. «Se lo senti parlare ti viene subito voglia di abbracciare la sua causa», dice Dana Gunders, esperta di spreco alimentare del Natural Resources Defense Council, nonché autrice di Waste Free Kitchen Handbook. «È bravissimo, non solo a suscitare la passione negli altri ma anche ad alimentarla, arricchendo le fila dell’esercito di chi vuole fare qualcosa di concreto contro lo spreco alimentare».

Stuart coglie ogni opportunità per mangiare cibi poveri, la strategia migliore per recuperare i prodotti di scarto e dare il buon esempio. La prima mattina in Perù fa colazione con sangue di gallina coagulato. «Non l’avevo mai assaggiato», dice contento. A pranzo è entusiasta della carne di porcellino d’india. Il secondo giorno ordina un piatto di trippa; il terzo, lingua e un bel bicchiere di pisco. Il suo carnivorismo da macho è tale che quando mi dice che si è procurato delle «palline fritte» per uno spuntino veloce all’aeroporto penso subito che stia parlando di testicoli. Invece si tratta di qualcosa di simile agli knish di patate.
Le proteine sembrano dargli forza per affrontare le discussioni nelle fattorie e nei magazzini che visita, conversazioni sempre infarcite di cifre e dati statistici. Chili, tonnellate, container, pallet, percentuali scartate, recuperate, lasciate a marcire. Prova gusto a sciorinare tutti questi dettagli. «Voglio essere in grado di dire agli europei che la loro preferenza per l’asparago perfetto equivale allo spreco di tot milioni di ettari di terreno, tot milioni di litri di acqua e tot milioni di chili di fertilizzanti». Si ferma e prende fiato. «Devo essere efficace come un titolo di giornale, poche parole concise per far capire a tutti che le nostre scelte hanno un peso».
Ed è vero. Adesso che i governi si preoccupano di capire come sfamare oltre nove miliardi di persone entro il 2050, una delle soluzioni invocate a gran voce prevede l’aumento della produzione alimentare globale di una percentuale compresa tra il 70 e il 100 per cento. Tuttavia l’agricoltura costituisce già una delle più serie minacce alla salute del pianeta. È responsabile del 70 per cento dei consumi di acqua dolce, dell’80 per cento della deforestazione tropicale e subtropicale, del 30-35 per cento delle emissioni di gas serra. La crescita demografica e i consumi sempre più elevati di carne e latticini (per i quali sono necessarie grandi quantità di cereali e altre risorse a fronte di un ridotto apporto calorico) delle economie emergenti sono destinati ad aggravare lo scenario. Secondo alcuni esperti, tuttavia, potrebbe non essere necessario convertire altri terreni in campi agricoli. Se riuscissimo a ridurre gli sprechi, cambiare la nostra dieta mangiando meno carne e latticini, destinare alcuni raccolti alla produzione di biocombustibili e rendere più produttivi alcuni terreni che rendono meno del dovuto, potremmo nutrire in modo sano più di nove miliardi di persone senza distruggere altre foreste, praterie o zone paludose.
Stuart non perde mai di vista il quadro generale, ma sa che i cambiamenti di paradigma avvengono per gradi. Per questo adesso è nel deserto della regione di Ica a bersagliare di domande Luis Torres, direttore generale di Shuman Produce Peru. La mancanza di un mercato locale per la merce che non può esportare costringe Torres a buttare via 1,5 milioni di chili di cipolle troppo piccole o non perfettamente rotonde. Torres però è restio a prendere una posizione decisa contro i suoi acquirenti.
«Se mi lamentassi, i supermercati si rivolgerebbero a un altro coltivatore», spiega, stringendosi nelle spalle. «Sono una persona pratica. Non posso fare niente per cambiare le regole».
In piedi davanti a lui con le gambe aperte e le braccia conserte, Stuart risponde: «Io posso».

Tre anni fa Stuart ha passato una settimana andando in giro nelle campagne del Kenya in cerca degli ingredienti per una cena ufficiale da tenere a Nairobi in concomitanza con un incontro organizzato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) sul problema dello spreco alimentare. In una località distante 150 chilometri dalla capitale ha incontrato un contadino costretto dagli standard estetici europei a scartare 40 tonnellate di fagiolini, broccoli, taccole e fagioli di Spagna, sufficienti a nutrire 250 mila persone.
Nel giro di un anno Stuart e una troupe sono tornati in Kenya e hanno scoperto che i contadini abbandonavano quasi metà dei loro raccolti nei campi e nei magazzini. I coltivatori di fagiolini, in particolare, ne perdevano percentuali ancora maggiori perché tagliavano entrambe le estremità del loro prodotto. I supermercati, inoltre, cancellavano abitualmente gli ordini all’ultimo minuto senza risarcire i coltivatori. Quando Feedback ha pubblicato le immagini dei fagiolini scartati, accusando le grandi catene di distribuzione di rifarsi delle perdite a scapito di contadini con poco potere contrattuale, i commercianti inglesi si sono detti disponibili a una trattativa. Alla fine hanno accettato di addossarsi i costi delle cancellazioni degli ordini e di ingrandire le confezioni in modo che dei fagiolini si potesse tagliare solo un’estremità. In questo modo si sprecano meno cibo e risorse e si permette ai contadini di coltivare meno ettari di terreno.
«Tristam ha individuato un problema e si è adoperato per risolverlo», sostiene Clementine O’Connor, consulente dell’UNEP ed esperta di alimenti sostenibili. «È stato l’unico a difendere i contadini dalle pratiche commerciali inique, a individuare gli ostacoli e a sollecitare un cambiamento di situazioni di cui supermercati e governi spesso ignoravano l’esistenza». La campagna di Feedback sui fagiolini del Kenya è solo uno dei risultati ottenuti nel 2015, un anno che può essere considerato una sorta di spartiacque. Alla fine del 2015, infatti, l’ONU e gli Stati Uniti si sono impegnati a dimezzare gli sprechi alimentari entro il 2030, pur senza specificare con quali strumenti pensino di ottenere l’ambizioso risultato. Governi e aziende, però, hanno già studiato e adottato misure standard per quantificare lo spreco. Raggiungere l’obiettivo significherebbe recuperare cibo sufficiente a sfamare almeno un miliardo di persone.

In un nuvoloso giovedì pomeriggio di settembre, Stuart attraversa un campo fangoso nel Nord della Francia. Affonda le mani nel terreno e recupera patate novelle che, viste le minuscole dimensioni, sono sfuggite alla presa della macchina per la raccolta. Aiutato da un gruppo di volontari continuerà a setacciare il terreno per un’ora e mezza. L’obiettivo è raccogliere 500 chili di patate per la manifestazione Feeding the 5,000 che si terrà domenica a Parigi in Place de la République, simbolo dell’attivismo civile. Il giorno dopo Stuart e altri volontari lavano l’ingente bottino in una casa occupata del XII arrondissement. A torso nudo in una stanza in disordine con l’aria che odora di sudore e marijuana, Stuart rimprovera una donna che perde tempo lavando troppo le patate. Lei lo manda al diavolo con una parolaccia. «Non sei certo la prima a dirmelo!», risponde Stuart con tono di sfida.
Sabato è il giorno in cui tutte le verdure devono essere tagliate. La piazza è piena di tavoli di plastica intorno ai quali centinaia di volontari si alternano per quattro ore tagliando a cubetti quasi due tonnellate di patate, melanzane, carote e peperoni rossi, in parte raccolti nelle fattorie in parte donati dal mercato internazionale di Rungis.
Gli aiutanti, per lo più operatori della grande ristorazione, portano gli ortaggi dalle cassette alle enormi scodelle di plastica che poi vengono svuotate dentro buste di plastica azzurre. Alle 5 del mattino di domenica lo chef Peter O’Grady, un Hare Krishna che dirige una mensa per i poveri
a Londra, versa il contenuto di quelle buste nei calderoni di metallo alti fino al petto già collocati sopra i bruciatori a gas.
È quasi mezzogiorno, e il parco è sempre più affollato. Alcuni musicisti si esibiscono sul palco, mentre animatori travestiti da carote e melanzane sfilano tra la gente urlando slogan. «Fermiamo lo spreco degli ortaggi!». Stuart non c’è, la sua presenza è superflua. A un certo punto i 6.100 commensali cominciano a mettersi in fila; i camerieri indossano guanti, cappello e grembiule. Alle 12 in punto Stuart si materializza. Sale sul palco e afferra il microfono. Ringrazia tutti quelli che hanno reso possibile la manifestazione, definisce scandaloso lo spreco alimentare, spiega brevemente come l’agricoltura sia legata ai cambiamenti climatici, poi si allontana.
Non senza aver prima augurato a tutti «Bon appétit!».