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 2016  marzo 03 Giovedì calendario

ARTICOLI SUI TOPI IN CITTA’ PER IL FOGLIO ROSA


MASSIMO GAGGI, SETTE 4/3/2016 –
LA CARICA DEI (1.600) PROCIONI –
Che New York sia una città abitata più da topi che da uomini non è una novità. Negli anni scorsi ha fatto notizia l’incursione notturna di qualche coyote sceso lungo i corridoi verdi che costeggiano l’Hudson fino a Central Park e alle zone residenziali di Manhattan. Ora nella metropoli arriva un’altra invasione: quella dei procioni (detti anche orsetti lavatori). Animali piuttosto grossi e relativamente pericolosi (possono mordere) che vivono nei boschi, ma ora si stanno dimostrando capaci di adattarsi anche a un ambiente urbano. L’uomo cerca di eliminarli, certo, ma la sua caccia è meno micidiale di quella dei predatori naturali: aquile e falchi in primo luogo. L’anno scorso le richieste d’intervento contro questi “raccoon” sono state 1.600, quasi il doppio rispetto al 2014. E sono arrivate da ogni parte della città: Brooklyn, Queens, ma anche Manhattan con un procione catturato a Wall Street e un altro a Columbus Avenue, in piena zona residenziale. Ad Harlem il proprietario di una “townhouse” con giardinetto nel retro ha trovato un’intera famiglia di orsetti lavatori che sguazzavano nella piscinetta di plastica che aveva montato per i suoi bambini. Per fortuna questi animali non portano malattie (rarissimi i casi di rabbia), ma anche questa buona notizia ha i suoi aspetti negativi: i cittadini devono provvedere da soli a eliminare i procioni dato che il municipio interviene solo in caso di pericolo per la salute. Gli americani non si sono persi d’animo e hanno trasformato in Pil anche l’emergenza-procioni: lo Stato di New York ha assegnato 100 licenze ad altrettanti cacciatori di “raccoon”. Il già florido “business” della derattizzazione si arricchisce di un nuovo ramo.

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SERGIO RIZZO, CORRIERE DELLA SERA 3/3/2016 –
Diciamo la verità, il dettaglio macabro del sangue che cola dal tetto sulla scrivania di un malcapitato impiegato non aiuta. Se poi la scena da film dell’orrore si verifica a uno sportello aperto al pubblico, e quello sportello è uno dei quattro della biglietteria dei Fori Imperiali, a Roma, la risonanza planetaria è assicurata. Tanto più se quel sangue, come si è premurato di chiarire il soprintendente ai beni archeologici Francesco Prosperetti, è di un topo rimasto schiacciato nell’intercapedine del tetto e lo sportello si deve chiudere per qualche ora causa disinfestazione.
Ma quello che è accaduto due giorni fa a Roma sarebbe forse potuto succedere ovunque. I topi ci sono in tutte le città, anche se i ratti che alloggiano nella capitale sono di taglia piuttosto particolare. Come però, del resto, anche a Parigi. Nel 2008 il metrò ne fu letteralmente invaso. E due anni fa si sparse il panico per l’avvistamento dei roditori al Louvre, che ospita più turisti del Colosseo. L’anno scorso due studi americani hanno ipotizzato addirittura il rischio di un’epidemia di peste bubbonica a New York. Mentre sempre a luglio del 2015 un’associazione lanciò un allarme sull’emergenza topi a Milano, denunciando l’esistenza di 5 milioni di esemplari: stime che il Comune smentì sdegnosamente.
Il fatto è che Roma non è una città come tutte le altre metropoli. Purtroppo non lo è. La reputazione negativa che si è costruita in questi anni accompagna la capitale d’Italia come la nuvola di Fantozzi, agendo come micidiale cassa di risonanza. L’immagine di una città inemendabile non soltanto dagli scandali, ma anche dalle inefficienze di un’amministrazione mostratasi incapace di gestire i servizi essenziali, perseguita Roma. E questo non ha a che fare con il solito stereotipo di luogo di perdizione contaminato dalla politica corrotta che si porta dietro da tempo immemore. È lo stesso commissario straordinario Francesco Paolo Tronca ad aver descritto martedì davanti alla commissione parlamentare antimafia una realtà delle strutture comunali «bloccata e intimorita, alla quale l’indagine Mafia capitale ha dato il colpo di grazia». Una realtà, ha spiegato, nella quale «nessuno prende una decisione, nessuno mette una firma. Nessuno segnala criticità o problematiche in atto». I topi sono figli di questa situazione: per questo a Roma sono decisamente più pericolosi che a Parigi, New York o Milano.
Quanti ce ne siano, nella capitale d’Italia, nessuno lo sa con esattezza. Ma nelle riunioni che regolarmente si susseguono al Campidoglio su questo problema, con gli esperti che fanno sfilare davanti agli occhi dei dirigenti le slide con le immagini delle differenti razze di roditori, circolano numeri impressionanti. C’è chi stima la popolazione dei ratti capitolini fra i sei e i nove milioni di esemplari: da due a tre per ogni cittadino residente nel territorio comunale.
Qualcuno argomenta che si è finito per turbare l’equilibrio fra le specie animali, privando i topi dei loro nemici naturali. Un tempo Roma era una città invasa dai gatti da strada, soprattutto nel centro storico. Il Colosseo era il loro regno, così popolari i felini randagi da meritarsi anche un ruolo di prima fila nel grande schermo. Chi non ricorda gli Aristogatti di Walt Disney, dove il protagonista che nell’edizione originale è un gatto irlandese (Thomas O’Malley) in quella italiana diventa «Romeo, er mejo der Colosseo»? Altri tempi. Ora di gatti randagi non è rimasta neppure l’ombra. Ed è venuto meno un contributo al controllo dell’esplosione demografica dei ratti.
Un contributo modesto, s’intende. Almeno al confronto di altre metodologie: per esempio gli interventi di derattizzazione, che negli ultimi anni non sono forse stati così frequenti ed efficaci come sarebbe stato necessario. Per non parlare della causa principale della proliferazione dei topi: lo stato dell’igiene urbana. I cassonetti che non vengono svuotati regolarmente, i rifiuti che stazionano ammucchiati fuori dai ristoranti, i giardini pubblici trasformati in piccole discariche sono un’attrazione irresistibile non soltanto per i roditori ma pure per i gabbiani.
E convincono molto poco certe spiegazioni ufficiali, come quella secondo cui l’invasione dei topi a Palazzo Massimo, sede del museo romano, sia l’effetto degli scavi in una via limitrofa che spaventerebbero i ratti del sottosuolo spingendoli in superficie. Fosse davvero questo il motivo, non ci sarebbero così tanti ratti in altre zone del centro dove nessuno sta scavando. Anziché avventurarsi in tesi così ardite consigliamo quindi ai responsabili di far raccogliere la spazzatura e tenere le strade più pulite. Combatterebbero i topi e aiuterebbero Roma a scrollarsi di dosso lo stereotipo che la tormenta: quello di una città ormai perduta.

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MATTIA FELTRI, LA REPUBBLICA 3/3/2016 –
Ieri dal soffitto di una biglietteria del Colosseo ha cominciato a colare sangue. La bigliettaia se l’è visto colare sulla scrivania, goccia a goccia. Era sangue di un topo rimasto schiacciato in un’intercapedine e, a parte l’imprevista evoluzione splatter, è una notizia che a Roma non provoca stupore. Nemmeno la conseguente chiusura dello sportello: un’assemblea sindacale fa più danni. E non provocano stupore le parole del disarmato soprintendente ai Beni archeologici: «È un problema che non sappiamo fronteggiare». È invaso di topi Palazzo Massimo, una colonia di topi popola il Tempio di Venere, ci sono in ogni buco e anfratto dei Fori; e basta leggere le cronache locali, o passeggiare un poco, per vedere e sapere che ci sono topi ovunque. Quando la sera si rincasa topi ci attraversano i marciapiede, a Santa Maria Maggiore i topi a dozzine compiono strani andirivieni da un tombino all’altro, a Castel Sant’Angelo pascolano in pieno giorno fra una panchina e l’altra, quando si va a gettare la spazzatura schizzano via spaventati da sotto i cassonetti, se ne trovano carcasse lungo le vie, nelle piazze di Trastevere dove i ragazzini li fotografano. Questa non è più Roma, è Topolinia. O Topolonia. Secondo stime recenti, a Roma ci sono due topi per ogni abitante, cioè circa sei milioni di topi i quali, peraltro, non sono a crescita zero come gli umani: i topi fanno figli, senza affittare uteri e senza stepchild, ne fanno tantissimi: vanno e si moltiplicano sul tappeto rosso steso dai predatori. Rimangono giusto i gabbiani, ma i topi sono più forti. Per ogni topo mangiato da un gabbiano ci sono tre o quattro nuovi topolini appena venuti al mondo, e il futuro è loro. I nemici storici sono scomparsi: non c’è più nemmeno un gattaccio né un gatto qualsiasi né un micetto con le unghie di fuori. A Roma i gatti sono spariti. Questa era la città dei gatti fino a pochi anni fa. I gatti di Roma, i gatti del Colosseo, appunto. Li hanno tutti sterilizzati, e mentre i topi proliferano i gatti ingrassano e invecchiano e se ne vanno per eutanasia. Si vedono ancora cinque o sei gatti obesi, rincorsi da gattare con sporte di cibo, e annullati sotto il sole di Torre Argentina. E poi ci sono gatti deliziosi in ogni appartamento, ben pettinati, gatti da salotto con divani tutti per loro, o cucce pelose, ciotole piene, gli butti il prosciutto crudo sotto il tavolo e lo scansano. Gatti indisposti alla lotta, immemori di quanto hanno faticato per conquistare il caldo del focolare, gatti che non sanno più che cosa è la fame, e che se incrociano un topo fuggono, come fuggiamo tutti noi e come fuggiva in retromarcia il poliziotto sotto la redazione di Charlie Hebdo, davanti ai due terroristi col kalashnikov.

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SARA GRATTOGGI, LA REPUBBLICA 3/3/2016 –
Dal Foro Romano a Palazzo Massimo, i topi a Roma sono ormai «un grosso problema, che non riusciamo a fronteggiare». A denunciarlo è stato ieri il soprintendente per il Colosseo, Francesco Prosperetti, spiegando perché uno dei quattro desk della nuova biglietteria del Foro Romano e del Palatino, su piazza del Colosseo, sia rimasto chiuso temporaneamente, ieri e il giorno prima, per permettere la disinfestazione. Martedì – ha spiegato Prosperetti - «abbiamo dovuto fronteggiare un’emergenza: un topo è rimasto incastrato in una intercapedine sul tetto e l’operatore in servizio si è trovato del sangue sulla scrivania. Ma il problema riguarda tutta Roma e a Palazzo Massimo ha provocato anche proteste sindacali».
Tanto è bastato a far scoppiare la polemica. Con il Codacons che ha denunciato «l’emergenza », ventilando il pericolo di «epidemie» e invocando l’intervento della magistratura. Mentre di «città allo sbando, dove il degrado è la regola » ha parlato Guido Bertolaso, candidato sindaco come la grillina Virginia Raggi che ha twittato: “Topi al Palatino. Segno di un degrado intollerabile. Ci meritiamo una città diversa: cambiamola insieme, liberiamola dalla vergogna”. Per Stefano Fassina, anche lui in corsa per il Campidoglio, servono «interventi che contrastino il degrado», ma anche «le risorse necessarie» e questo è un tema che «deve investire anche il governo».
Il diluvio di reazioni ha poi spinto Prosperetti a correggere il tiro: «Si è trattato di un caso isolato, non c’è alcuna invasione o emergenza topi né al Colosseo, né al Foro Romano, che sono rimasti regolarmente aperti. Mentre a Palazzo Massimo, il caso anch’esso isolato ha riguardato uno scavo stradale per impianti di pubblica utilità di fronte al museo, ma estraneo alla Soprintendenza. La presenza di topi a Roma è fatto annoso e noto, che non spetta alla Soprintendenza affrontare e risolvere».

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LAURA SERLONI, LA REPUBBLICA 3/3/2016 – 
Un allarme antico quanto la città. Eterna (ma si rinnova quotidianamente) l’emergenza per l’invasione di topi nei musei, nei ristoranti, nei negozi, nelle scuole, nelle case e anche negli ospedali della capitale. Incubo per residenti e turisti che spesso con foto e video documentano sul web l’assalto dei roditori ai cassonetti lerci e alle buste della spazzatura lasciate in strada in attesa di essere raccolte. E se a New York il sindaco Di Blasio un anno fa ha dichiarato “guerra” ai ratti con una task force di 45 ispettori e 611mila dollari stanziati per l’attacco a West Harlem, Chinatown, Lower East Side e il South Bronx; Roma porta avanti la sua battaglia con 500mila euro di fondi all’anno. Risorse fuori bilancio, veicolate tramite “Ama Card” che permette ai quindici municipi romani di intervenire in aree ed edifici pubblici. A conti fatti il centro storico ha 35mila e 500 euro a disposizione.
In cinque anni le risorse sono state quasi triplicate: dai 190mila euro del 2011 si è arrivati a mezzo milione del 2015, anno in cui sono stati 1.700 gli interventi di disinfestazione. E già nei primi mesi del 2016 si è a quota 600. Operazioni che nel tempo hanno avuto un andamento oscillante: 1.600 nel 2012, 1.350 nel 2013, 2.200 nel 2014. Come funziona? Nell’arco di 20 giorni una squadra dell’Ama, l’azienda romana dei rifiuti, ripete la pulizia tre volte: la prima posiziona le esche, la seconda e la terza le sostituisce se mangiate o avariate. L’emergenza ormai è diventata da codice rosso: sono cresciuti del 45% gli sos dei romani per gli interventi di derattizzazione, almeno secondo i dati dell’Anticimex, una delle aziende leader del settore. Il dato fotografa la gravità del fenomeno. E non è un caso se il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca — che la prossima settimana firma un’ordinanza per vietare l’abbandono dei rifiuti in strada — ha coinvolto nella battaglia i Nas dei carabinieri, il ministero dell’Ambiente e della Salute, l’Ispra e la forestale. D’altronde ne va dell’immagine della città. Così ha deciso anche di centralizzare la gestione degli interventi sul territorio: niente più soldi dati a pioggia ai vari municipi, ma fondi focalizzati sulle zone più critiche.
Non esiste un dato scientifico che testimoni quanti siano i roditori in città, ma secondo alcune ricerche sarebbero in un rapporto di 2 a 1 cioè il doppio della popolazione residente. Che facendo due calcoli si tratta di oltre 6 milioni di topi a Roma. «Le specie più infestanti — spiega Elisabetta Lamberti, responsabile dell’ufficio tecnico Anticimex — sono tre: i topolini domestici, i ratti neri dei tetti e quelli delle fogne, i più presenti. È chiaro che se la gestione dei rifiuti non è corretta, i roditori si avvicinano alla città».
I nuovi sistemi di cattura sono green. Niente più prodotti invasivi né pericolosi per l’ambiente e per gli altri animali, ma trappole interattive alimentate da pannelli solari capaci di avvertire della cattura in tempo reale con un sms o una mail. I Comuni — come Roma — però si avvalgono ancora delle classiche esche, soluzione semplice ed economica. E chissà se, in tempo di crisi, a qualcuno in Campidoglio verrà in mente di clonare la colonia felina di largo di Torre Argentina per trasferirla ai Fori imperiali.

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TOPI PER SETTE, OTTOBRE 2013 –

A Roma stanziati 400mila euro per combattere i topi.

Stime sul numero dei topi: a Roma ce ne potrebbero essere centinaia di migliaia. A Milano 13 milioni. In tutta Italia ce ne sarebbero 500 milioni con punta massima a Napoli (12 per ogni abitante). A New York tra 28 e 100 milioni. In Gran Bretagna in dieci anni i ratti sono quasi raddoppiati, arrivando a 80 milioni.

«Non si potrebbe mai affermare, in realtà, che in una città ci sono troppi ratti, ma più realisticamente che ci sono esattamente quei ratti che la città è in grado di mantenere» (l’etologo Danilo Mainardi).

Le specie che vivono in Italia: topo domestico (Mus musculus), più piccolo; ratto nero (Rattus rattus) o ratto comune; e ratto grigio (Rattus norvegicus) o ratto delle chiaviche, molto grosso.

Servono almeno 48 ore per avvelenare un topo. Giorni, settimane per cancellare una colonia intera.

Massimo Donadon, con la sua azienda Max Bayer Deutschland di Carbonera, provincia di Treviso, è il più bravo a fare veleno per topi. Il segreto è abbinare il bocconcino fatale ai sapori più graditi per i ratti, che hanno gusti diversi a seconda della città in cui vivono. Così a New York hanno funzionato esche a base prevalente di margarina vegetale; in Olanda con salmone e formaggio, in Germania con grassi animali. A Pechino ha usato bocconcini di riso soffiato, a Dubai un menu che definisce «fusion». Ai topi di Treviso, invece, piacciono soprattutto zucchero filato e vaniglia.

Uomini e topi hanno un Dna simile per il 97,5%.

Un topo vive in media da uno a tre anni.

I topi appena nati sono ciechi e nudi: il pelo inizia a crescere il terzo giorno di vita, mentre gli occhi si aprono dopo due settimane.

I topi si possono accoppiare anche già dopo 5 settimane di vita. Si riproducono ogni 21 giorni. Una coppia di topi può generare in nove anni due milioni e 197mila tra figli e figli dei figli. Nel caso in cui il cibo sia disponibile con continuità, la femmina può partorire e rimanere nuovamente gravida praticamente in continuazione, con un massimo di quindici parti annuali.

Franz Kafka terrorizzato dai topi.

Durante l’inaugurazione della Biennale di Venezia del 1962, alla presenza del Presidente Antonio Segni, un artista liberò topi d’acqua che, correndo ovunque, gettarono il panico tra la folla.

In India, a Deshnoke, nello Stato nord-occidentale del Rajasthan, ogni anno fedeli e turisti fanno visita al tempio indù di Karni Mata, i cui pavimenti sono attraversati da 20mila topi di ogni tipo. Nell’induismo, infatti, le divinità possono assumere le sembianze di qualsiasi animale.

Osman Ali Khan VII, ultimo nizam (amministratore sovrano) dello Stato di Hyderabad prima dell’annessione all’India indipendente (1948). I topi, negli scantinati di una delle sue residenze, riuscirono a rosicchiargli l’equivalente di 3 milioni di sterline in banconote. La leggenda dice che - venuto a conoscenza del fatto - il nizam abbia scrollato le spalle con indifferenza, data la sua ricchezza.

Uomini e topi hanno cominciato a convivere circa 10mila anni fa, quando comparvero i primi granai per stivare le sementi.

Apollo Sminteo venerato tra i Greci come sterminatore di topi.

Il latino “rattus” deriva da “raptus” (furto), e “mouse” da “muisen”, parola d’origine balcanica che sta per “rubare”.

La parola “topo” è una variante dialettale romagnola di talpa.

Un topo di fogna può portare fino a 30 malattie trasmissibili all’uomo, pur restando sano.

Studiosi della Washington University School of Medicine, nel Missouri, hanno analizzato i suoni a 30 kHz - non percepibili dall’uomo - emessi da topi maschi mentre annusavano batuffoli di cotone intrisi di urina delle femmine. Stimolati dai feromoni contenuti nelle urine, i topi maschi iniziavano a cantare delle serenate, con toni ripetuti e peculiari per ogni animale.

I topi maschi quando vogliono far colpo sulle femmine si mettono a piangere. Con le lacrime, infatti, secernono feromoni con cui inviano messaggi sessuali irresistibili.

Uno studio ha dimostrato che i topi più apprezzati dalle femmine, e quindi i più prolifici, sono quelli che stanno a contatto con i gatti. Perché basta l’odore di un felino a renderli più coraggiosi, e perciò apprezzati dalle topoline.

Il supertopo creato dai genetisti della Case Western Reserve University di Cleveland, nell’Ohio: può correre per 5 ore di seguito, percorrendo anche 6 km, vive più a lungo, ha una intensa attività sessuale anche a tarda età, è aggressivo, mangia il 60% in più rispetto a un topo normale e non ingrassa.

Formidabile resistenza del topo. L’isolotto di Engebi nel Pacifico, scelto dagli americani per gli esperimenti nucleari, fu colpito in quattro anni da quattordici bombe atomiche e da una bomba termonucleare. Tali ordigni, avendo trasformato il suolo in una lastra di vetro, cancellarono ogni forma di vita e vegetazione a parte i topi, che popolavano l’isola a milioni e si nutrivano di pesca.

Chi sogna topi secondo la Smorfia napoletana può giocarsi l’11 (’e surice).

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VITO TARTAMELLA, FOCUS 10/2015 –
Quando calano le tenebre, sbucano furtivamente dai tombini e invadono la città, aggirandosi a piccoli gruppi in cerca di cibo. Si muovono rapidi, come ombre inquietanti che zampettano lungo i marciapiedi deserti... L’estate scorsa i ratti sono tornati al centro delle cronache: additati come il sintomo clamoroso del degrado di Roma, ma anche di Milano, Cagliari, Ivrea, Trani. Dobbiamo preoccuparci? Rischiamo di essere messi in scacco da questi roditori, che già nella Storia hanno portato morte e distruzione con la peste? Oggi la lotta ai ratti, priva di nuove armi chimiche, si è potenziata con la tecnologia: alle trappole elettroniche, capaci di inviare un sms quando hanno ucciso un roditore, si è aggiunta la potenza di calcolo dei computer, che ne stimano le presenze con nuova precisione. Ma il futuro appare inquietante. Secondo Jan Zalasiewicz, docente di paleobiologia all’Università di Leicester (Uk), se il riscaldamento globale dovesse far estinguere i grandi mammiferi, sopravviverebbero solo i roditori, che potrebbero ingrandirsi fino a 1 metro di lunghezza per 80 kg di peso. Arriverà l’era dei super topi?
No, obiettano invece gli zoologi: se il clima dovesse surriscaldarsi, in realtà sarebbero avvantaggiati gli animali piccoli. Di certo i ratti sono davvero resistenti: dal 1948 al 1958, sulle isole Eniwetok (Isole Marshall, oceano Pacifico), furono testate 15 bombe nucleari. Quando, 4 anni dopo, gli scienziati della Marina militare Usa – protetti da tute anti radiazione – sbarcarono sulle isole, non c’era traccia di vegetazione e di animali. Tranne i ratti, che circolavano indisturbati.
«Nessuna città è immune da loro», avverte Dario Capizzi, zoologo della Regione Lazio e fra i maggiori esperti di roditori. «E di certo i tagli alla spesa pubblica (meno derattizzazioni, edifici abbandonati, cattiva gestione dei rifiuti) hanno reso più evidente il problema. Ciò vale per Roma ma anche per le altre città».
Fra i mammiferi, i roditori sono l’ordine con più specie sulla Terra: sono il 42% dei mammiferi, con 2.277 specie su 5.419. Ma quelle che hanno impatti negativi sulle attività e sulla salute dell’uomo sono per lo più 3: il topo domestico (Mus musculus), il ratto nero (Rattus rattus) e il ratto grigio (Rattus norvegicus, i ratti di fogna). Sono i ratti, in particolare, i più sgraditi abitanti delle città. «Arrivano dall’Asia e hanno avuto grande successo evolutivo perché sono molto resistenti e adattabili, oltre che intelligenti: hanno un alto tasso riproduttivo (una coppia può generare 108mila discendenti in un anno), si adeguano a ogni clima (vivono a qualsiasi latitudine, da -40 a oltre 50 °C), mangiano di tutto (possono rosicchiare perfino il piombo, il cemento, l’alluminio) e sono capaci di muoversi sotto terra, in acqua e di arrampicarsi», aggiunge Capizzi.

CACCIATORI. Il loro successo risale a 66 milioni di anni fa, quando apparvero i primi roditori, che impararono a cacciare di notte affinando l’udito, l’olfatto e il tatto, e sostituendo l’istinto con l’apprendimento. Come tutti gli animali piccoli, i ratti consumano molta energia e vivono poco, compensando questo limite con una grande prolificità. Possono avere 20 rapporti sessuali al giorno e, grazie a una gestazione breve (20-24 giorni), generare migliaia di discendenti in poco tempo. Ecco perché sono diventati anche i simboli del sesso, come testimoniano i termini topa, zoccola, sorca.
La capacità di moltiplicarsi in fretta è uno dei segreti del loro successo: in poco tempo si selezionano roditori sempre più adattati all’ambiente. Quelli sopravvissuti ai test nucleari, pur colpiti da mutazioni genetiche, le hanno diluite rapidamente da una generazione all’altra. Ed è per questo (e perché condividono quasi il 90% dei nostri geni) che questi roditori sono stati scelti per sperimentare nuovi farmaci: grazie alla loro prolificità, gli scienziati possono osservarne subito gli effetti su diverse generazioni.

A PIRAMIDE. I ratti vivono in colonie guidate dai maschi dominanti. Poiché dormono 20 ore al giorno, alcuni di loro fanno da sentinelle per vigilare sui numerosi predatori: colpa loro se il 95% dei ratti muore a 6-12 mesi, mentre la loro vita media sarebbe di 2 anni. E in caso di pericoli sono solidali: nel 1962, in Danimarca, una nave infestata dai ratti fu saturata di gas velenosi. Molti di loro riuscirono a salvarsi perché i più anziani si erano sacrificati otturando le condutture in cui scorreva il veleno.
Altrettanto raffinate le strategie che usano per procurarsi il cibo. Per rubare un uovo senza spaccarlo, ad esempio, un ratto lo prende e si capovolge a pancia in su; poi interviene un altro ratto che gli afferra la coda fra i denti e lo trascina fino alla tana senza rompere il prezioso bottino. In Breve storia della vita privata (Guanda), il saggista Bill Bryson racconta che i ratti riuscivano – non si sa come – a mangiare pezzi di carne appesi ai ganci di un alto soffitto in un impianto di imballaggio negli Usa. Un derattizzatore, spiandoli di notte, ha capito come: si mettevano l’uno sull’altro formando una piramide. Uno saliva in cima al mucchio e saltava sulla carne, scavandosi una galleria a morsi finché il pezzo cadeva a terra. E gli altri lo divoravano.
Sono anche abili cacciatori e nuotatori: «Sul lungomare di Palermo», aggiunge Graziano Dassi, derattizzatore di Saronno, «avevamo scoperto che la loro tana era nel frangiflutti al largo. Una sera ci siamo immersi e li abbiamo seguiti: uscivano a nuoto e raggiungevano i tramagli a un centinaio di metri; si avventavano sui pesci intrappolati, li ghermivano e li portavano a riva per mangiarli».

GRANAI E FOGNE. Non a caso, “ratto” ha la stessa etimologia di razzia: si stima che i roditori mangino fino a 1/5 delle riserve di cibo mondiali (oltre ai cavi elettrici: 1/4 degli incendi sono causati da loro). Sono state proprio queste riserve ad avvicinare i ratti agli uomini, dopo che per millenni avevano vissuto separati: «Nessun osso di roditore è stato trovato nelle caverne dell’uomo preistorico», sottolinea Francesco Santoianni nel saggio Topi (Giunti). La fastidiosa convivenza cominciò 11mila anni fa con l’invenzione dell’agricoltura: permise all’uomo di abbandonare il nomadismo e di vivere in comunità stanziali. «Nel 3000 a.C. i re della Mesopotamia accumulavano i raccolti nei granai per sostentare l’esercito: furono queste riserve di cibo ad attirare i ratti, che dalle aree del Mar Caspio raggiunsero l’Europa e l’Africa al seguito delle carovane di viaggiatori, via terra e via mare», racconta Santoianni.
Il temibile Rattus norvegicus (così chiamato perché avvistato per la prima volta 3 secoli fa in Nord Europa), in realtà, è originario di Cina e Mongolia: forse questa specie arrivò in Occidente per fuggire da un devastante terremoto avvenuto nel 1727 in Iran. Trovò rifugio nelle fogne delle città europee, che offrivano un habitat riparato, ricco di cibo, acqua e di vie di fuga. E proprio nelle fogne i ratti – di per sé animali puliti – diventano portatori di oltre 30 malattie trasmissibili all’uomo, dal tifo alla leptospirosi: ospitano parassiti, batteri, protozoi, virus. Ecco perché, da secoli, si tenta di debellarli con trappole e veleni.

ARMI CHIMICHE. La svolta risale al 1948, quando furono scoperti gli anticoagulanti: sostanze letali (provocano emorragie interne, facendoli morire in 5 giorni) e non percepibili dal loro sensibile olfatto. Oggi, però, la chimica segna il passo: per tutelare altri animali (uccelli, cani, gatti) dall’avvelenamento da esche per ratti, le leggi europee hanno ridotto il numero di molecole e di formulazioni utilizzabili. In più, già 12 anni dopo l’introduzione degli anticoagulanti, i primi ratti (in Scozia) vi si sono assuefatti. Così, oggi si usano i veleni di seconda generazione: ma è difficile dire per quanto ancora funzioneranno. «La strategia più interessante», aggiunge Capizzi, «sarebbe renderli sterili: dagli Anni ’60 sono state sperimentate varie sostanze, ma finora non hanno dato risultati efficaci. E comunque c’è il problema di come somministrarle in modo continuativo e senza contaminare altri animali».
Altri sistemi, invece, si sono rivelati un buco nell’acqua: dagli ultrasuoni (all’inizio li tengono lontani, ma poi si abituano) fino ai predatori: «Alle Hawaii», ricorda Capizzi, «furono introdotte le manguste, che sono predatori diurni, mentre i ratti circolano di notte. Risultato: le due specie non si incontrarono mai, e le manguste distrussero i raccolti». In realtà hanno successo, nella caccia ai ratti, furetti e cani addestrati, usati in Spagna, Usa, Germania. Ma i killer più infallibili sono i rapaci: un gufo può catturare anche 100 roditori in una notte.

ALGORITMI. Ma se la guerra chimica è arenata, «l’elettronica ha aperto nuovi orizzonti», racconta Dino Gramellini, direttore tecnico di Anticimex, una delle 3 multinazionali di disinfestazione in Italia. La nuova frontiera sono le trappole intelligenti. Ne esistono di due tipi: la “smart trap” per le fognature, con un rilevatore di movimento e di calore, che fa scattare una ghigliottina quando un ratto vi passa sotto; e la “smart box” per le ville, alimentata a pannelli solari: cattura i ratti e li folgora con una scossa elettrica. «Entrambe le nostre trappole», spiega Gramellini, «inviano un sms o una mail per segnalare l’avvenuta esecuzione».
Intanto, il Dipartimento di salute pubblica di New York ha lanciato nel 2014 il “Rat information portal”, un sito che visualizza le segnalazioni di ratti su mappe interattive, per monitorarne la concentrazione e programmare interventi mirati. E a Chicago, grazie a uno studio sulle denunce degli ultimi 12 anni, hanno elaborato un software capace di prevedere, sulla base di 31 variabili (attività, traslochi, stagione...) dove appariranno i roditori con 7 giorni di anticipo. Un algoritmo sconfiggerà i ratti? «Qualsiasi cosa inventeremo», risponde Gramellini, «dobbiamo farcene una ragione: hanno comunque già vinto loro».
Vito Tartamella

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ALBERTO MATTIOLI, LA STAMPA 16/2/2016 –
AOSHIMA, DOVE VIVONO PIÙ GATTI CHE UOMINI –
Sei gatti per ogni umano? Praticamente, è la proporzione perfetta, considerando che in media un umano è sei volte più molesto di un gatto. Per i gattolici credenti e praticanti, il Paradiso c’è ed è su questa terra, anche se non esattamente a due passi: l’isola di Aoshima, prefettura di Ehime, Sud-Ovest del Giappone, un chilometro e mezzo di terra senza hotel, ristoranti, automobili e con appena 22 residenti umani. In compenso, ci sono 120 gatti. Dev’essere un posto meraviglioso. Lì i gatti non sono ospiti, ma padroni di casa. Cat power, finalmente.
Le fotografie sono impressionanti, forse anche leggermente inquietanti: gatti ovunque, in massa, in folla, un assembramento, una ressa di gatti, più fitti dei cinesi nella metropolitana di Pechino all’ora di punta o dei parlamentari dell’Ncd in Transatlantico quando si parla di un rimpasto di governo.
LA FESTA
Più modestamente, in Italia, domani, 17 febbraio, è la Festa del gatto. Intanto perché è il 17, anzi XVII, anagrammato dà VIXI, ho vissuto, e com’è noto ogni gatto ha sette vite da vivere; e poi perché febbraio è il mese dell’Acquario, segno degli esseri liberi e anticonformisti, e nessuno è più libero e anticonformista di un gatto. Invece ad Aoshima la festa coi baffi dura tutto l’anno. È il bel paese dove il miao suona. I gatti occupano le abitazioni abbandonate, colonizzano ogni spazio pubblico e privato e dominano il porto, dove tutti i giorni, unico contatto con il resto del mondo, arriva un ferry e sbarca il suo carico di 34 turisti, di più non ce ne stanno, che vengano a visitare la «Neko no shima», l’isola dei gatti, quel pezzettino di Impero giapponese che è diventato l’Impero del gatto.
In effetti, Aoshima è popolata da 380 anni, per lo più da pescatori e ovviamente di gatti, a suo tempo importati per dare la caccia ai topi. Il picco di abitanti, intendendo i bipedi, fu raggiunto nel 1945, quando arrivarono sull’isola gli sfollati in fuga dai bombardamenti americani: 900 residenti. Da allora, è stato un continuo declino, finché l’isola non si è quasi interamente spopolata, come certi paesini italiani sugli Appennini o nel profondo Sud. Man mano che gli uomini emigravano o morivano, la colonia dei gatti cresceva e si moltiplicava, fino al boom degli ultimi dieci anni, quando i mici, in pratica, hanno preso il controllo della località.
È stato un golpe demografico, in assenza di predatori pericolosi e di controllo delle nascite. L’unica infermiera locale fa in pratica la veterinaria, ma i gatti sterilizzati sono appena una decina, quindi la popolazione felina continua a crescere ed è diventata una (moderata) attrazione turistica. Pare però che i residenti, quasi tutti anziani, non ne siano entusiasti e preferiscano essere lasciati in pace, tutti intenti alla loro nobile missione di accudire i gatti.
I SANTUARI
Aoshima non è l’unica «isola dei gatti» giapponese. Il «Washington Post» ne ha contate undici, fra le quali Tashiro-jima, dove addirittura ai mici sono state erette 51 statue e consacrati dieci santuari. Cose che capitano in quello che non è solo il Paese del Sol Levante, ma anche del «Maneki neko», la statuetta del gatto portafortuna che imperversa ovunque, dei cartoni animati di Hello Kitty e dei «Neko café», i caffè dei gatti dove a disposizione dei clienti ci sono anche dei gattoni da coccolare (un’idea esportata anche nel resto del mondo, Italia compresa). E nelle foto della famiglia dell’erede al trono, oltre alla moglie principessa triste, ai figli e a un unico crisantemo, fiore nazionale, in un unico vaso (insomma, il trionfo del minimal chic), compare anche il gatto principesco (e per la verità anche il cane, perché non bisogna scontentare nessuno) che, essendo un gatto giapponese, posa perfettamente immobile e disciplinato.
Niente male davvero. Come dice il protagonista di Io sono un gatto di Natsume Soseki (1905), primo grande romanzo «moderno» della letteratura giapponese e suo indiscusso capolavoro: «Gli umani, per quanto forti, non saranno in auge per sempre. Meglio attendere tranquillamente l’ora dei gatti». Ad Aoshima è già arrivata.
Alberto Mattioli, La Stampa 16/2/2016

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EMANUELE TREVI, LA LETTURA 14/2/2016 –
IL CONTAGIO, COSÌ INEVITABILE PER NOI UMANI –
Non sono il solo a nutrire una tenace diffidenza nei confronti dell’aggettivo «globale». Con tutte le sue pretese di spiegare la realtà, mi sembra una parola difettosa, sospesa tra la pura tautologia e la petizione di principio. Più che esprimere un pensiero, denuncia un’abitudine. Al concetto di «virale», invece, e alla metafora del «contagio» che gli fa da base, attribuisco una grande credibilità. Il «virale» designa alla perfezione tutti gli innumerevoli fenomeni che costituiscono la cosiddetta «globalità». Non è un destino, una legge, un dato di fatto a cui dobbiamo adeguarci, bensì un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, dotato di possibilità di espansione e contrazione.
Per constatare quanto la metafora sia adatta a render conto di molti dei fenomeni più emblematici del nostro tempo, lungo un arco di significato che va dalle catastrofi economiche ai prodotti estetici, basta seguire un telegiornale dall’inizio alla fine. In queste settimane, la notizia di apertura riguardava spesso le Borse asiatiche. Ogni mattina, misteriose fluttuazioni di valori e listini generano un contagio di sfiducia che accompagna il corso del sole come i fidi cavalli alati della mitologia, ritornando al punto di partenza dopo essersi propagato attraversando mari e continenti. Simili a medici che hanno esaurito tutti i loro rimedi, gli operatori finiscono sempre per guardare i loro monitor a braccia conserte, augurandosi che chi ha deciso di inoculare il virus questa volta non esageri.
Dalla finanza alla geopolitica, in un notiziario, il passo è breve. Il bollettino del terrorismo planetario va aggiornato di continuo, ma l’orrore delle imprese jihadiste è la conseguenza di un altro genere di contagio, che infesta le reti dei social network contatto dopo contatto. Questo virus è così potente da trasformare nel giro di qualche giorno persone in apparenza normalissime in mostri decisi a farsi saltare in aria trascinando con sé il maggior numero possibile di innocenti. L’efficacia del reclutamento incute quasi più paura degli attentati. I servizi finali di un telegiornale per tradizione sono meno ansiogeni, e appartengono a quell’indefinibile galassia che nelle redazioni viene definita come «cultura e spettacoli». Ma non per questo la metafora del contagio perde la sua forza: al contrario, la viralità decreta molte delle effimere glorie artistiche di oggi, con grande scorno dei vecchi critici aggrappati ai loro scranni e a un modello del sapere e del giudizio in via d’estinzione.
Nell’immaginare questo telegiornale, stavo dimenticando che è sempre più raro un periodo privo di minacciosi allarmi sanitari – come appunto il virus Zika di questi tempi o le ricorrenti paure legate alla meningite —, destinati o meno a tramutarsi in emergenze vere e proprie. Tra i tanti impieghi metaforici, un concetto deve pur mantenere una sua base di senso letterale. Altrimenti, le metafore farebbero la fine dei palloncini che si perdono nel cielo. Le epidemie e i contagi, considerati in senso sanitario, risvegliano tratti arcaici nella nostra umanità dall’illusione di un progresso lineare e infinito. Sorridiamo degli antichi e della loro teoria dei «miasmi» vaganti nell’atmosfera, inorridiamo leggendo la Storia della colonna infame di Manzoni, ma con tutta la nostra tecnologia, i vaccini sono difficili da trovare come gli aghi nel pagliaio dei proverbi. Ed è il nostro modo di vita, fondato sulla facilità degli spostamenti e dei contatti, a rendere i virus più pericolosi di quanto lo fossero nell’Atene di Tucidide o nella Londra di Daniel Defoe.
verità è che, prima ancora che definirsi «mortale», l’umanità dovrebbe pensare a se stessa come la forma di vita più «contagiabile» al mondo. Dagli organi del corpo alle più sottili e impalpabili emozioni, non esiste nulla in noi che sia dotato di un’esistenza autonoma. A partire dalla più umana delle facoltà, quello straordinario contagio perpetuo che è il linguaggio. Sarà per questo che tutte le forme di saggezza superiore elaborate dalle culture più diverse hanno in comune un ideale di separazione tanto fisica quanto spirituale. Dai filosofi-maghi taoisti ai sapienti greci, dagli asceti indiani ai poeti romantici, per non parlare degli eremiti cristiani dei primi secoli, un buon uso della solitudine è la caratteristica fondamentale dell’uomo dotato in misura eccezionale di poteri spirituali e consapevolezza. Come lo Zarathustra di Nietzsche, quest’uomo potrà pure un bel giorno decidere di scendere fra gli uomini dalla sua montagna, ma è lì che è diventato se stesso. La solitudine lo ha preservato dal contagio delle opinioni, ha tenuto acceso in lui il fuoco esclusivo della verità.
Non si tratta di un vano ideale aristocratico di sapore fascistoide. Una preoccupazione non diversa poteva animare Albert Camus quando, nel 1947, pubblicava La peste, un capolavoro che troppo spesso tendiamo a relegare nell’insipido limbo delle letture scolastiche. E invece, è uno di quei libri che non sentono gli anni, il frutto di un’intuizione antropologica fulminante. La grande allegoria di Camus si basa su un sorprendente rovesciamento: l’epidemia di peste che si abbatte all’improvviso su Orano è certamente un’emergenza imprevedibile. Ma se lo stato d’eccezione sovverte abitudini e valori, finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Il contagio è immaginato da Camus come un assedio. Dalla pacifica e sonnolenta città della costa algerina, nessuno può più uscire. E chi si trovava fuori nei giorni in cui l’epidemia è scoppiata, non può fare ritorno a casa. Mentre il conto dei morti sale implacabile giorno dopo giorno, si instaurano nuove leggi e vengono minacciate severe punizioni per chi le infrange. Sono tutte misure profilattiche razionali, ispirate al bene comune. Ma c’è un prezzo da pagare. La peste rende tutti uguali. Il primo effetto della paura sembra quello di annullare quelle esigenze di libertà che sono proprie all’individuo, all’irripetibile conformazione dei suoi desideri e delle sue speranze. Non potrebbe andare diversamente, vista la situazione. È la regola di ogni emergenza: sanitaria, economica, criminale. La grande morìa dei topi di Orano, descritta nelle pagine iniziali della Peste, suona come una terribile profezia, un geroglifico che nessuno al momento è capace di decifrare. A far inorridire non è solo la malattia che accomuna uomini e bestie nella stessa sorte, ma il fatto che i topi sono un’entità collettiva, la sinistra parodia di una società dove l’esistenza del singolo non ha più nessun peso, nessun senso.

Pochi mesi dopo La peste, George Orwell pubblicò 1984. Questi due grandi scrittori, spiriti liberi in un mondo infestato dal conformismo e dall’ottimismo di partito, raccontarono più o meno la stessa storia. La peste di Orano e il Grande Fratello non si oppongono, ma si integrano, sono simboli di un male che per manifestarsi non fa distinzione tra catastrofi naturali e incubi culturali. Non mancano, ahimè, le occasioni di constatare quanto sia illuminante il corto circuito innescato da Camus fra la peste e i flagelli inventati dall’uomo. Non c’è nulla che assomigli alla sua Orano stremata dal contagio più delle immagini di Parigi e Bruxelles paralizzate dal terrore che si vedevano in televisione lo scorso novembre.
Ancora meglio di Orwell e Camus, noi oggi sappiamo che non c’è modo di rimediare alla caratteristica suprema della nostra vita fisiologica e mentale, che consiste in un grado irrimediabile di contagiabilità. La solitudine degli antichi saggi è diventata una strada impraticabile, una specie di mito psicologico. Forse l’unica vera risorsa che ci resta è quella di andare a scuola dalla peste, combattere il contagio con le sue stesse armi.
È l’idea che mi ispira quello che, in tutta la sterminata letteratura sulle epidemie, mi sembra il racconto più ricco di senso, e misterioso. Si tratta di poche righe del libro VII delle Storie di Tito Livio. Nel 364 avanti Cristo, una pestilenza molto aggressiva aveva messo Roma in ginocchio. Non si sapeva più quale dio implorare. Ai due consoli in carica viene una di quelle idee che solo la disperazione sa suggerire. Su invito delle autorità romane, arrivò in città dall’Etruria una compagnia di attori. I Romani, ci ricorda Livio, in quei tempi di sobrietà repubblicana erano guerrieri che al massimo si concedevano i rozzi piaceri del circo. L’impressione prodotta da quegli uomini e quelle donne che si aggiravano nelle strade silenziose della città infestata dovette essere di stupore e meraviglia. Non facevano nulla di speciale, osserva Livio, limitandosi a suonare il flauto e a mimare qualche azione stereotipata. Probabilmente non si trattava di una rappresentazione molto castigata. Ma la cosa più importante è che i giovani romani iniziarono a imitarli. Si scambiavano versi rozzi, destinati a suscitare il riso, e provavano a muoversi in modo adeguato alle cose che dicevano. Quei misteriosi stranieri avevano portato nelle mura di Roma il bacillo del teatro.
C’è molto da meditare su questa strana notizia che già ai tempi di Livio proveniva da un passato ormai remoto. Quello che ci racconta il grande storico è il sorgere di una forza contraria là dove tutto cospirava alla fine: un contagio nel contagio. Non è stata ancora trovata una strategia più efficace di questa.

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MATTIA FELTRI, LA STAMPA 6/1/2016 – 
ROMA ZOO APERTO. A SPASSO TRA TOPI, LUPI E FALCHI DEL TEXAS –
Dopo tre giorni Cami, Nicky, Gimmy, Giorgio e Angela sono tornati a casa: erano troppo pochi contro gli storni che a Roma sono calcolati in centinaia di migliaia, una stima vaga ma espressiva. Cami, Nicky, Gimmy, Giorgio e Angela sono cinque falchi del Texas - nel senso di razza di rapaci, non di sostenitori delle politiche di G.W. Bush - portati sul lungotevere da un falconiere di Latina. Per rassicurare gli animalisti, la cui preoccupazione per la sorte degli storni non era distratta dai due centimetri di fanghiglia di guano che copre strade e auto, il falconiere disse che i suoi pennuti non avrebbero fatto agli storni niente più che spavento. Non gli hanno fatto neanche quello. Succedeva a novembre. Siamo a gennaio e si spera arrivi il freddo e se ne vadano gli storni. Ci lasceranno alle prese con i gabbiani: a Roma ce ne sono fra i 40 e i 60 mila. Li portò Folco Quilici negli anni Settanta, una coppia che si stabilì in centro e si trovò bene, presto raggiunta da simili: inutile stare al mare a fare una faticaccia per contendersi due pesci quando in città c’è spazzatura, ci sono piccioni, passeri, topi, cioè parecchio cibo. Ora, chiusa anche la discarica di Malagrotta, i gabbiani sono tutti qui, fra piazze e vie, rissosi e voraci, spietati, e con nessun senso di inferiorità.
A Roma sono stati censiti oltre cento tipi di volatili. Altri rapaci, i falchi pellegrini, i gheppi e poi gli allocchi, i picchi, le cornacchie, i merli, i pappagalli, una quantità spropositata di pappagalli verdi, più resistenti allo smog dei piccioni, e che hanno preso possesso degli alberi di Villa Ada, Villa Pamphili, Villa Torlonia. Avanti, a Roma c’è posto per l’intera arca di Noè, negli scorsi anni delle anatre nidificarono sul tetto di palazzo Chigi e poi furono traslocate da quelli della Lipu (lega italiana protezione uccelli) in luoghi meno cruciali della vita pubblica, ma ci si continua a chiedere come siano arrivate delle anatre a prendere domicilio a palazzo Chigi. Non è l’unico mistero: come arrivarono i maiali a grufolare fra i rifiuti della Boccea? E nemmeno si sta scherzando: forse qualcuno ancora non sa che a Roma ci sono i granchi, e non nei laghetti dei parchi o in zone verdi e periferiche, ma sui Fori, escono di notte, sono granchietti d’acqua dolce che vivono qui da millenni, si riproducono nel fiume che scorre sotto il Colosseo edificato, appunto, sul laghetto di Nerone. I granchi sono carucci, ma l’ultimo allarme, allarme vecchio come l’Urbe, riguarda i topi, bestie già meno affascinanti: a Castel Sant’Angelo ratti sui venti centimetri si muovono con disinvoltura fra cassonetti, panchine, giostrine dei bimbi. Vuol dire che stanno aumentando, in città ne circolano a milioni - altra stima che non ha bisogno di esattezza - e nonostante siano uno dei piatti alla più facile portata dei gabbiani.
Ora avete l’ansia? Peccato perché non siamo ancora arrivati al clou. Nel 2015 nell’area urbana ci sono stati oltre quattrocento «avvistamenti affidabili» di lupi, soprattutto sull’Aurelia a Roma Nord. Probabilmente i lupi seguono i cinghiali che sono diventati tantissimi e si spingono fino in città per trovare cibo: alla sera li si incontra sulla via Cristoforo Colombo, in zona Eur, ma non è che lì ci sia l’esclusiva. A loro volta i cinghiali mangiano le vipere; in realtà cercano soprattutto nei cassonetti fra i palazzi, perché di vipere a Roma non ce ne sono molte, soltanto qualcuna qua e là; pochi mesi fa un poveretto se n’è trovata davanti una nell’androne via Cortina d’Ampezzo (al delimitare della campagna) e all’ospedale di San Pietro, sulla Cassia, spiegarono che capita di medicare gente morsicata: per fortuna la vipera è più pacifica e meno pericolosa di quanto si pensi. E naturalmente non frequenta il centro, al massimo frequentato dai cormorani, che hanno fatto colonia nei dintorni del fiume, come le nutrie che tempo fa - non solo a Roma - con la fine del mercato delle pellicce furono liberate perché costava meno che ammazzarle. Volendo l’elenco non finirebbe mai: ogni tanto spuntano le volpi, anche a piazzale Clodio dove c’è il tribunale, nei parchi si riparano gli scoiattoli e i barbagianni, e così si sono registrate donnole, puzzole, istrici, ricci, faine, una varietà che suscita l’orgoglio di uffici deputati, come quello per la Biodiversità del Corpo forestale: «Roma è un esempio verde per l’Italia». Un verde tendente jungla.

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MAURIZIO CRIPPA, IL FOGLIO 23/6/2015 – 
LA PREVALENZA DEL TOPO NELL’INCONSCIO INCOSCIENTE DEI POLITICI - Per primo aveva cominciato il Pifferaio di Hamelin, perché tutto si può dire di Beppe Grillo ma non che gli manchi il fiuto animale per quel che gli altri vorrebbero urlare ma non sanno, e quando suona il flauto tutti se li porta dietro. E dunque gli scappò il celebre tuìt, “prima che la città venga sommersa dai topi”. Poi è arrivato il tuìt di tale Victor Pablo Dana, collaboratore di Mr Bee, il cinese dei danari del Milan. Saputo che a Milano ci sono cinque milioni di pantegane, più dei turisti di Expo, il caballero non s’è tenuto: “Saranno fan dell’Inter”. Apriti cielo. A questo punto, anche il più fesso degli adolescenti coi brufoli avrebbe cambiato battuta, ma Ignazio Marino no, lui ha studiato tanto e vuole essere il nuovo Uomo dei topi di freudiana memoria: “Non hanno vergogna? Perché non tornano nelle fogne?”. E siccome le vere signore, si sa, quando vedono i topolini saltano in piedi sulla sedia, ha strillato Giorgia Meloni: “Siamo già nelle fogne come ogni romano. Dimettiti invece di dire cretinate”. E infine Daniela Santanchè, con la falce come Sorella morte: “L’unico che deve scappare via alla velocità di un topo è lui”. A essere pessimisti viene in mente che quando l’inconscio di tutti inciampa nei topi è perché la nave affonda, o la peste è già in città. Ma per non scomodare le nere visioni di Günter Grass, diremo che l’anno del topo è per i cinesi un anno di prosperità. Solo che il prossimo è nel 2020. E a quel punto, pure se andasse come vuole il Cav., in Italia s’è già votato e a Roma pure. E chi è scappato è scappato.
MAURIZIO CRIPPA

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FRANCO BECHIS, LIBERO 10/3/2015 – 
RENZI E LA CACCIA AI TOPI. DOPO AVER SPESO 10MILA EURO IN DERATIZZAZIONE PER VIA DELLA MERCEDE, IL GOVERNO NE SPENDERÀ ALTRI 4MILA PER UBRIACARE I PICCOLI RODITORI PRIMA DI MANDARLI IN COMA ETILICO CON EKOMILLE, UNA NUOVA TRAPOLLA DA PIAZZARE IN CORTILE –
La caccia al topo è il safari preferito da Matteo Renzi. Per la quarta volta dal novembre scorso la presidenza del Consiglio dei ministri ha avviato la disinfestazione dai fastidiosi roditori a palazzo Chigi e nelle sue dependance. Già quasi diecimila euro sono stati impiegati allo scopo fra il 28 e il 30 novembre 2014 per cacciare i topi dalla sede di via della Mercede 96, che ospita la prestigiosa Biblioteca chigiana. Cinquemila euro per cacciarli dal sottotetto del palazzo, e altri mille per la «derattizzazione dei cunicoli nei locali interrati e nei locali tecnici siti al piano terra e nel cortile». Ancora 2.504 euro per allargare la disinfestazione agli acari che pare infestassero i tomi della Chigiana. Ieri ancora una volta la presidenza del Consiglio ha chiamato la Romeo Gestioni affidandole una nuova guerra ai topi. L’assegno questa volta è di 3.806,40 euro, e si cambia strategia: «Derattizzazione da eseguirsi nel cortile mediante fornitura in comodato d’uso di n.2 apparecchiature Ekomille e del servizio di monitoraggio e manutenzione mensile per un anno» sempre in via della Mercede 96. Chissà se è stato lo stesso Renzi a suggerire le armi, perché le Ekomille in fondo utilizzano lo stesso metodo che il premier adotta in politica: si stordiscono i malcapitati (in un caso gli elettori, in questo caso i topi) di promesse, in genere false, li si ubriaca di aspettative, e una volta storditi, zac! Li hai presi e fatti prigionieri. Gli elettori una volta passata l’ubriacatura potranno prendersi la loro libertà. I topi no, ed è la sola differenza di metodo. I due apparecchi Ekomille che verranno messi nel cortile del palazzo di via della Mercede infatti contengono false promesse di cibo, che attraggono irresistibilmente i roditori. Secondo i produttori è una macchina «ecologica, sicura e igienica», addirittura frutto di «anni di studi e ricerche, con dieci anni di esperienza certificata». Il topo «attirato da adescanti naturali, viene catturato istantaneamente appena cerca di mangiare. Sensibilissimi congegni elettromeccanici consentono catture immediate, multiple e continue». E così i roditori finiscono nel bidone-trappola. È a quel punto che scatta la seconda fase del piano. In un forum on line con i potenziali clienti la racconta un tecnico rappresentante della Ekomille: «I roditori muoiono per coma etilico a seguito della loro caduta nella soluzione Ekofix, liquido conservante di natura alcolica, contenuto nella sezione inferiore dell’apparecchiatura». Capito? Appena mangiato il falso cibo (che non è veleno), i topi cadono in una sorta di superalcolico. Si ubriacano e finiscono quasi subito in coma etilico, morendo rapidissimamente. Storcono il naso gli animalisti? Beh, non è che il veleno per topi che di solito si usa sia un toccasana per loro. Il rappresentante Ekomille ha comunque una risposta anche per loro: «L’ Istituto Mario Negri Sud ha effettuato delle prove sulla morte dei roditori in Ekomille, attestando che la modalità riscontrata, comparata con le altre metodiche abbattenti esistenti sul mercato, si rivela come la meno cruenta». Proprio modello Renzi: ti ubriaca di promesse, e stordito come sei gli dai il voto. Scopri dopo che è una fregatura, ma non così violenta: sempre più incruenta di quella che ti hanno tirato Mario Monti ed Elsa Fornero.

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FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA 5/3/2015 – 
TOPI – La peste bubbonica minaccia New York? Un’epidemia potrebbe scatenarsi dalle viscere della City, dove trova il loro habitat naturale il popolo dei ratti.
Lo dicono due studi americani secondo cui i topi newyorkesi sono infestati da pulci che potrebbero essere portatori di peste bubbonica. Tracce di Dna del batterio della «morte nera» sarebbero state trovate tra i tunnel e gli snodi della metropolitana.
Un primo studio, pubblicato dal «Journal of Medical Entomology», ha analizzato 6.500 pulci, pidocchi e acari rilevati su 113 topi intrappolati in cinque luoghi differenti di Manhattan, tra cui tre condomini. Circa il 30% dei ratti erano portatori di «pulci orientali», ovvero quella specie che ebbe un ruolo determinante nell’epidemia che devastò l’Europa nel XIV secolo. Matthew Frye, entomologo della Cornell University, e autore della ricerca spiega che appaiono di importanza essenziale le misure preventive adottate dalle autorità sanitarie. «Se questi topi sono portatori di pulci che possono trasmettere la peste agli esseri umani, il solo anello mancante per il ciclo di contagio è l’agente patogeno», spiega Frye.
Occorre tornare indietro agli Anni Venti per rintracciare un’indagine sul rischio peste nella città di New York. Allora gli studiosi riscontrarono la presenza in media di 0,22 pulci orientali per ogni ratto, oggi la media è di 4,8 pulci, con un picco di 25,7 punti per ratto. Lo studio segue un altro pubblicato lo scorso mese dalla rivista «Cell System», secondo cui sono state rinvenute tracce di peste Yersinia tra le migliaia di batteri rilevati nel sistema metropolitano di New York. Gli autori della ricerca spiegano che si tratta di microbi morti e che il rischio di un’epidemia di peste è lungi dall’essere uno scenario reale. Anche perché «la medicina moderna ha a disposizione antibiotici che possono efficacemente contrastare la malattia se viene individuata nelle sue fasi iniziali», avverte Frye.

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MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA 23/11/2014 –
GRATTACIELO (CON TOPI) PER VOGUE –
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK Ci mancavano solo i topi-alpinisti arrivati fino al 26esimo piano della torre più alta di New York per complicare l’odissea del World Trade Center, il grattacielo che ha preso il posto delle Torri Gemelle.
La ricostruzione, dopo l’attacco terroristico del 2001, si è trascinata per molti anni e, uffici pubblici a parte, è stato molto difficile per i gestori dell’immobile trovare inquilini tra i gruppi privati. L’operazione è decollata solo quando l’editore Condé Nast ha deciso di trasferire qui il suo quartier generale e tutte le testate, dal New Yorker a Vanity Fair. Ma adesso la «celebrity» più in vista del gruppo, la direttrice di Vogue , Anne Wintour, minaccia di rifiutare il trasferimento se l’edificio non verrà liberato dai ratti che, a quando pare, hanno accolto le avanguardie del gruppo editoriale che hanno iniziato il trasloco da Midtown nelle scorse settimane. Animaletti scodinzolanti tra i tacchi a spillo che rosicchiano gli abiti di alta sartoria pronti per le top model? Orrore!
La sfacciataggine dei topi newyorchesi è leggendaria, ma in genere i roditori si aggirano nel sottosuolo, sulle strade tra negozi e ristoranti e negli appartamenti ai piani bassi nei quali trovano cibo. Difficilmente vanno oltre il decimo piano. Il World Trade Center fa eccezione perché è stato a lungo disabitato.
I proprietari minimizzano: derattizzare la torre non sarà un grave problema, ma i giornalisti sono scettici, visto che finora i servizi di sicurezza non sono nemmeno riusciti a evitare che la torre fosse scalata da diversi «base jumper».

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FULCO PRATESI, CORRIERE DELLA SERA 24/11/2014 –
LA NECESSITA’ DEI GUFI -
Il Presidente del Consiglio pare non mostrare eccessiva simpatia per i gufi. Ed è un peccato, perché le sue uscite ironiche stanno a poco a poco rinfocolando la diceria che fa di questi utilissimi rapaci notturni dei menagramo e jettatori da cui è bene guardarsi. E sono stati di conseguenza ripresi modi di dire che rinforzano l’ingiusto e ingeneroso giudizio, tanto che pure nel calcio e in altri sport, il verbo «gufare» è divenuto assai diffuso. Questo nonostante da decenni gli ornitologi e gli etnologi sostengano sia la grande utilità di gufi e civette, sia l’assoluta inconsistenza delle tradizioni che li definiscono «uccelli del malaugurio», esponendoli per secoli a indegne persecuzioni. Il fatto di vivere di notte, di emettere canti spesso considerati lugubri o malinconici, di frequentare i luoghi abitati, hanno appesantito i pregiudizi nei loro confronti. Nella nostra città, dotata di una fauna «clandestina» particolarmente ricca e variata, i cosiddetti «gufi» sono ben rappresentati. Il maggiore esponente di questa famiglia, il gufo reale, dall’apertura alare che supera il metro e 80, probabilmente sfuggito da esperimenti di reintroduzioni in una vicina riserva naturale, si posò anni fa sul cornicione di Palazzo Farnese e su altri tetti del centro storico. Probabilmente viveva a spese dei ratti di cui non c’è proprio penuria. Oltre questa eccezionale presenza, i gufi di dimensioni minori maggiormente presenti in città sono l’allocco, la civetta, il barbagianni e il gufo comune, più raro. Sono tutti famosi cacciatori di topi e ratti. Secondo Francesco Petretti, naturalista e conduttore televisivo, «i rapaci notturni sono i metronotte della città, i veri operatori ecologici. È incredibile il numero di ratti che fanno scomparire e sono i soli, (considerata la quasi totale estinzione dei gatti di strada) in grado di bonificare strade, parchi e marciapiedi dai ratti». Con l’allocco ho una lunga consuetudine, dato che nel quartiere in cui abito, ve ne sono, pur se il recente diboscamento su via di San Valentino ne ha assai ridotto l’habitat. Nonostante ciò, anche nelle notti scorse ne ho udito il richiamo dolce e flautato. La civetta, più piccola, famosa per essere il simbolo della dea Minerva e della città di Atene ( Athene noctua il suo nome scientifico) nidifica nei fori dei tetti e dei ruderi e anch’essa cattura volentieri topi. E poi il bianco ed elegante barbagianni - ospite privilegiato di sottotetti e solai - e il gufo comune che ha nidificato di recente addirittura in una fioriera a Casalotti. Sono tutte creature che non meritano davvero essere oggetto di paragoni malevoli anche se solo a scopo di dileggio.

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TOMMASO BORZOMI, IL GAZZETTINO DI VENEZIA, 27/9/2015 –
Potrebbe essere definito "l’Attila dei topi", perché dove passa lui, non ne resta uno vivo. E così se Brugnaro chiama, Donadon risponde. Il sindaco di Venezia sta sondando il terreno per eliminare i topi dalla città e il più grande esperto mondiale, il trevigiano Massimo Donadon, titolare di Mayer Braun, si è detto disponibile a trovare una soluzione all’annoso problema che affligge la città. Non c’è ancora nulla di concretizzato, ma la trattativa è in piena fase di evoluzione. Sembra infatti molto probabile che l’accordo posso avviarsi sulla base di una cifra variabile che non dovrebbe scostarsi di molto dai 2-300mila euro. Cifra che permetterebbe una drastica diminuzione della popolazione di ratti che persiste in laguna. Donadon è famoso in tutto il mondo, ha conosciuto capi di stato e si è occupato di metropoli come New York, di Stati come il Cile e di m5anifestazioni sportive come le ultime Olimpiadi di Pechino...

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DONADON Massimo • San Paolo (Brasile). Imprenditore (Mayer Braun Deutschland). Un’autorità mondiale nella disinfestazione dai ratti.
• «Non ha mai sottovalutato la loro intelligenza, né il loro istinto. Li conosce come pochi altri al mondo: abitudini residenziali, riproduttive, di comportano in attacco e in difesa. Possiede, arma vincente, il segreto del loro punto debole: la gola. E allora li stuzzica, li attira, imbandisce per loro banchetti irresistibili: basta un boccone, e li lascia stecchiti. Peggio: mummificati, a milioni e milioni in tutto il mondo (...) Non si offende quando gli amici lo chiamano “Sorzòn” (...) più che un soprannome è un complimento per un imprenditore che ha fatto della derattizzazione un impero. La sua azienda, con sede a Carbonera a pochi chilometri da Treviso, si chiama Mayer Braun Deutschland, è leader mondiale nel settore e le radici, a dispetto del nome, sono venete che più venete non si può. L’andare in giro per il mondo a disinfestare è nel suo destino: già nel 1963 viaggia con due amici, per ripulire stalle e macellerie dalle mosche. I tre alloggiano in sgarruppate pensioni e proprio in una di queste, una sera, Donadon sperimenta il suo primo boccone ammazzatopi: il laboratorio è il lavandino del bagno. Racconta che le fortune della sua azienda –17 mila punti vendita nel mondo, 30 stazioni di ricerca, un giro d’affari di 27 milioni di euro nel 2005 con una crescita del 28 per cento sull’anno precedente – è frutto della continua ricerca. I topi per lui non sono fastidiosi animali dei quali disfarsi (perlomeno, non solo): sono soggetti da studiare, da comprendere, da sterminare usando le armi che la loro stessa intelligenza mette a disposizione dell’uomo. Negli anni Settanta, mentre si pensa ancora al vecchio trucco della crosta di formaggio, Donadon scompagina il settore mettendo sul piatto menu imprevedibili. I topi, basta guardarli, del pane e formaggio se ne fanno un baffo. Hanno da tempo lasciato la campagna, si sono stabiliti tra le città e le zone industriali, vanno a pranzo nelle discariche e nelle fabbriche che hanno invaso il loro antico habitat. Rosicchiano cavi elettrici, per esempio: per questo nelle prime esche di Donadon al posto del parmigiano si grattugia la plastica. E loro ci cascano. I risultati arrivano: dopo aver ripulito mezzo Veneto e buona parte d’Italia, Donadon comincia a ricevere importanti chiamate dall’estero. Il punto di svolta arriva nel 1997, con la gara d’appalto per la derattizzazione di New York. Dieci le aziende in corsa per una sfida monumentale; in quegli anni si calcola che Manhattan abbia almeno dieci per ogni abitante. Mentre i concorrenti mettono a punto pozioni chimiche, Donadon va a spasso per la città con i suoi collaboratori. Guarda i passanti, sbircia nei fast food, annusa l’aria. Sente un odore diverso da quelli di casa nostra, più grasso. Si informa sulla cucina locale. Nasce l’esca su misura per i topi newyorkesi: 45 chili di margarina ogni quintale di prodotto, e una buona dose di materia prima scartata da fast food. Praticamente, quello che ogni topo metropolitano trova nei bidoni della spazzatura delle città. Alla prova è un trionfo: i suoi bocconi uccidono dieci volte più degli altri. L’appalto è vinto, ed è l’inizio di una irresistibile ascesa. Dopo New York ripulisce Boston, Tokyo, mezza Germania (con zollette ad alto tasso di grasso di maiale), Dubai (cucina fusion), Parigi (molto burro), e Amsterdam quando l’avvio dei lavori per la metropolitana sfratta topi e ratti di fogna mettendo la città di fronte a una delle più gravi emergenze dell’ultimo decennio. Anche in questo caso, nulla di improvvisato: il veleno viene nascosto tra aromi di salmone e formaggio, dieta base del topo locale. La gamma di prodotti offerti da “Sorzòn” e dai suoi tecnici è infinita; gli animali sono divisi in topi di città e topi di campagna, e vi sono molte sottospecie, perché non si può dar da mangiare la stessa esca a chi vive in discarica o in fogna, in magazzino o in ristorante, in casa o in fienile. Il delitto è perfetto fino all’ultimo: il boccone truccato da sapore quotidiano richiama il topo senza lasciargli il tempo di fiutare il pericolo e trasmettere il messaggio; inoltre, ingoiata la zolletta l’animale non si decompone ma si disidrata e di lui resta solo la pelliccia: ai compagni non arriva così alcun allarme» (Anna Sandri) [Sta 31/7/2006].
• «Aroma alla Nutella. Un pizzico di girasole gigante e una parte di pasta fresca. “L’esca perfetta è così servita”. Almeno per i topi. “Anzi, per quelli di Milano aggiungerei anche il panettone”. Perché i roditori acquisiscono i gusti del loro territorio. (...) I ratti li conosce molto bene. Da anni li combatte sul campo, ne studia i movimenti e le abitudini, soprattutto quelle alimentari. (...) La sua è una missione. “I topi portano malattie. E anche gravi. È importante combatterli”. Cerca di sconfiggerli prendendoli per la gola. Per ogni ratto c’è una ricetta. Dal deserto alla città. Un topo di Parigi non mangerà mai gli scarti amati dagli spagnoli. E viceversa. Così per quelli tedeschi prepara bocconcini con il 40 per cento di carne di maiale. A quelli cileni, invece, serve farina di pesce. E per gli americani i resti di fast food sono d’obbligo. Poi la “pietanza” viene mischiata con il veleno. “Le nostre sostanze non uccidono i roditori nell’immediato, ma nel giro di quattro giorni. Così non si accorgono del pericolo e non danno l’allarme ai loro simili che continuano a mangiare”. Il tutto è preparato nella sua azienda: la Mayer Braun Deutschland (“un nome tedesco è più credibile”), in provincia di Treviso. Fondata oltre 30 anni fa, può contare su 75 dipendenti, 17 mila punti vendita in diversi Paesi e oltre 20 milioni di euro di fatturato. E una fama globale. Già perché le chiamate arrivano proprio da tutto il mondo» (Benedetta Argentieri) [Cds 27/8/2010].
• «Quando era bambino Massimo Donadon ha fatto una promessa alla nonna in punto di morte, giurando che avrebbe dato un contributo all’umanità. Per la verità da ragazzo il pifferaio magico trevigiano puntava a trovare una cura per il cancro. Aveva in mente di iscriversi a Medicina, ma si è iscritto a Veterinaria e, anche se ha interrotto gli studi, è rimasto nel settore. Ha cominciato occupandosi di Ddt e ha finito per escogitare il modo di tener fede a quella promessa. (…) È il 1963 quando nasce la Max Don Brasilera, che nel 1970 diventerà Mayer Braun Deutschland. Il lavoro consiste nel disinfestare stalle e macellerie dalle mosche (…)» (Alice Andreoli) [Renna aggredisce Babbo Natale e altre storie di uomini e animali, Sironi editore, 2007].

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REMO GUERRINI, FOCUS GENNAIO 2008 –
Topo buono. Focus gennaio 2008. Cosa accadrebbe se Remy, il topo gourmet del film Ratatouille (in Italia, 2,8 milioni di spettatori, nel primo mese), incontrasse Massimo Donadon, industriale di Treviso, soprannominato "el sorzor”, il sorcione?
Sarebbe uno scontro fra chef:
Donadon è infatti il più grande ratbuster del mondo, un cacciatore di topi che ha derattizzato New York e Tokyo, Amsterdam e Santiago del Cile, Dubai e Parigi, vincendo la concorrenza delle più grandi aziende del pianeta. Armi segrete? Una sola, la perfetta conoscenza dei gusti dei topi: perché non basta mettere le trappole, ma bisogna anche convincere i topi a entrarci. Come? "Prendendoli per la gola. Le nostre esche non sono mai le stesse perché, in ogni città, i topi mangiano cose diverse, che poi sono gli avanzi degli uomini", spiega Donadon. "Di fronte alle esche generiche il topo resta indifferente".

Pane e vaniglia
Così i suoi operatori vanno a frugare fra i rifiuti, dove finisce dal 3 al 5% dei cibi, e ne scoprono gli ingredienti più diffusi. Poi osservano che cosa mangia la gente, e che cosa finisce nelle fogne. Alla fine preparano un’esca alla quale il topo non sa dire di no. I gusti di base? Margarina a New York, burro a Londra, pesce in Cile, grasso di maiale in Germania, salmone e formaggio ad Amsterdam.... E a Treviso, pane tostato e vaniglia. E’ così che l’azienda di Donadon fattura oltre 25 milioni di euro l’anno.
E così, Remy ed "el sorzon" rappresentano bene il rapporto ambivalente fra uomini e topi.

1) Il topo che piace
Il ratto - e non topo - Remy di Ratatuille è l’ultimo di una lunghissima serie creata da artisti di successo. "Questo animale si presta a ogni ruolo, a differenza di altri" sostiene Bruno Bozzetto, animatore, autore di fumetti e regista. "Buono, amabile, ma anche cattivo e minaccioso. I roditori sono grandi attori, l’importante è però che siano in miniatura. Il topino richiama sentimenti protettivi e, almeno nel disegno, appare carino e simpatico". Tanto più che viene spesso contrapposto al gatto, grosso e predatore.

2) Il topo repellente
Uomini e topi hanno cominciato a frequentarsi circa 10 mila anni fa, quando comparvero i primi granai per stivare le sementi (il più antico della storia risale al 9500 a. C., nella valle del Giordano). Eppure, a quell’epoca, alla figura del ratto non erano assegnati connotati particolarmente negativi, tanto che nella Bibbia - dove il cane invece è nominato una quarantina di volte, quasi sempre con disprezzo - il topo non è citato una sola volta. Per Buddha (V secolo a. C.) il topo era il "primo animale" e nel bacino del Mediterraneo Apollo Sminteo ne era il patrono, e nei suoi templi i topi erano venerati come intermediari fra uomini e dèi. Anche nel Medioevo non ci fu una particolare demonizzazione di ratti e topi. E’ vero infatti che il Rattus rattus (cioè il ratto nero) fu il principale vettore della peste che sconvolse l’Europa a partire dal 1340, a causa della pulce Xenopsylla cheopis che si portava appresso, ma è anche vero che a quel tempo nessuno lo sapeva, e le pestilenze erano attribuite a un castigo celeste. I topi, semmai, erano solo un fastidio a causa dei danni provocati alle colture e alle derrate alimentari: nasce cosi, per esempio, la leggenda del pifferaio di Hamelin (alla fine del ’200) chiamato a liberare la città tedesca invasa dai ratti. D’altra parte la radice dei nomi è chiara: il latino rattus deriva da raptus (furto), e mouse da muisen, parola d’origine balcanica che sta per "rubare". In realtà la demonizzazione e la repulsione nei confronti di questi animali sembra avere origine con la creazione, alla fine del ’700, dei primi sistemi fognari, dove i ratti trovarono rifugio, nutrimento e modo di moltiplicarsi a dismisura. Un topo di fogna può portare fino a 30 malattie trasmissibili all’uomo, pur restando sano.
3) Il topo che ci somiglia.
Quando, nel 2004, è stato sequenziato per la prima volta il Dna del topo (in particolare il Rattus norvegicus) ci si è accorti che esso condivideva con l’uomo circa il 99% del patrimonio genetico. Solo le scimmie ci sono più simili. "E in effetti è l’animale da laboratorio che più ci somiglia" spiega il genetista e biologo molecolare Edoardo Boncinelli. ”E’ un maminifero come noi, si sviluppa nell’utero materno, viene allattato, e ha una corteccia cerebrale come la nostra, anche se molto più piccola". Un piccolo uomo, insomma. Come sembra dimostrare una serie di scoperte recenti.

I topi cantano...
Lo hanno dimostrato due studiosi della Washington University School of Medicine, nel Missouri, che hanno analizzato i suoni a 30 kHz - non percepibili dall’uomo - emessi da topi maschi mentre annusavano batuffoli di cotone intrisi di urina delle femmine. Stimolati dai feromoni contenuti nelle urine, i topi maschi iniziavano a "cantare", e i ricercatori ne hanno registrato i suoni, passandoli poi al computer renderli udibili. Ebbene, è risultato che si trattava di vere e proprie serenate, con toni ripetuti e modulati, particolari per ogni animale. Ognuno, cioè, aveva una propria canzone, diversa dalle altre.

... Ridono...
E’ il risultato di una ricerca alla Bowling Green State University, nell’Ohio: se si fa il solletico ai topi mentre giocano, emettono vere e proprie risate, a frequenze non percepibili dall’orecchio umano, mentre fino a oggi si reputava che questi rumori indicassero solo stress o aggressività. In più, i topi giovani "ridono" molto di più di quelli anziani. Fino a oggi gli etologi pensavano che solo l’uomo e alcuni primati avessero questa capacità.

... Sono solidali...
E’ quanto è emerso da un test all’Università di Berna, in Svizzera, dove coppie di topi (in gabbiette affiancate) sono state poste di fronte a una vaschetta che, in seguito a una pressione del muso, si riempiva di cibo. I topi imparavano presto che anche la vaschetta del vicino - oltre che la propria - si sarebbe riempita in seguito alla loro pressione, e quando il topo accanto a loro era presente raddoppiavano la pressione stessa, per fornire anche a lui il cibo. In sua assenza, invece, nessuna doppia pressione.
"Non era un riflesso condizionato, indotto: tutti i topi agivano spontaneamente" ha spiegato Claudia Rutte, ecologa all’Università di Berna.
Non solo. In esperimenti successivi si è verificato che ogni topo estraneo al test, se "beneficato" dalla solidarietà del vicino, imparava subito a restituire il favore ai topi che venivano dopo.

.. Conoscono le lingue!
Lo ha dimostrato un gruppo di neuroscienziati del Parc Cientific di Barcellona che hanno studiato il comportamento di 16 topi, addestrati a premere un pulsante quando udivano una frase registrata - in varie lingue - che li spingeva a farlo. Ebbene, gli animali che erano stati "istruiti" in olandese non reagivano alla voce giapponese e viceversa. L’animale, inoltre, riconosceva la propria lingua d’elezione anche se la frase non era più quella originale, ed era stata sostituita con una diversa. "Alla base di questo riconoscimento ci sono il ritmo e l’intonazione della voce" dice Juan Toro, uno dei ricercatori. "A tutt’oggi, a distinguere una lingua da un’altra, a parte gli uomini, erano solo le scimmie tamarin".

4) Il topo che ci serve
L’ultimo arrivato è il supertopo creato dai genetisti della Case Western Reserve University di Cleveland, nell’Ohio. Riesce a correre per 5 ore di seguito, percorrendo anche 6 km, vive più a lungo, ha una intensa attività sessuale anche a tarda età, è aggressivo, mangia il 60% in più rispetto a un topo normale, ma non ingrassa. Tutto merito di un gene, il Pepck-C, che nell’animale è stato potenziato e attiva nel tessuto muscolare la produzione di una maggiore quantità di enzimi collegati alla sintesi del glucosio. Il supertopo era stato progettato, infatti, proprio per sviluppare farmaci che migliorassero le prestazioni di chi soffre di malattie muscolari invalidanti, ma le sue caratteristiche hanno stupito anche coloro che, 4 anni fa, lo avevano "progettato".

Mouse da Nobel
In realtà intorno a topi e ratti ruota la maggior parte della ricerca biomedica, quella che cerca di comprendere le basi molecolari delle malattie. Tanto è vero che il topo di laboratorio è stato - nel 1982 - il primo animale a diventare transgenico, cioè dotato di un Dna artificialmente mutato. Oggi i topi mutanti vengono "costruiti" in diverso modo: si va dai knock out (nel cui Dna viene cioè inattivato un singolo gene) a topi nel cui genoma è invece inserito un gene estraneo. In questo modo si ottengono modelli murini (da mus, topo in latino) di malattie umane, per poterle studiare meglio.
Oggi abbiamo topi con la sindrome di Down e con la sclerosi multipla, topi erculei, con un’enorme massa ossea (per studi sull’osteoporosi) e topi Matusalemme, che vivono il 20% in più rispetto a un topo normale, topi col Parkinson e altri con l’Alzheimer. All’Università di Nizza è stato creato un "topo felice", spegnendone il gene Trek-1, coinvolto nei meccanismi della depressione (regola la trasmissione della serotonina fra neuroni). Ed è proprio l’invenzione di una tecnica per modificare geneticamente i topi con l’uso delle cellule staminali embrionali ad aver fruttato a Mario Capecchi, quest’anno, il Nobel per la medicina.
Remo Guerrini

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LORENZO DE CICCO, IL MESSAGGERO 4/3/2016 –
I GABBIANI A ROMA, SEMPRE PIÙ AGGRESSIVI E PERICOLOSI –
Il gatto mangia il topo, cantava Bennato. Ma forse la canzone andrebbe aggiornata. Perché ormai a fare il lavoro sporco, ci pensano i gabbiani. Che sempre più spesso vanno a caccia di roditori nelle strade del centro, come è capitato pochi giorni fa in via del Banco di Santo Spirito, a due passi da Castel Sant’Angelo, tra i flash di pellegrini e passanti. Si tratta di animali che negli ultimi anni hanno sviluppato comportamenti violenti verso l’uomo. «Sono animali intelligenti, riescono a fare collegamenti causa-effetto – spiega Fulvio Fraticelli, direttore scientifico del Bioparco – E così, dopo essersi visti offrire ogni tanto briciole o patatine, si sono abituati a interpretare l’uomo come fonte di cibo. E a volte se lo prendono da soli. Ci sono molti casi di scippi, con i gabbiani che portano via panini o tramezzini». E questo, spiega il direttore scientifico del Bioparco, può creare dei rischi. «Perché sono animali molto forti, con un becco molto potente e unghie molto appuntite. Il contatto può creare problemi».
I NUMERI
Il numero dei gabbiani presenti a Roma è aumentato in modo esponenziale negli ultimi anni. Gli ultimi dati del Dipartimento Ambiente del Comune di Roma parlano di oltre 40mila esemplari. «I primi – spiega il presidente del Bioparco, Federico Coccìa -sono arrivati nella Capitale negli anni ’70. Si dice che la prima coppia nidificò proprio qui, al giardino zoologico. Per decenni sono stati pochissimi. Poi, a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, c’è stato un vero e proprio boom dal punto di vista riproduttivo e la colonia di questa specie si è ampliata in modo impressionante».
I laridi preferiscono “abitare” in centro storico, perché sui tetti dei palazzi più antichi trovano il contesto più idoneo per nidificare. Ma anche alcune zone periferiche, ben distanti dal mare, nel corso degli anni si sono abituate alla presenza dei gabbiani. Per trovarli, basta seguire i rifiuti. «Il gabbiano è un onnivoro opportunista, mangia qualsiasi cosa – spiega ancora Fraticelli – Per ridurre la presenza di questi uccelli bisogna soprattutto ridimensionare la disponibilità di cibo, quindi essenzialmente di rifiuti». Lo stesso Dipartimento Tutela Ambiente del Comune, pochi giorni fa, ha lanciato un avviso: «Non bisogna lasciare i rifiuti all’esterno degli appositi contenitori perché costituirebbero una fonte inesauribile di cibo per i gabbiani e non solo». Mettendo anche in allerta da possibili «attacchi». Ma ci sono rischi anche dal punto di vista sanitario. Perché i gabbiani, indirettamente, possono trasmettere malattie. «Salmonelle, clamidie – sottolineano dal Bioparco – anche se non esistono dati certi sulla trasmissione diretta, i rischi principali arrivano dalla contaminazione dei cibi, che in molti casi riguarda anche i piccioni».

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LORENZO DE CICCO, IL MESSAGGERO 4/3/2016 –
TRONCA VA ALLA GUERRA CONTRO I TOPI –
Per dare una spiegazione alle scorribande dei roditori, sempre più numerosi, nel cuore della Capitale, che l’altro ieri sono sbucati nelle biglietterie del Colosseo e del Palatino, che fanno capolino a piazza di Spagna, il “salotto di Roma”, o a piazza Navona, forse si può ripartire dal topo di Orazio, che nella famosa satira preferiva la campagna per colpa delle insidia e trovate nella vita di città. Strano a dirsi, ma uno dei fattori dell’aumento dei roditori è proprio questo, spiega Enrico Alleva, etologo dell’Accademia dei Lincei: le insidie, oggi, mancano. «Si sono ridotti i predatori dei topi – spiega –. Se in città ci fossero più rapaci, barbagianni o allocchi, ci sarebbero molti meno roditori. Invece questi uccelli non trovano più con facilità gli alberi in cui nidificare». E, diminuendo, lasciano campo libero all’esercito dei muridi.
E così intorno ai monumenti, oltre ai turisti, c’è il rischio che ora si mettano in coda pure i ratti. Il soprintendente ai Beni archeologici di Roma, Francesco Prosperetti, l’altro ieri ha dovuto ammettere: «È un grosso problema, difficile da fronteggiare». Poche ore prima, era stato ritrovato un topo morto allo sportello della biglietteria che si trova di fronte al Colosseo, dove i turisti fanno il ticket d’ingresso per visitare il Palatino, Foro Romano e Palazzo Massimo. «L’operatore che era in servizio si è visto colare il sangue sulla scrivania», ha spiegato il soprintendente.
I NUMERI
Ma la causa principale dell’aumento dei roditori nel cuore della Città eterna va ricercata soprattutto nei sacchi di immondizia che tracimano dai cassonetti, sempre di meno (negli ultimi tre anni sono passati da 100mila a poco più di 60mila) perché nel frattempo la municipalizzata capitolina dei rifiuti, l’Ama, ha portato la raccolta differenziata oltre in oltre il 40% delle strade. Peccato però che in tanti riescano comunque a bypassare le nuove regole del porta a porta, andando a scaricare i sacchetti della spazzatura nel bidone più vicino. E così i roditori ritrovano il loro habitat naturale. Altro che insidie. Spiega ancora Alleva: «I topi regolano la loro popolazione sui livelli alimentari. Più cibo trovano, più aumentano. Poi ci sono dei cicli, ogni 8-10 anni, in cui il loro numero sale o si abbassa in modo più marcato. Potremmo essere in una di queste fasi». Il resto lo fanno i fattori climatici. Ecco perché, secondo l’etologo, è possibile ipotizzare che «l’inverno tiepido in corso, abbia “salvato” molte nidiate e ridotto fortemente il numero dei morti».
Una cosa è certa: le segnalazioni arrivate alla partecipata comunale per l’ambiente sono aumentate in modo esponenziale. Qualche numero: in tutto il 2015 gli interventi sono stati 1.700. Solo nei primi due mesi del 2016, le operazioni dell’Ama sono già 986. I luoghi più colpiti sono tutti nel centro storico: da Borgo a via del Corso, passando per Trastevere, Campo de’ Fiori e perfino l’area di Castel Sant’Angelo, percorsa ogni giorno da migliaia di pellegrini per il Giubileo.
Anche la Asl è in campo. «Le segnalazioni sono raddoppiate, l’aumento è soprattutto in centro storico e in Prati», dice Enrico Di Rosa, responsabile per la Asl Roma 1 del Sisp (Servizio Igiene e sanità pubblica). «Non siamo in una situazione di emergenza sanitaria – sottolinea – non si tratta di grandi numeri, però va detto che a noi si rivolgono solo per i casi più critici, soprattutto le scuole. Una cosa è certa: è innegabile che il fenomeno sia in crescita. Anche per questo abbiamo deciso di potenziare i nostri interventi. Perché è fondamentale la prevenzione, soprattutto nelle situazioni a rischio». Anche perché la presenza dei roditori può portare con sé conseguenza dal punto di vista medico. Le patologie che possono trasmettere i topi, spiega Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, «sono la leptospirosi, che si trasmette attraverso le acque e le urine dei roditori, e la salmonellosi perché questi animali, essendo sporchi, potrebbero riuscire a contaminare cibo e dispense. Per controllare questi fenomeni è fondamentale rispettare le norme igieniche».
LE MISURE
Ieri dal Campidoglio è arrivata una risposta: il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca ha varato un piano da 1 milione e 250 mila euro per triplicare gli interventi di derattizzazione. Nelle stime di Ama, questo programma potrebbe arrivare alla realizzazione «di circa 6mila-7mila interventi, capaci di coprire tra l’8 e il 10% delle strade». Nel frattempo i commercianti si organizzano con interventi fai-da-te. È il caso di via Natale del Grande, pochi metri da piazza San Cosimato, cuore della movida trasteverina, dove i topi continuano a spuntare dalle caditoie. E i negozianti sono costretti a spendere, ogni anno, oltre 5mila euro per proteggere i locali da questi poco desiderabili avventori. Nell’attesa di un happy ending, con una fuga di massa dei roditori dalla città, stile Orazio, o almeno di una derattizzazione seria da parte del Comune.

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FEDERICO PISTONE, CORRIERE DELLA SERA 4/3/2016 – 
DEHNOKE, LÀ DOVE I TOPI SONO DIVINITÀ DA VENERARE –
Migliaia di topi che ti zampettano sui piedi nudi: per gli occidentali un incubo da manuale di psicanalisi, per gli indiani un incanto e un privilegio mistico. Benvenuti al tempio di Karni Mata. Siamo nel villaggio di Dehnoke, estremo ovest del Rajastan, la regione più visitata dell’India grazie a gioielli come Jodphur la Città blu, Udaipur la Bianca, il Palazzo dei Venti di Jaipur la Rossa, lo scenografico deserto del Thar con la fiera dei cammelli di Pushkar e il tempio di Brahma, le fiabesche fortezze e i sontuosi palazzi dei mercanti (haveli) di Jaisalmer e Bikaner. Non lontano da queste meraviglie senza tempo sorge Karni Mata, il Tempio dei topi, escluso dagli itinerari turistici: un’esperienza forte, troppo forte, insopportabile. Anzi, consigliata.
La forza dell’India è proprio quella di trascinarti in una realtà inconcepibile e renderla naturale, quasi familiare. Ci vogliono trentatré milioni di divinità induiste per ricreare un equilibrio altrimenti impossibile, dare un senso e una spiritualità al Paese più carnale, sovrappopolato e contraddittorio del mondo. Ma anche quello più «animalista», perché ogni essere vivente ha una sua sacralità, un suo percorso e un suo kharma da rispettare: vacche, elefanti, scimmie, uomini, moscerini e topi, appunto, compresi.
Così per capire Karni Mata diventa d’obbligo fare prima due tappe: una al tempio quattrocentesco di Adinatha a Ranakpur, venti chilometri a sud, sontuosa culla del giainismo, l’antica religione della nonviolenza e del rispetto ecumenico, l’altra, poco più a nord, al maestoso tempio di Bhandasar di Bikaner dove affreschi cinquecenteschi raccontano le pene che spettano a chi maltratta gli animali, il più indegno dei 18 peccati capitali. Chi carica troppo un asino, per esempio, finisce appeso a un albero a testa in giù. Liberato lo spirito e accolta questa beatitudine universale, eccoci finalmente al Tempio dei topi, in raffinato stile moghul indo-islamico, segnato dal marmo bianco e dall’arenaria rossa.
L’elegante ingresso è chiuso in alto da un soffitto di fitte reti, per impedire che gli uccelli possano piombare sui topi e farne strage. Ai visitatori, che devono abbandonare le scarpe fuori – agli stranieri è concesso di tenere le calze, ma arrivati fin qui val la pena spogliarsi di ogni timore e calzatura -, vengono vendute a poche rupie zollette di zucchero, latte e impiastri dolci per nutrire i ventimila topi che presidiano il tempio. È proprio l’alto indice glicemico dell’alimentazione a garantire un controllo demografico – ventimila è il numero “giusto” – ed evitare un sovraffollamento eccessivo. Dentro, la paura si trasforma in serenità. Non ci sono spazi vuoti, i topi hanno preso tutto e si danno il cambio intorno alle ciotole del latte, nelle nicchie degli altari, lungo i muri, sui piedi e le gambe dei fedeli. Pellegrini di ogni età e casta passeggiano, anche per giorni interi, e si accomodano sui gradoni osservando il brulicare ossessivo dei piccoli roditori sorridendo beati quando uno di loro decide di sceglierli per una sosta o un passaggio veloce.In un pertugio del palazzo, le donne si accalcano per venerare Karni Mata al suono di campane e tamburi mentre i topi attraversano i loro sari rosso fuoco.
Il tempio è stato costruito a fine Novecento dal maraja Ganga Singh e dedicato a Karni Mata, vissuta fino a 151 anni attraversando due secoli (XIV e XVI), venerata come incarnazione della dea Durga. A questo punto si può scegliere, come le storie a bivi di Topolino, tanto per stare in tema. Le leggende diventano intriganti e incontrollabili. Ventimila soldati abbandonarono una battaglia e fuggirono al villaggio di Denhoke dove Karni Mata li accolse e ottenne di commutare la pena di morte prevista per i disertori nella loro trasformazione in topi. Se preferite: il figliastro di Karni Mata annegò in un lago e lei supplicò Yama dio della morte di resuscitarlo, ottenendone però la trasformazione in topo, non solo di lui ma di tutti i figli maschi che avrebbe avuto la donna. Variante: il figlio del cantastorie di Karni Mata annegò e, al rifiuto di Yama di ridargli la vita in quanto già reincarnato una volta, decise che tutti i menestrelli si trasformassero in ratti per negare al dio della morte le loro canzoni. In questo fiume di topi grigi e marroni in continuo movimento, si nascondono anche alcuni esemplari albini, considerati vere e proprie divinità: riuscire a scorgerne uno è segno di fortuna. Se poi ti sale su un piede è il bacio di Karni Mata.