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 2016  marzo 03 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, 2016, 246 pagine, 18 euro

Notizie tratte da: Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, 2016, 246 pagine, 18 euro.

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«Chiunque competa con gli schiavi, diventa uno schiavo» (Kurt Vonnegut).

Alla stazione Termini di Roma ci sono sedici sportelli per fare i biglietti e centoquattro macchinette self-service. Una macchinetta emette in media 500 biglietti al giorno e può costare, manutenzione inclusa, qualche decina di migliaia di euro in tutto. Un bigliettaio umano, in un turno, emette circa 200 biglietti e costa almeno il doppio ogni anno.

«Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore» (Jaron Lanier, uno dei padri della realtà virtuale).

Il Turco, automa commissionato nel 1770 dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria a un inventore ungherese per impressionare i suoi ospiti. Si trattava di un grosso manichino, con un turbante e un abito di broccato piuttosto largo, apparentemente in grado di giocare a scacchi. In realtà nascondeva al suo interno un maestro in carne e ossa.

And you’re done, e fai in un attimo (il primo slogan di Amazon).

Fatturato di Amazon nel 2014: 75 miliardi di dollari.
Fatturato di Amazon per la vendita dei libri: 5,25 miliardi di dollari.

Vent’anni fa negli Stati Uniti le librerie indipendenti erano circa 4.000, ora sono la metà.

Quattordici: il numero di dipendenti che Amazon impiega per ogni 10 milioni di dollari generati. Prima, per i negozi tradizionali, erano 47.

Tra i trentamila dipendenti di Amazon nemmeno uno è iscritto al sindacato.

Quattro anni fa, Amazon ha acquisito per 678 milioni di dollari Kiva Systems, società specializzata nella realizzazione di robot logistici della forma e dimensioni di un grosso pneumatico, sdraiato in parallelo al terreno, che riesce a spostare interi scaffali, per portarli più vicini al magazziniere che a quel punto non ha che da estrarre il prodotto e impacchettarlo. Oggi, oltre ai 50 mila magazzinieri negli Stati Uniti, Amazon impiega circa 15 mila di questi robot. Ovvero, un quarto della sua forza lavoro logistica è non umana.

Jeff Bezos, il capo di Amazon, ha promesso che entro i prossimi cinque anni la consegna a casa sarà fatta attraverso droni.

La Google Car, l’auto che si guida da sola, ha iniziato ufficialmente le prove su strada negli Stati Uniti nel settembre 2014 (in realtà in alcuni stati già tre anni prima).

Secondo Google le loro self-driving car finora hanno avuto solo undici lievi incidenti. La Bbc ne ha contati 48, compresi quelli di Delphi, un’altra azienda che sta testando auto simili.

Ogni anno, nei soli Stati Uniti, muoiono in incidenti d’auto oltre trentamila persone (come dieci 11 settembre). È la prima causa di mortalità nella fascia tra 4 e 34 anni.

Nel mondo le vittime di incidenti stradali sono un milione e duecentomila. È l’ottava causa di morte e, con cinesi e indiani che stanno prendendo in massa la patente, diventerà presto la quarta.

«Oltre nove su dieci l’incidente stradale è causato da un errore del guidatore. Le cause principali sono alcol, eccesso di velocità o distrazione al telefono. Con le Google Car possiamo fare una grande differenza eliminando il 90 per cento degli incidenti» (Chris Urmson, responsabile del progetto Google car).

«La verità è che, se si rivelerà un modo più sicuro di guidare, sarà una buona cosa per la società e una cattiva per il nostro business.
D’altronde qualsiasi cosa che tagli del 30, 40 o 50 per cento gli incidenti sarebbe meraviglioso, ma noi saremmo gli ultimi a far festa nei nostri uffici» (Warren Buffett, azionista di maggioranza tra l’altro della compagnia d’assicurazione Fast Company).

In ventinove Stati americani il lavoro più comune è il truck driver, l’autista di camion.

Secondo i calcoli di Morgan Stanley, la guida pienamente autonoma sarà raggiunta nel 2022, l’ingresso sul mercato avverrà entro il 2026 e le auto che conosciamo oggi saranno quasi estinte nel ventennio successivo.

Apple sta lavorando alla sua self-driving car. Nome in codice Triton.

Il drone-edilizio della giapponese Komatsu in grado di fare rilievi dei terreni dove posare le fondamenta di un palazzo. Il drone-biologo della PrecisionHawk che prende campioni d’acqua nei fiumi e li analizza in cerca di agenti patogeni. Il drone-umanitario della Matternet che consegna vaccini nei più remoti villaggi africani. Lo SkySeer drone-poliziotto che a Los Angeles aiuta gli agenti a rintracciare i dispersi.

Il caso del drone-spacciatore che si è schiantato nel parcheggio di un supermercato a San Ysidro, a pochi chilometri dal confine messicano, con il suo carico di tre chili di metanfetamina destinati al mercato americano.

Oggi negli Stati Uniti i privati possono far volare piccoli droni solo sotto i 120 metri d’altitudine, a distanza di 8 chilometri dagli aeroporti e sempre a vista dell’operatore. Se uno volesse invece usarli a fini commerciali, per fare foto, ricognizioni o altro, non potrebbe procedere se non dietro specifica, complessa e temporanea autorizzazione dell’autorità federale per l’aviazione (Faa).

Sotto George W. Bush i droni militari americani avevano colpito 49 volte (2004-2008), con Obama 409 volte solo in Pakistan (2009-2014).

Fanuc, azienda giapponese, prima produttrice al mondo di robot industriali. La sede principale a Oshino, un centinaio di chilometri da Tokyo, è completamente gialla. Gialli sono i pulmini che trasportano i dipendenti all’interno del campus. Gialle le divise degli impiegati, gli asciugamani nei bagni e calendari alle pareti. «Forse abbiamo esagerato» ha confessato il presidente Yoshiharu Inaba in una delle sue rarissime intervista al Financial Times.

Una delle caratteristiche della Fanuc è la segretezza. Il presidente Yoshiharu Inaba lo spiega così: «Rilasciare informazioni su che tipi di prodotti sono venduti in quali mercati e quanto profittevoli siano è un po’ come lasciare che i tuoi nemici sappiano quanti carri armati, caccia o truppe siano dispiegate in quale teatro».

Nel 2014 sono stati venduti 225 mila robot industriali, ovvero il 27 per cento in più rispetto all’anno prima. Nel ’95, l’anno di nascita della New Economy, con la quotazione di Netscape, la nascita di Amazon e la pubblicazione di Essere digitali, il libro-manifesto di Nicholas Negroponte, il loro mercato mondiale era di circa 70 mila unità, meno di un terzo di adesso.

Uno dei 22 impianti della Fanuc è grande ottomila metri quadrati e impiega in tutto quattro dipendenti.

Dal 2001 a oggi il salario medio dell’operaio cinese è cresciuto del 12 per cento l’anno.

Un quarto di tutti i robot industriali venduti nel mondo nel 2014 sono finiti nelle fabbriche cinesi.

Nel giugno 2011 il presidente Terry Gou della taiwanese Foxconn – quella che costruisce iPhone, iPad e il grosso dell’elettronica di consumo mondiale – aveva annunciato l’intenzione di rimpiazzare il grosso dei suoi dipendenti con un milione di nuovi robot da comprare a partire dal 2014. Il progetto sta procedendo molto più a rilento del previsto, ma la direzione è stata tracciata.

Alla fine di marzo il governo della provincia di Guangdong –l’epicentro della manifattura cinese, e quindi del mondo – ha reso pubblico un programma di finanziamenti per 152 miliardi di dollari lungo tre anni per comprare robot da introdurre in circa duemila fabbriche della zona con l’obiettivo di arrivare entro il 2020 al traguardo di otto fabbriche su dieci pienamente automatizzate.

«I robot producono oggetti per gli esseri umani. Sta agli umani decidere se ciò che i robot hanno creato è buono o cattivo» (Yoshiharu Inaba, presidente della Fanuc).

Giornalisti attivi in Italia: 47.727 (dati Istat 2013).

«Entro il 2027 il 90 per cento delle notizie le scriverà un algoritmo» (Kris Hammond, capo della squadra di programmatori che ha creato StatsMonkey, software in grado di realizzare da solo articoli sportivi).

Diciassette marzo 2014, a Los Angeles la terra trema. Ken Schwencke, cronista e programmatore del Los Angeles Times viene svegliato di soprassalto dalle scosse. Si precipita al computer e ci trova un testo già scritto così: «Un terremoto di magnitudine 4,7 è stato registrato lunedì mattina a cinque miglia da Westwood, California, dallo U.S. Geological Survey. La scossa è avvenuta alle 6:25 di mattina, ora del Pacifico, a una profondità di 5 miglia, ecc.». Il testo è stato scritto da Quakebot, il programmino di sua concezione capace di attivarsi oltre una certa soglia Richter, di estrarre in automatico i dati essenziali dai rapporti della Usgs e di assemblarli in una forma basilare pronta per andare online.

Schwencke ha sviluppato un’applicazione identica per gli omicidi, capace di dare le informazioni essenziali, ricavate direttamente dai dati della polizia, per le zone coperte dal Los Angeles Times.

Dal luglio 2014 l’agenzia di stampa americana Associated Press utilizza la piattaforma Wordsmith per scrivere in automatico notizie sull’andamento di borsa delle principali compagnie. Oggi può produrre sino a 2000 articoli al secondo. Prima Ap riusciva a seguire 300 aziende, ora ne copre dieci volte tanto.

«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare» (sermone del pastore Martin Niemöller sull’ignavia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa del nazismo, reso popolare da Brecht).

Quando, negli anni ’70, Malcolm McLean inventò i container calcolò che la loro razionalizzazione avrebbe ridotto il lavoro dei terminalisti di due terzi, decurtandone anche salario e potere. Fu effettivamente una svolta.

Oggi un maglione attraversa l’oceano per 2,5 centesimi di dollaro, una lattina di birra per un centesimo.

Ai pescatori scozzesi conviene spedire il salmone a sfilettare in Cina e farselo rimandare indietro, poco meno di quarantamila chilometri tra andata e ritorno, piuttosto che farlo lavorare da manodopera locale.

Nel ’75 servivano più di trenta persone di equipaggio per una nave e oggi in media una ventina (anche con 13 si arriva a destinazione). Questo perché i computer di bordo praticamente guidano da soli. Al posto del timone c’è un joystick e il comandante governa la nave realmente solo per una quota minuscola della navigazione.

Nessuno vuole più fare il marinaio. Quest’anno all’accademia navale danese si sono iscritti solo nove ragazzi.

Marinai britannici nel 1961: 142.000.
Marinai britannici oggi: 24.000.

Il tasso di occupazione nel mondo si è ristretto. Siamo passati in vent’anni dal 62,3 al 61,2 per cento. Dal 2007 al 2010 la disoccupazione giovanile in Spagna è passata dal 18 al 41 per cento, in Irlanda dal 9 al 28, in Italia dal 20 al 28. Nel 2015 da noi è arrivata a quota 41,5.

Un recente rapporto McKinsey distingue tra mestieri trasformativi, transazionali e interazionali. I primi, manifatturieri, sono stati i primi a traslocare in oriente, dove costavano dieci volte meno. I secondi, routinari come i call center o i servizi di sportello, vengono sempre più automatizzati, ma l’elemento umano ancora tiene. I terzi, ad alto valore aggiunto, sono gli unici a non temere la concorrenza delle macchine, almeno per ora.

Lo studio di Forrester Research – una società di ricerca che ha la stessa età del web – che prevede che entro il 2025 robot e software ruberanno agli umani circa 22 milioni posti di lavoro, ma ne creeranno contemporaneamente 13 milioni di nuovi.