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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

LA CADUTA DEL MURO DI TORINO

Cesare Romiti ha appena finito di sfogliare la mazzetta dei quotidiani. Il Foglio e il Fatto danno per imminente un accordo – la fusione tra la Repubblica di De Benedetti e La Stampa degli Agnelli/Elkann – che ha come corollario l’uscita della Fiat dal Corriere della Sera. «È una notizia che leggo sui giornali e mi rammarica», commenta Romiti. «Ma non voglio aggiungere altro perché direi soltanto cose spiacevoli». Il manager, nel 1976, si trovò a dividere le redini del potere in Fiat (erano entrambi ad, ma con deleghe di diverse) con Carlo De Benedetti. Si dice – ma l’interessato ha sempre smentito – che abbia avuto un ruolo nell’uscita dell’Ingegnere, che restò tre mesi a Corso Marconi, giusto in tempo per lanciare la Panda e proporre 25 mila esuberi. Che però l’Avvocato, il padrone, si rifiutò di fare.
Soprattutto, Romiti è stato l’uomo che, lasciata la casa automobilistica, si ritrovò alla guida di Rcs, provando a contendere agli Agnelli il diritto di nominare il direttore del Corriere della Sera. Va da sé che in quel «mi rammarica» c’è soprattutto l’incapacità di comprendere un’operazione impensabile appena qualche anno fa. Per quasi mezzo secolo Agnelli e De Benedetti hanno portato avanti una contesa fatta di finanza, di giornali e anche di amori. Con l’Ingegnere che, “cacciato” dall’Avvocato su input di Enrico Cuccia, in queste ore ottiene un’importante rivincita.
I duellanti si sono sempre affrontati a colpi di fioretto. Ma non per questo la guerra è stata meno dura. «Mettersi contro l’ufficio stampa Fiat era impossibile. Fecero girare anche la voce che ero alla testa di una cordata ebraica per scalare la Fiat. Ma chi conosce gli ebrei sa che chiedono e non danno», ha dichiarato De Benedetti durante il processo che ha seguito la sua querela (persa) a Marco Tronchetti Provera.
«Faccio i complimenti a De Benedetti anche se lui parla male di noi», diceva appena poteva Gianni Agnelli. Dopo la morte dell’Avvocato, l’Ingegnere lo ricordò dicendo che «era uno straordinario ambasciatore del Paese, ma un pessimo imprenditore, lo sapeva anche lui». Per tutta risposta, il giorno dopo, La Stampa, il giornale del quale sta per diventare l’editore, pubblicò un durissimo corsivo anonimo, nel quale poco cavallerescamente gli si ricordava il fallimento del principale gioiello tecnologico del Paese: l’Olivetti.
Ma lo scontro era inevitabile. Se con Silvio Berlusconi il dissidio nasce e morirà su questioni di affari, quella tra De Benedetti e Agnelli è una sfida soprattutto in termini di glamour. Con il primo che sa di partire perdente: di Agnelli, ammette l’editore di Repubblica, «ho ammirato il carisma, il fascino, l’acuto culto dell’estetica. Io sono nato metalmeccanico, ho passato decenni in fabbrica e ho conosciuto da vicino il lavoro dei miei operai. Lui è nato re». In fondo è stato il fato a unirli e a metterli in competizione. I De Benedetti dopo la guerra erano in affitto dagli Agnelli nella stessa palazzina che ancora oggi ospita Exor. La leggenda vuole che Umberto Agnelli andasse dal padre di Carlo, il patron della Compagnia Italiana Tubi Metallici, per chiedergli consigli su quali motocicletta comprare. Poi nel 1975 sarebbe stato proprio Umberto a chiedere all’ex compagno di scuola (dai gesuiti) di entrare in Fiat, di accompagnarlo nella sua scalata al potere in Corso Marconi. Contro Mediobanca, ma anche contro il fratello. I quali sbriciolarono le loro velleità di potere.
Romiti ha sempre detto che Agnelli, il vero monarca italiano all’estero, è stato conquistato dal fascino di Carlo De Benedetti. Tanto da sfoggiarlo in incontri mondani e di lavoro nel suo gioco preferito: sorprendere chi gli era accanto. Dopo quell’esperienza i loro business si sono soltanto sfiorati. Ma i rapporti personali non sono mai terminati. De Benedetti ha raccontato che, nel buen retiro di Sankt Moritz, l’Avvocato gli svelò l’accordo tra Fiat a Gm. Ma non gli disse il senso di quell’intesa: il passo indietro dall’auto.
Sempre sul versante delle confessioni anche la convinzione di Gianni Agnelli, nel 1994, che «Berlusconi alle elezioni ottenesse solo il 3%». L’Ingegnere scommise sul 10. Sbagliarono entrambi.
Per la cronaca Gianni Agnelli s’interesso dei destini dell’Espresso quando De Benedetti non ne era ancora l’editore. Aiutò il cognato Carlo Caracciolo quando il settimanale era agli esordi e non riusciva a far quadrare i conti. Provò poi a entrare nel suo azionariato a metà degli anni 70, ma il fratello della moglie Marella si rifiutò. Negli ultimi anni, invece, Carlo De Benedetti è stato bravo a creare un canale di dialogo con Sergio Marchionne. I due si vedrebbero spesso a Lugano. Ha capito che l’uomo forte di Fiat-Chrysler voleva liberarsi delle partecipazioni editoriali. E ha proposto un’alternativa conveniente per tutti. Ma a ben guardare, in questa guerra, non c’è un vero vincitore. L’hanno chiusa le ultime generazioni degli Agnelli e dei De Benedetti, stanche di bruciare soldi con la carta.
John Elkann, dopo aver provato anche lui a conquistare il Corriere ed essersi ritrovato con un 20% che non gli ha permesso neppure di nominare il successore di De Bortoli, ha preferito indirizzare i suoi sforzi verso l’Economist (è azionista del 20% ma potrebbe salire). Rodolfo De Benedetti, già prima di uscire dal settore dell’energia, aveva contribuito al business preferito dal padre soltanto caldeggiando per la Repubblica commentatori liberisti a 360 gradi come Alessandro Penati. Ma in tempi non sospetti aveva già fatto sapere che lui, l’impero di Largo Fochetti, l’avrebbe smantellato.
Come per Mondazzoli, sarà l’Antitrust a decidere che cosa rientrerà nel nuovo colosso editoriale. Nell’inventario ci sono due quotidiani nazionali, una ventina di testate locali, due concessionarie pubblicitarie molto aggressive e un piccolo gruppo multimedia sorto a Largo Fochetti. Ma in attesa dello spezzatino De Benedetti vede vincere il suo modello di editoria: il quotidiano nazionale, la Repubblica, che fagocita quelli locali. Nella sua ottica il Corriere della Sera resta sempre il gazzettino milanese, figuriamoci La Stampa.