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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

LA CRISI DEI REGIMI BOLIVARIANI

Il referendum svoltosi il 22 febbraio in Bolivia – nel quale la proposta di riforma costituzionale che avrebbe consentito al Presidente Evo Morales di candidarsi per la terza volta consecutiva alla Presidenza della Repubblica nel 2019 è stata respinta dagli elettori – è una occasione propizia per riflettere sullo stato di salute dei regimi bolivariani in America Latina, mentre si celebra ormai un decennio dall’avvento dei presidenti Correa e Morales in Ecuador e Bolivia e il regime venezuelano si trascina faticosamente verso il ventesimo compleanno. Il referendum boliviano riguardava una questione cruciale nei regimi presidenziali latino-americani, in cui sino all’inizio degli anni ’90 il divieto di rielezione immediata dei Presidenti era una regola generale dal Rio Grande alla Terra del Fuoco. Il presidenzialismo latino – un sistema caratterizzato dall’imitazione del modello statunitense, ma con un’esaltazione dei poteri (formali e “metacostituzionali”) del Presidente e da una legittimazione dei Parlamenti e dei giudici ben inferiore a quella propria del sistema praticato a Washington – si è rivelato da sempre assai squilibrato a vantaggio del potere esecutivo, con la conseguenza che la principale limitazione di esso è stata individuata nel divieto di rielezione immediata (e talora nel divieto di rielezione assoluta). Al tempo stesso quel sistema, pur vantando una tradizione ormai quasi bisecolare, ha funzionato in maniera regolare solo per brevi periodi (con l’eccezione del Cile e dell’Uruguay fino all’inizio degli anni Settanta).
A ttualmente, tuttavia, i regimi democratici degli Stati latino-americani si sono consolidati da ormai tre decenni, in cui elezioni ragionevolmente libere e corrette si sono tenute regolarmente. In questo contesto, il potere dei Presidenti è stato limato ed i Parlamenti e le Corti supreme hanno scoperto forme di protagonismo magari discutibili ma idonee a restaurare un equilibrio fra i poteri dello Stato. E anche il limite alla rielezione del Presidente è stato sdrammatizzato: dall’inizio degli anni Novanta essa è consentita, ma con il limite di un due mandati consecutivi (come negli Stati Uniti) oppure dopo l’intervallo di un mandato. La rielezione senza limiti del Presidente è invece ancora considerata foriera di autoritarismo ed è oggi consentita solo in Venezuela, mentre la sua introduzione è stata tentata senza successo nell’ultimo anno in Ecuador e Bolivia. In questo scenario di consolidamento della democrazia, nel quale i regimi militari (per tanto tempo tipici del subcontinente) sembrano consegnati ai libri di storia, gli ultimi due decenni hanno visto l’ascesa dei regimi neo-bolivariani in Venezuela (1998), Bolivia (2006) e in Ecuador (2007), che si sono presentati come un’edizione rinnovata del socialismo, aggiornata al XXI secolo, in forte polemica con l’ideologia e la pratica neo-liberali, che erano divenute dominanti in America Latina negli anni Novanta. Il socialismo del XXI secolo, del resto, si è inserito in un quadro più generale di una svolta a sinistra in tutti i Paesi latino-americani (tranne la Colombia ed il Messico) durante la prima decade del nuovo millennio. Ma si è distinto dagli altri Paesi in quanto ha contestato frontalmente gli assetti costituzionali preesistenti, invocando un nuovo modello di democrazia.
Il “nuovo costituzionalismo” latino-americano si è in effetti presentato come un mix piuttosto singolare di idee vecchie e nuove. Da un lato il socialismo del XXI secolo non ha seguito la strada del suo fratello maggiore, il comunismo, che nel secolo precedente aveva eliminato del tutto le elezioni competitive. Nessuno dei regimi venezuelano, boliviano ed ecuadoriano ha seguito la dittatura del proletariato old style, tuttora praticata a Cuba. Così le elezioni (presidenziali e parlamentari) si sono tenute a scadenza regolare e le opposizioni hanno in buona parte continuato a svolgere il loro mestiere. Al tempo stesso, però, i partiti di governo (il Mas in Bolivia, il Psuv in Venezuela e Alianza Pais in Ecuador), beneficiari di vasti consensi, hanno occupato ogni ganglo rilevante del potere statale (giudiziario compreso) e hanno colonizzato la società civile. In non pochi casi gli esponenti del nuovo regime si sono impadroniti dei media e gli spazi di dibattito per le opposizioni sono stati confinati alle reti sociali, dalle quali è oggi particolarmente difficile sloggiarli. E alcuni leader politici sono stati processati o costretti all’esilio, mentre l’occupazione dei media riduceva le possibilità di controllo della corruzione dei nuovi dirigenti politici, che si è rivelata non minore di quella dei predecessori. Sicché si può forse definire l’assetto costituzionale dei regimi neo-bolivariani come un autoritarismo competitivo o come un costituzionalismo abusivo, nel quale democrazia e autoritarismo sono avvinti in un intreccio inscindibile, che altera il gioco democratico, ma non svuota del tutto gli spazi della democrazia e del pluralismo: e ne è una conferma proprio il risultato del referendum boliviano (così come la rinuncia – lo scorso anno – del Presidente Correa ad ottenere la possibilità di rielezione senza limiti e la vittoria dell’opposizione nelle elezioni parlamentari venezuelane del 6 dicembre).
Il contesto attuale, tuttavia, pone sfide in parte nuove ai regimi neo-bolivariani, anche sul piano del loro governo dell’economia, un terreno sul quale essi hanno costruito buona parte del (talora vasto) loro consenso. L’aumento del peso della mano pubblica nella gestione delle risorse naturali in Venezuela, Ecuador e Bolivia (petrolio nei primi due casi, gas naturale nel terzo) ha coinciso con il decennio di commodities boom che ha fatto fare un salto di qualità a tutte le economie latino-americane. Ma Morales e Correa hanno spinto l’azione dello Stato molto meno avanti di quanto abbiano fatto Chavez e Maduro in Venezuela, aumentando certo le imposte statali sulle estrazioni, ed utilizzando il denaro così conseguito per finanziare la spesa sociale, ma senza mettere fuori mercato lo sfruttamento delle risorse naturali. Sicché Bolivia ed Ecuador hanno visto triplicare le dimensioni delle loro economie in circa un decennio, con la conseguente nascita di una significativa classe media e l’uscita dalla povertà di un quinto della popolazione, mentre il Venezuela – il Paese in cui il socialismo del XXI secolo ha visto la luce – ha drenato eccessive risorse dal settore petrolifero, rinunciando agli investimenti e sperperando immense risorse in progetti assistenziali e clientelari. N ell’ultimo biennio, finito il commodities boom con il rallentamento dell’economia cinese, e crollati i prezzi delle materie prime (petrolio in primis), questi regimi si trovano ad affrontare la fine del periodo delle vacche grasse. Tutti sono colpiti da un declino del consenso a favore dei governi in carica, ma mentre Morales e Correa conservano una base ampia, il regime chavista è praticamente imploso nell’ultimo biennio, inasprendo, al tempo stesso, il suo profilo autoritario.
Il destino finale dei regimi neo-bolivariani è ancora una pagina da scrivere, anche perché i presidenti dei tre Paesi hanno davanti alcuni anni prima delle prossime elezioni. Ma dal modo in cui gestiranno questa fase dipenderà la loro valutazione complessiva, tuttora sospesa fra uno sbocco autoritario e la riconduzione alle logiche della democrazia competitiva, o addirittura al suo inveramento, con la diminuzione delle diseguaglianze sociali.