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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

MILENA, IL PIACERE DI UCCIDERE


Chi ha studiato le donne serial killer è giunto a conclusioni interessanti: l’assassina seriale è più attenta, metodica, precisa e fredda nell’esecuzione del delitto rispetto all’uomo, tanto che occorrono mediamente otto anni di indagini, il doppio che per i colleghi maschi, per identificarla e catturarla.
I criminologi ne hanno riconosciuto tipologie diverse sulla base del movente che le spinge ad uccidere. Ci sono innanzitutto le «vedove nere», le più numerose, organizzate ed efficienti. Eliminano sistematicamente mariti e fidanzati, figli e familiari vari, chiunque abbia con loro una relazione significativa. Cominciano a operare intorno ai vent’anni, e proseguono per molto tempo, senza suscitare sospetti. Uccidono in media tra le sei e le dieci vittime, senza differenze di sesso o età, e lo fanno soprattutto col veleno. Ciò che le spinge è la prospettiva di un vantaggio economico, entrare in possesso dei beni della vittima, incassare il premio della sua assicurazione sulla vita.
Poi arrivano gli «angeli della morte»: colpiscono dove morire è un fatto quotidiano e normale. Ospedali, cliniche, case di riposo, luoghi dove un omicidio può essere facilmente nascosto. E non è nemmeno un problema trovare l’arma, perché basta aggiungere un farmaco alla terapia prescritta a un paziente, raddoppiare la dose, bloccare il flusso d’ossigeno. Spesso finiscono per tradirsi perché lasciano indizi o si vantano in qualche modo delle loro imprese.
Le «predatrici sessuali» sono i casi più rari, tanto che nella storia si ricorda solo una donna che abbia agito, e ucciso, da sola. Si tratta di Aileen Wuornos, capace di colpire per sette volte, prima di essere catturata e condannata alla pena di morte. Il 9 ottobre 2002 è stata giustiziata con una iniezione letale nel penitenziario di Raiford, in Florida.
Ma la classificazione non è ancora finita, perché c’è ancora chi uccide per vendetta, per profitto, in associazione all’interno di un team letale.
Resta comunque difficile trovare circostanze in cui il gentil sesso uccida ripetutamente per rabbia, sadismo o piacere, tanto che in Italia se ne contano solo due: la prima è la celebre Leonarda Cianciulli, più nota come la «saponificatrice di Correggio»; l’altra, quasi sconosciuta, si chiama Milena Quaglini.

Stanca di sopportare
Milena Quaglini e suo marito Mario Fogli sembrano proprio una coppia normale. Lui ha 52 anni, viene da Cornacchie e fa il camionista, mentre lei, Milena, di anni ne ha 41 ed è una donna minuta, piacevole, molto riservata. Milena e Mario abitano al terzo piano di una palazzina nel centro di Broni e hanno due bambine. Una coppia normale, ma ai carabinieri, e poi al sostituto procuratore che la interroga, Milena racconta una storia diversa, dice che lei e Mario litigavano sempre. Litigi violenti, così violenti, che una volta lui le aveva rotto due denti e sfondato un timpano. Ma non c’era solo questo, c’era che Milena beveva, soffriva di crisi depressive che cercava di tenere a bada con i farmaci, e soprattutto con l’alcool.
Poi, all’improvviso, non ce l’aveva fatta più. È il primo agosto 1998, un sabato sera. Milena e Mario hanno appena finito di discutere e lui se ne va a dormire, mentre lei mette a letto le bambine e poi resta in salotto a guardare la televisione. Aspetta fino a mezzanotte. Poi in punta di piedi attraversa il corridoio fino alla soglia della camera da letto. Sente che Mario dorme, e allora va nel ripostiglio, prende una corda per le tapparelle, ne taglia un pezzo, e torna in camera. Sale sul letto, scosta il lenzuolo e passa il cappio attorno al collo del marito, stringendo forte.
Le bambine, che dormono nella stanza vicina, non si accorgono di niente. Milena resta sul letto, a guardare il corpo di Mario, fino alle quattro del mattino. Poi si scuote, pensa che le figlie possono scoprire tutto, così prende dei sacchi della spazzatura e ci avvolge il cadavere; lo arrotola in una coperta, lo lega con un altro pezzo di corda e lo trascina sul terrazzo della camera da letto, coprendolo con un tappeto.
Quando le bambine si svegliano e chiedono del padre, Milena dice che è uscito a fare delle commissioni, e non tornerà a pranzo. Resiste fino a metà del pomeriggio, prima di crollare e chiamare i carabinieri. Nella caserma di Stradella, Milena continua a piangere e a ripetere che non voleva farlo.
Il 26 aprile 1999 il giudice condanna Milena Quaglini a 14 anni di reclusione. L’avvocato ricorre in appello, e in attesa del processo Milena viene trasferita agli arresti domiciliari prima in clinica, per curare i suoi problemi con l’alcool, e poi da un amico conosciuto in ospedale, che ha una casa a Bressana e che ha accettato di ospitarla.

Capace di intendere e volere
Il 6 ottobre 1999 scompare un uomo. Si chiama Angelo Porrello, ha 53 anni e fa il tornitore. Lo ritrovano il 24 ottobre. Nel giardino di casa sua c’è una concimaia, una vasca di mattoni, rettangolare, chiusa da un coperchio di lamiera. Angelo Porrello è lì dentro. Nudo, rannicchiato come un feto, le carni devastate dalla decomposizione.
Ci vuole poco a scoprire che responsabile del delitto, ancora una volta, è Milena Quaglini; lo aveva appena conosciuto, per caso, e subito si era ritrovata addosso le mani di un uomo violento, e insieme il ricordo dei maltrattamenti subiti dal marito ucciso.
Ma non è finita. Perché salta fuori che Milena Quaglini è responsabile di un altro omicidio. Era il 1995, e lei si era temporaneamente separata da Mario Fogli e viveva ad Este, in provincia di Padova. Lavorava come custode in una palestra e faceva le pulizie a casa di un uomo, un signore di 83 anni, Giusto Dalla Pozza.
Anche lui aveva provato a insidiarla, nonostante l’età. Anche lui, il 27 ottobre, si era trovato a fronteggiare una furia scatenata. E ci aveva rimesso la vita. La morte era stata interpretata come una caduta accidentale, ed è per questo che nessuno aveva pensato a Milena finché non saltano fuori i casi di Mario Fogli e Angelo Porrello.
La prima perizia psichiatrica parla di un vizio totale di mente. La seconda non va oltre l’incapacità parziale. Ma quella che conta è la terza, firmata dal professor Marasco di Roma, che scrive come quelli della donna siano «tre gravi reati caratterizzati da efferata violenza e nei quali aleggia il comune denominatore della triade sesso, violenza, morte, spinta dal bisogno impellente della donna di punire il partner, di vendicarsi nei suoi confronti per i torti subiti, quasi a simboleggiare la vendetta nei confronti della figura paterna, triade che rimanda alla figura criminologica del serial killer.» Insomma, per Marasco, «al momento dei fatti per cui si procede, Quaglini Milena era capace di intendere e di volere».

Farla finita
La relazione del professor Marasco viene depositata l’11 maggio 2001. L’udienza è rimandata al 24 settembre. In aula Milena viene interrogata dal pubblico ministero Mauro Vitiello. Resta calma e risponde a tutto, alzando la voce solo una volta, quando il pubblico ministero cerca di dimostrare che si è trattato di un omicidio premeditato. «Sono stufa marcia, è una vita che va avanti così, che prendo botte in famiglia. Che motivo avevo io di uccidere Porrello se non era un maiale, un bastardo. Cosa ci ricavavo? Forse un’eredità? Me lo dica lei, dottor Vitiello».
Sono le ultime battute del processo. La sentenza è attesa per la fine di ottobre. Il 16 ottobre 2001 è un martedì ed è l’una di notte. Milena è nella sua cella nel carcere di Vigevano. Aspetta che passi la sorvegliante che la controlla ogni ora, poi fa a strisce un lenzuolo e le intreccia assieme per confezionare un cappio. Lo attacca a un gancio per appendere gli abiti che sta nell’armadio, ci infila la testa dentro e poi si lascia cadere, sollevando le ginocchia.
La trova la sorvegliante del turno successivo, all’1 e 50. Ha un livido rosso attorno al collo, respira ancora e il suo cuore batte molto debolmente. Troppo debolmente. Non ce la fa. La portano al pronto soccorso dell’Ospedale Civile di Vigevano, ma alle 2 e 15 muore.
Qualcuno racconta che forse Milena ha ucciso altri uomini, delitti ancora irrisolti. Molto improbabile. Ma impossibile da escludere.