Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 27 Sabato calendario

CERCASI UOMINI PER VIAGGIO RISCHIOSO. PAGA BASSA, FREDDO GLACIALE. INCOLUMITÀ E RITORNO INCERTI. ONORE IN CASO DI SUCCESSO


«Abbiamo sentito la nostra barca sollevarsi e venire gettata in avanti come un tappo di sughero nella risacca». Così Sir Ernest Shackleton avrebbe descritto il momento più duro del suo viaggio su una scialuppa di salvataggio scoperta, il 5 maggio 1916 mentre – con cinque compagni – si trovava a poco più di 100 miglia dalla Georgia del Sud in quello che viene ancora oggi raccontato come uno dei viaggi più difficili e pericolosi della storia della marineria mondiale. L’ultimo assalto verso una disperata salvezza per quella truppa di superstiti che aveva trascorso due inverni sul continente antartico.
Shackleton, esploratore britannico, lasciava su Elephant Island il grosso della sua spedizione, 22 uomini in gravi difficoltà anche fisiche (oltre che psicologiche), per raggiungere una stazione baleniera distante quasi 800 miglia (1.500 chilometri), in quel tratto di mare più a sud del Sud, fra Antartide e America Meridionale, considerato fra i più pericolosi della Terra. E lui lo affrontava su una scialuppa di salvataggio lunga poco meno di 8 metri, senza alcuna copertura, rinforzata alla meglio proprio per affrontare quella navigazione disperata e all’apparenza impossibile. Almeno in quelle condizioni e con una scarnissima strumentazione, non solo perché avveniva un secolo fa: un sestante e un orologio per cercare di avvicinare la sagoma nerastra della Georgia del Sud, un’isola quasi disabitata e selvaggia, terra solo di balenieri.
Leggenda vuole che qualche anno prima lo stesso Ernest Shackleton (soprannominato in tutte le spedizioni polari soltanto The Boss, il capo) avesse messo un annuncio sul Times – il famoso giornale britannico – per reclutare volontari da portare con sé: «Cercasi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti. Onori e riconoscimenti in caso di successo». E anche se qualcuno mette in dubbio la veridicità dell’annuncio, che sarebbe stato ricreato dopo la spedizione, fu esattamente quella la condizione in cui vissero gli uomini che parteciparono all’Imperial Trans-Antarctic Expedition (l’attraversamento a piedi dell’Antartide da una parte all’altra), che giusto un secolo fa volgeva al termine, dopo quasi tre anni di rischi, freddo, oscurità e destino incerto.
Attraversare il continente con slitte e cani, dal mare di Weddell fino al mare di Ross (dove in base ai piani iniziali il gruppo di Shackleton doveva essere recuperato dalla nave Aurora per fare ritorno nella madrepatria Inghilterra), si rivelò una spedizione fallita dal punto di vista scientifico-esplorativo ma d’indubbio successo mediatico (diremmo oggi). Anche perché il baronetto britannico (di origine irlandese) riportò a casa tutti e 28 gli uomini che avevano lasciato la Gran Bretagna all’inizio del 1914. Il cerchio si chiuse quando lo stesso Shackleton andò a recuperare, in nave, i 22 compagni di avventura rimasti sull’isola dell’Elefante ad aspettare. Erano passati circa quattro mesi da quando The Boss aveva lasciato quel lembo di Antartide su una scialuppa di salvataggio dell’Endurance, la nave che li aveva portati nel continente bianco e lì era rimasta intrappolata, fino ad affondare, stritolata dai ghiacci, come in un abbraccio letale. Lasciando orfani e abbandonati gli uomini di Shackleton. I mesi a svernare sul ghiaccio (improvvisando anche partite di calcio per vincere non solo il freddo ma anche la noia, che a quelle latitudini è altrettanto pericolosa) prima di decidere di puntare all’isola dell’Elefante, ormai certi che nessuno sarebbe andato a salvarli, visto che l’Europa era squassata dalla Prima guerra mondiale e probabilmente, dopo tanto tempo e tanto silenzio, dava per scontato che tutto fosse finito nella maniera più tragica. Siamo in un’epoca di grandi esplorazioni, il Polo Sud era già stato conquistato qualche anno prima in una sorta di corsa alla conoscenza (con un tributo di morti), per allargare ancora di più i confini dell’uomo. Quello che Shackleton e i suoi finirono per provare sulla loro pelle. Fu già un’impresa arrivare nell’isola dell’Elefante sulle tre scialuppe ereditate dalla defunta Endeavour (nome evocativo che significa “tentativo”). La prima terra vera dopo 16 mesi di ghiaccio. Anche se quel presidio era completamente disabitato e deserto. Sette giorni fra tempeste enormi, come ricorderanno i diari scritti settimane più tardi. Sette giorni di mare, mangiando pochissimo e male, gli ultimi tre senza nulla di caldo da mettere nello stomaco, con giornate che avevano 17 ore di buio e solo 7 di luce. «Le temperature in mare erano 20 gradi sotto lo zero». «Era difficile vedere, il ghiaccio era ovunque e i piedi soprattutto erano quelli che soffrivano di più. Un senso di torpore ci pervadeva...».
Per spiegare quali erano le condizioni e la fiducia di raggiungere la stazione baleniera della Georgia del Sud basta leggere il biglietto che Shackleton lasciò al suo secondo, che restava a Elephant Island. «Carissimo, se io non dovessi sopravvivere al viaggio, ti raccomando di fare il possibile per mettere in salvo i nostri compagni di spedizione. Appena lascerò l’isola sarai il comandante in capo e ti prego di trasmettere agli uomini il mio affetto e la mia stima. Ricorda loro che ho fatto tutto il possibile per riuscire nell’impresa».
Un viaggio di 16 giorni, uno appiccicato all’altro, nel disperato tentativo di rag­giungere quella terra promessa. Tutto era bagnato a bordo della scialuppa James Caird (dal nome del finanziatore dell’im­presa): i vestiti, i sacchi a pelo, il cibo, le suppellettili che potevano servire du­rante il viaggio. «Onde enormi ci vengo­no incontro, anche 15 metri o più (vale a dire il doppio dell’imbarcazione)». Anche rilevare la posizione era un’impresa, con una sola possibilità per capire se la di­rezione presa era giusta: l’aiuto del ven­to. Poi finalmente la Georgia del Sud si avvicina e diventa realtà, ma una realtà difficile da raggiungere. Due giorni per cercare di approdare e sbarcare. Poi, alla fine, un po’ di fortuna per trovare un varco in quella costa selvaggia, fra scogli e ghiacci. Appena arrivato a Baia di Re Haakon, Shackleton realizza che il viaggio non è ancora finito. Erano sbarcati dalla parte disabitata dell’isola. Li attendeva ancora un trasferimento fra le montagne ghiacciate e mai calpestate da piede umano. I marinai si devono trasformare in alpinisti, o qualcosa del genere. Il gruppo si divide ulteriormente. I tre più malconci cercano riparo nel punto d’approdo e rimangono ad aspettare, mentre The Boss e gli altri due vanno in caccia della stazione baleniera: ancora oggi è un mistero capire come siano arrivati a destinazione nelle loro condizioni e senza attrezzatura.
Alle 4 del pomeriggio del 20 maggio 1916 tre uomini stracciati, distrutti, con la barba lunga, denutriti, ma vivi, arrivarono all’attuale Stromness (Nansen, prima del 1920). «Non mi riconosce?», chiese The Boss al baleniere incontrato per strada. «Riconosco la vostra voce», rispose l’uomo esitante. «Sono Ernest Shackleton».