Fabrizio Salvio, SportWeek 27/2/2016, 27 febbraio 2016
VE LO DICEVO CHE ERO BUONO
[Kevin Lasagna]
Scusi Lasagna, ma dove si trova Polpenazze?
«In provincia di Brescia».
E si vergogna di averci giocato fino a due anni fa?
«Perché? Mi sono divertito, ci ho lasciato degli amici e mi hanno pure pagato. Poco, ma mi hanno pagato».
Detta così, resta il dubbio che sia lui a prendere in giro te. Invece no. Invece Kevin Lasagna, centravanti, 23 anni, da appena due giocatore professionista, esordiente in A come il suo Carpi (che lo ha pagato appena 18 mila euro), alla fine ti convince di essere proprio come appare: pulito, sincero, rivestito di una bontà che disarma. Lo conferma indirettamente lui stesso in questa intervista, nella quale infila una serie di risposte – timide, a volte prudenti – che ne restituiscono l’immagine di una pecora in un mondo di lupi. Idea sbagliata: mangiare il pane duro della gavetta lo ha irrobustito al punto che altri rischierebbero di spezzarsi i denti, se solo provassero ad azzannarlo.
Ripartiamo da Polpenazze.
«In estate partecipavo ai tornei serali dei bar. Calcio a 7, ma roba seria, messa su bene. Alle partite c’erano sempre milleduemila persone».
Come c’era arrivato?
«Mi hanno contattato quando ancora giocavo nella Governolese, in Promozione. Gli organizzatori vanno in giro nei campi di provincia a cercare i giocatori. Pagano dai 50 ai 100 euro, a seconda se vinci o no il torneo. So cosa sta per chiedermi: no, io non l’ho mai vinto. La composizione delle squadre viene sorteggiata all’ultimo momento e diciamo che non mi sono mai stati assegnati compagni particolarmente forti. In più, dato che ero il più veloce di tutti, mi facevano giocare sulla fascia e non davanti alla porta».
Non ha tirato su molto...
«Tra quello che prendevo e quello che spendevo per la benzina, no. Però la cena era offerta».
Scartato dal Chievo da ragazzino, scartato dal Lumezzane in Lega Pro, a 20 anni sui campi della D. Non ha mai pensato: basta, ci rinuncio?
«No. Ma non sarei rimasto mica a spasso, sa? Ero geometra e avevo fatto anche uno stage in un’azienda con soddisfazione di tutti. Avrei svolto quella professione senza problemi, mi piaceva».
Che cosa non ha funzionato al Chievo?
«Mi hanno preso a 10 anni e tenuto per quattro, poi mi hanno lasciato andare perché all’epoca ero piccolino. Quasi tutti i club ormai nelle giovanili ti fanno giocare solo se sei alto e grosso. Io sono cresciuto molto tardi».
All’epoca, inoltre, non giocava nemmeno nel suo ruolo attuale.
«Da centravanti vero e proprio mi ha impostato Alberto Facci, 3 anni fa nel Cerea, in D. Il mister arrivò a gennaio, fino a quel momento pure lì avevo giocato poco o niente. Con lui segnai 7 gol in 14 partite. E pensare che di me in società dicevano: corre, ma non vede la porta».
Insomma, non è stato facile.
«Per niente. Ho fatto provini col Mantova, col Lumezzane, col Castiglione delle Stiviere. A Mantova mi dissero che non piacevo, punto. Al Lumezzane non mi presero perché erano stati ingaggiati ragazzi della Lazio e dovevano giocare. Al Castiglione, in D, arrivai che mi ero appena operato al menisco mediale. Una sciocchezza, ma in ritiro si correva sempre sul duro – asfalto – o in montagna, in salita. Il ginocchio prese a farmi male, provai a dirlo ma mi fu risposto di non preoccuparmi. Io zitto, correvo sul dolore. Alla fine l’arto era così infiammato che il chirurgo che mi aveva operato disse: facevi meglio a spaccartelo di nuovo».
Dopo il Cerea è esploso con l’Este, sempre in D, nel 2013-14: 21 gol in 33 partite. Disse a se stesso: o si accorgono di me adesso o mai più?
«Sì, ma non mi facevo illusioni. Poi ho conosciuto Massimo Briaschi, che oggi è il mio procuratore. Ci presentò il direttore sportivo dell’Este, e Massimo mi piacque subito per quello che mi disse».
E che cosa le disse?
«Mi spiegò il mondo del calcio, il calcio che conta».
Cioè?
(abbassa lo sguardo) «Adesso non ricordo».
Ha mai pensato che, per come è fatto lei, se dovesse passare in una grande correrebbe il rischio di perdersi? Non in campo, ma fuori?
«Non penso che avrei problemi. Se uno dà tutto in campo, non può preoccuparsi di quello che succede fuori».
Come si definirebbe in tre aggettivi?
«Umile. Generoso. Tenace».
Al Carpi arriva come?
«Briaschi fa il mio nome al direttore sportivo Giuntoli, oggi al Napoli. Lui viene a vedermi e la società decide di prendermi. Mi spiegano però che se avessi dimostrato di fare fatica nel passaggio dalla D alla B, mi avrebbero dato in prestito».
E quanta fatica ha fatto, in realtà?
«Il primo giorno avevo paura di tutto, anche di fare un passaggio di 5 metri. Dal punto di vista atletico non ho sofferto perché il preparatore mi aveva dato un programma di lavoro da svolgere in vacanza. Il problema era il pallone: tra i piedi scottava. Fuori dal campo i primi giorni me ne stavo in un angolo con il timore di dire qualcosa di sbagliato».
Esordio in A a Marassi contro la Samp.
«Sono rimasto impressionato perché non ero mai entrato in uno stadio così grande. Ma addosso me la sono fatta con la Governolese, quando dagli juniores passai in prima squadra e il mister mi fece esordire. Volevo spaccare il mondo e la tensione mi mangiò vivo: fui sostituito a metà primo tempo e scappai in bagno».
Il poster in cameretta?
«Ronaldo il Fenomeno. Oggi il mio idolo è l’altro Ronaldo, Cristiano. È alto e veloce come me. Molto più di me, eh».
Guadagna 150 mila euro all’anno: lo sfizio più grosso che si è tolto?
«L’Audi A3. Poi penserò a comprare casa».
È il momento di due domande inevitabili. La prima: lei si chiama Kevin, sua sorella Sharon. Perché?
«Perché i miei amano i nomi americani e Kevin Costner e Sharon Stone. So cosa sta per chiedermi: papà si chiama Leonardo, mamma Tiziana».
La seconda: gli sfottò più frequenti sul suo cognome?
«“Lasagna, ti sei mangiato un gol”. A scuola invece no, mi hanno lasciato tranquillo: dalle mie parti, nel Mantovano, Lasagna è abbastanza comune. Sono permaloso solo se fanno battutine sulla mia ragazza».
Che tipo di battutine?
«Anche soltanto se i compagni di squadra mi dicono: “Ehi, Kevin, lo sai che è proprio bella?”».
Beh, quella è gelosia. A proposito: come si chiama la sua ragazza?
«Arianna. È del mio paese, San Benedetto Po. È diplomata estetista, stiamo insieme da più di 5 anni e adesso vive a Carpi con me. È molto brava in cucina».
Lei è interista e ha fatto gol all’Inter. Ma non c’era nessuno di meglio di Guarin a cui chiedere la maglia?
«L’avevo chiesta a Icardi e a Jovetic, ma l’avevano già scambiata con altri miei compagni. Dopo, sono uscito per ultimo dall’antidoping e ho domandato a un mio dirigente di recuperarmi una maglia dell’Inter, una qualunque. È tornato con quella di Guarin».