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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

LA CACCIA AL TESORO DI APPLE

& CO. COSÌ LE GRANDI MULTINAZIONALI NASCONDONO 2100 MILIARDI –
MILANO - L’adagio recita che a seguire i soldi si ottengono le risposte. Nel caso delle grandi multinazionali l’esercizio sarebbe anche gradevole, visto che conduce a Bermuda, Isole Cayman, ma anche mete meno lontane e ugualmente piacevoli quali Irlanda, Lussemburgo o Paesi Bassi. Sono loro, i soliti noti custodi di buona parte dei denari delle maggiori aziende al mondo. Società disposte a tutto purché i loro soldi non si muovano da quei porti sicuri. Apple - è notizia di questi giorni - preferisce indebitarsi con un bond da 12 miliardi di dollari per finanziare il suo piano di remunerazione degli azionisti e l’attività corrente. Il tutto pur di non intaccare i circa 200 miliardi di riserve liquide che custodisce nei paradisi fiscali.
Il clima finanziario generale gioca a favore di queste operazioni: l’andamento delle economie e il rischio di deflazione inchiodano i banchieri centrali a una posizione accomodante, i tassi sono a minimi storici e - quando si è un’azienda solida e di prospettive interessanti - si raccoglie denaro a condizioni favorevoli. Ma è difficile spiegare questa convenienza senza chiamare in causa il fattore Fisco. Il caso di cronaca riporta l’attenzione su un fenomeno più grande. Secondo un report di Citizens for Tax Justice e U. S. Public Interest Research Group Education Fund, le maggiori 500 società a stelle e strisce hanno 2.100 miliardi di dollari di cassa custodita fuori dai confini Usa, in paesi dove il morso dell’Erario stringe meno. Se quella mole di denaro rientrasse negli Stati Uniti, Washington potrebbe incassare in un colpo solo 620 miliardi di dollari. Dai colossi tecnologici come Microsoft e Oracle, ai big della finanza come Citigroup o Goldman, non c’è settore che non si sia lasciato ingolosire dalla possibilità di spostare i profitti al riparo dalla rete dell’Erario. La legge Usa, d’altra parte, permette di considerare come "reinvestiti in modo permanente" gli utili registrati dalle filiali estere, qualora non siano trasferiti (o direttamente, o in forma di dividendo) alla casa- madre americana. In soldoni, si può evitare di pagarci le tasse se quei profitti restano all’esterno e non vengono utilizzati per finanziare gli investimenti della holding o la remunerazione dei suoi azionisti. "Ciò non impedisce alla filiale straniera di investire in qualsiasi tipo di asset Usa", spiega Richard Phillips, analista di Ctj.
Il paradosso è che quei soldi vengono sottratti al sistema fiscale americano, ma possono godere delle garanzie (in termini di protezione degli investimenti) che la solidità Usa offre loro. L’ingegneria finanziaria non si ferma qui: "Alcune compagnie usano quella cassa come collaterale per finanziamenti alla controllante nella madrepatria, in modo da sostenere i piani di investimento o remunerazione degli azionisti, senza dover pagare le tasse per aver rimpatriato quei denari". Non sfugge che una simile pianificazione fiscale potrebbe posporre sine die il momento di versare il dovuto all’Erario di casa, preferendo piuttosto pagare un interesse agli obbligazionisti (del 3,28%, secondo il Financial Times, nel caso della tranche decennale di Apple). Ma non è ciò a cui puntano le Corporations, che aspettano piuttosto il giusto pertugio per rimpatriare i capitali all’estero. L’ultima finestra si era aperta nel 2004 e una nuova opportunità si profila: il presidente Barack Obama ha inserito nella proposta di budget una "transition tax", che prevede il rientro dei profitti custoditi fuori dagli States con un’imposizione fiscale vantaggiosa: aliquota al 14%, in luogo del 35% ordinario. Sul tavolo c’è un piano ancor più accattivante per le compagnie, di marca repubblicana, che taglia l’imposizione all’8,75%. I risparmi, solo per le maggiori società, variano da 97 a 121 miliardi di dollari (si veda la tabella in pagina). "Nell’anno elettorale è difficile che si arrivi a un accordo, ma nel giro di un paio d’anni il Congresso voterà una riforma fiscale che conterrà una "transition tax"", pronostica Phillips, annotando che il tema è entrato a far parte anche delle campagne più "populiste" ed è stato sdoganato da Donald Trump.
Confinare il problema alla sponda occidentale dell’Atlantico sarebbe come nascondere la testa sotto la sabbia. Il metodo Apple è solo uno dei tanti escamotage a disposizione delle grandi multinazionali per pagare meno o zero tasse. Pochi giorni fa, dai bilanci della holding olandese di Google, è emerso che il motore di ricerca ha mosso oltre 10 miliardi dai Paesi Bassi alle Bermuda, facendo ponte sulla controllata irlandese. In Europa, ha dimostrato un recente studio commissionato dall’esecutivo di Bruxelles, quattordici Stati membri (ma non l’Italia) hanno falle nei sistemi fiscali paragonabili a quello sopra descritto per gli Usa. Accordi infragruppo per vendere beni e servizi, registrazione dei brevetti nelle giurisdizioni che li tassano più favorevolmente, prestiti tra consociate per sfruttare le deduzioni degli interessi passivi, sfruttamento dei trattati bilaterali, tanti sono i grimaldelli per ridurre il conto dell’Erario. Scavando nei loopholes, i buchi normativi nei quali insinuarsi a vantaggio dei propri azionisti. "Schemi del tutto legali ", ricorda Giammarco Cottani di Ludovici&Partners: "Tanti Paesi hanno una normativa interna che permette alle società di spingersi a questi limiti".
Ma da qualche tempo il clima internazionale è cambiato: la crisi economica, l’esigenza di rimpolpare i bilanci pubblici e gli scandali internazionali come Luxleaks hanno alzato il margine d’attenzione. A livello nazionale, il pressing del Fisco ha portato proprio Apple ad accettare un accordo con l’Erario italiano per 318 milioni e porre così fine a una trattativa estenuante. Sulla scena globale, l’esito più importante di questo cambio di rotta è il progetto sui Beps (Base Erosion and Profit Shifting) dell’Ocse, presentato in autunno e ora – dopo il G20 di Shanghai del fine settimana – giunto alla fase operativa. L’Organizzazione parigina stima che ogni anno gli Stati si facciano sfilare dalle mani tra i 100 e i 240 miliardi di dollari di gettito dalle imprese. Nella sola Eurozona la stima dell’elusione varia tra i 50 e i 70 miliardi di euro.
Dopo due anni di lavoro, dodicimila pagine di commenti e undici consultazioni pubbliche, il Progetto Beps si è tradotto in un Action Plan di quindici azioni. Dall’industria digitale alla definizione più stringente di "stabile organizzazione" passando per nuovi paletti sui transfer pricing, l’armamentario per tappare le falle del sistema è ora pronto per essere tradotto in pratica ai vari livelli normativi. Un lavoro enorme anche se non esente da critiche, proprio perché "ha preso le mosse dall’esigenza di dare una risposta immediata all’opinione pubblica", annota Stefano Simontacchi, esperto di fiscalità internazionale di BonelliErede. Positivo, è il giudizio, nell’individuazione delle pratiche fiscali aggressive da contenere. Affrettate alcune soluzioni proposte, "che soffrono di eccessiva semplificazione da compromesso come nel caso delle restrizioni sui patent box", le tassazioni agevolate per i redditi da proprietà intellettuale, "che rischiano di pesare su sistemi virtuosi, come quello italiano, che fino a ieri non hanno certo agevolato le imprese che investono nell’innovazione e oggi rischiano di venire imbrigliati se cercano di riguadagnare competitività fiscale a livello internazionale ". Il timore è che, come in altri settori (si pensi ai salvataggi bancari), la stalla si chiuda a buoi ampiamente scappati: "Ora va aperto un nuovo tavolo di riforme strutturali della fiscalità internazionale ".
Bruxelles è uno dei soggetti attivi nella trasposizione in direttive dei principi Ocse. A giorni, la Commissione europea presenterà un piano per obbligare le multinazionali a rendicontare la loro presenza, paese per paese: tra le altre cose, ricavi, reddito, dipendenti e tasse pagate (è il "country-by-country reporting", Cbcr). Due sono i punti caldi da definire, sui quali battono le organizzazioni non governative come Transparency International. "Se si sposerà il modello promosso dall’Ocse, si limiterà l’obbligo di rendicontare paese per paese alle sole aziende sopra 750 milioni di fatturato: si coinvolgerebbe una percentuale infinitesimale di società " sostiene Elena Gaita che segue il dossier per l’Ong a Bruxelles. Da valutare anche il livello di pubblicità di quei dati: al momento, si prevede che vengano scambiati tra Autorità fiscali. Gli attivisti chiedono che vi possano accedere anche mezzi d’informazione e policy-makers. Resta da capire se ci sarà la volontà di entrare in una Luxleaks permanente, terreno ancora inesplorato.
RAFFAELE RICCIARDI, Affari&Finanza – la Repubblica 29/2/2016