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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

RIKOTTA, BAROLLO, PARMESAN IL PIATTO RICCO DELL’ITALIAN SOUND BRUCIATI 60 MILIARDI DI EXPORT

Roma L’ ufficio di Rolando Manfredini, responsabile della qualità e sicurezza alimentare della Coldiretti, di fronte al Quirinale, sembra un supermercato. A uno sguardo appena un po’ più attento, le etichette sembrano però tratte da Hellzapoppin, il mondo destabilizzato. I formaggi si chiamano Parmesan, Parmazano, Reggianito, Rikotta, oppure con un ardito accostamento “Parmesan, Romano & Grana”. I vini sono Barollo, Cantia (leggetelo in inglese e scoprirete l’assonanza con Chianti), Vinoncella (alias Valpolicella), Brunello di Monticino, Prisecco, Cresecco. L’olio è il Romulo, la pasta sono i Makkaroni o semplicemente Pasta Shuta. E se volete farvi una caprese ecco la Zottarella, Classic per carità, con un’etichetta che la abbina a pomodori e insalata a evocare la magica bandiera italiana. E poi via andare con il Tuscany Salama, il pecorino cinese con una mucca sull’etichetta (ovviamente su uno sfondo bianco-rosso-verde), gli spaghetti in “real salsa bolognese” che a Bologna non sanno neanche di cosa si tratti. Benvenuti nel pianeta surreale dell’Italian Sound. «Cosa vuole commentare», allarga le braccia Manfredini, che gira il mondo per raccogliere sempre nuovi esempi della follia dilagante del made in Italy alimentare taroccato. «Da un lato potrebbe farci piacere l’abbinamento dell’Italia con il mangiar bene. In pratica, passiamo il tempo a fare ricorsi, appelli, petizioni presso tutte le possibilità
autorità italiane e internazionali. Il guaio è che il più delle volte hanno ragione loro perché riescono a dimostrare che un nome è ormai generico: presentare “Spaghetti meat balls” come un piatto tipicamente italiano non è reato. Ma il danno per noi è colossale. Camminiamo sul sottile crinale fra la truffa bella e buona e l’evocazione di un nome celebre, che sarebbe anche perseguibile in certi casi, ma il tutto è molto più opinabile». Tutto questo ci costa, calcola l’Eurispes nel suo ultimo rapporto “Agromafia” presentato la settimana scorsa, 60 miliardi di euro l’anno: 6 per furti di identità belli e buoni, 54 per quel mare indistinto e limaccioso che si chiama Italian Sound. «Sono cifre fin troppo ottimistiche e la realtà è ancora peggiore», obietta Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare nonché ad di Inalca, la principale società del gruppo Cremonini che fattura 3 miliardi con la carne in tutto il mondo. «L’unico vero rimedio è una campagna a tappeto per valorizzare i contenuti genuini dei nostri cibi puntando sulla qualità». Fa riflettere che l’export di prodotti alimentari “veri” si fermi a poco più di 27 miliardi: «Secondo i nostri calcoli, se si trova il modo di arrestare questo fenomeno e recuperare almeno parte delle somme “eluse” si creano 300mila posti di lavoro », dice Licia Matteoli, vicepresidente della Confindustria con la delega per l’internazionalizzazione. «Il caso si interseca con vicende come la direttiva europea del “made in” che imporrebbe ai nostri concorrenti di indicare con precisione le materie prime, e quindi aiuterebbe le aziende italiane che vedrebbero riconosciuti i loro meriti, oppure il riconoscimento alla Cina della qualità di economia di mercato che renderebbe molto più scarsi i controlli alle frontiere, oppure anche il trattato Ttip dove si sta cercando di inserire la tutela dell’alimentare italiano ma con risultati finora incerti ». In tutti i casi, per un gioco diabolico di interessi contrapposti, si fatica a inserire in qualche normativa internazionale il vero e proprio divieto di sfruttare scorrettamente il nome “italiano”, per esempio imponendo severi vincoli a protezione della denominazione di origine territoriale. «Gli americani per primi, ma anche altri, non vogliono saperne: per loro un prodotto italiano si può coltivare e produrre in qualsiasi posto», dice Scordamaglia. Che ricorda che da un anno è esplosa, dall’America alla Cina, la moda dei kit: polveri e bustine per produrre il vino, ovviamente italiano, in casa, o per farsi la mozzarella da soli. Di male in peggio. I casi sono un’infinità. Il più sconcertante rimane quello del prosciutto canadese. Trent’anni fa la Maple Leaf Foods, maggiore azienda alimentare locale, ebbe la spregiudicatezza di registrare il marchio “Prosciutto di Parma” compresa l’estrema beffa del bollo ducale con la coroncina a cinque palle. Copyright ed esclusiva. Quando è arrivato dall’Emilia il vero prosciutto, ha trovato le porte sbarrate. «Le abbiamo tentate tutte, ricorsi alla magistratura italiana e canadese, alla Commissione e al Parlamento europeo, al Wto», dicono al consorzio parmense. Niente da fare. La Corte d’Appello di Ottawa nel 2012 ha addirittura tolto la qualifica di autorità pubblica al Consorzio, che non può far altro che esportare il prodotto con il nome “Prosciutto originale”. Infine in sede di approvazione di un trattato bilaterale di libero scambio a fine 2013 è stata varata la “coabitazione” ma nulla di più. Il marchio Parma, per fortuna tolto il simbolo pentastellato, è rimasto ai canadesi. Agli italiani non resta che continuare a vendere l’“Original Ham”. L’avvento dell’e-commerce, se possibile, ha peggiorato ulteriormente la situazione. «Nessuno vieta la creazione di siti tipo prosciutto.com o spaghetti.org, e dentro di venderci di tutto», spiega l’avvocato Nadia Martini che segue questa problematica per lo studio Nunziante Magrone. Ora il governo italiano, con discreto ritardo, si è mosso, soprattutto su impulso di Carlo Calenda, viceministro del Commercio estero che proprio in questi giorni sta trasferendosi quale ambasciatore a Bruxelles, e sono stanziati 40 milioni per campagne informative che riportino la realtà almeno sulle etichette, dettagliando criteri e luoghi di produzione. Il nodo politico sta nel cogliere al volo e valorizzare le sentenze favorevoli che cominciano ad arrivare, a partire dall’America, non solo su questioni italiane: a Miami i consumatori hanno vinto una class action contro la Beck perché vendeva “con gusto tedesco” una birra fatta nel Wisconsin. Anche altrove nel mondo qualcosa si muove: in Thailandia è finita fuori legge la locale “Gorgonzola” e in Germania è arrivata una sentenza favorevole sull’aceto balsamico di Modena. Ma sono ancora piccoli segnali in una battaglia tutta da combattere. Tutti i prodotti mostrati evocano il gusto italiano ma sono fatti altrove. Non è illegale: quello che si cerca di fare è imporre sulle etichette spiegazioni dettagliate su metodi e luoghi di produzione, che i consumatori poi confrontino con i veri prodotti italiani.
Eugenio Occorsio, Affari&Finanza – la Repubblica 29/2/2016