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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

BANCHE, I RISCHI ANNIDATI NELLE REGOLE

Non ho mai capito perché qualcuno spenda dei soldi per acquistare credit default swaps (cds, una sorta di assicurazione sul rischio di fallimento del debitore) sui titoli emessi dal Tesoro di Washington. La ragione della mia perplessità è che se fallissero gli Stati Uniti crollerebbe tutto, comprese le istituzioni finanziarie che hanno emesso quei cds e che quindi non sarebbero in grado di mantenere il loro impegno. Di segno simile è la perplessità sul progetto di attribuire un rischio ponderato ai titoli pubblici in portafoglio alle banche. Tecnicamente questo comporterà che le banche dovranno aumentare il patrimonio di vigilanza, che è commisurato ai rischi contenuti nei loro portafogli, visto che oggi il rischio attribuito (a questo fine) ai titoli di stato è uguale a zero. Se non sarà più zero le banche dovranno scegliere tra l’aumento del patrimonio e la riduzione dei titoli di stato posseduti. La ragione politica di questo progetto è sganciare il rischio banca dal rischio sovrano. Un obiettivo perseguito con determinazione dai regolatori europei dagli anni della crisi dei debiti sovrani, che determinò una divaricazione degli spread applicati dal mercato ai titoli pubblici dei diversi paesi dell’area euro (quello del Btp italiano rispetto al Bund tedesco schizzò oltre 500 punti base) e una rinazionalizzazione dei flussi interbancari.
L’obbiettivo è rispettabile, ma anche velleitario: chi potrebbe immaginare che il rischio delle banche italiane (per fare un esempio) non esploderebbe, che abbiano Btp in portafoglio o meno, se lo stato italiano fallisse? Credo nessuno. Tuttavia si continua a portare avanti questo progetto, nonostante la sua improbabile efficacia e il fatto che abbia almeno un effetto collaterale assai complicato da gestire: la liquidità. Gli stessi regolatori che progettano di ponderare per il rischio i titoli di stato in portafoglio alle banche, impongono giustamente alle banche stesse di avere adeguati margini di liquidità, che devono gestire tenendola in contanti oppure in determinate categorie di titoli fortemente liquidi come appunto i titoli di stato. Se le banche vengono scoraggiate dal tenere titoli di stato in portafoglio le loro possibilità di scelta si ridurrebbero a quella di perdere ogni giorno su quella liquidità depositata a tassi negativi presso la Bce ( in gennaio ce n’era per 444 miliardi) oppure comprare titoli pubblici il cui rischio ponderato è il più vicino possibile allo zero. Ovvero titoli del tesoro di Berlino. Tralasciando per un attimo il fatto che anch’essi hanno tassi negativi, c’è un altro problema: non ce ne sono abbastanza sul mercato per tutte le banche dell’Eurozona. Siamo ancora allo stadio di progetto ma gli effetti già cominciano a sentirsi.
Intesa Sanpaolo, la prima banca nazionale, ha dimezzato la quantità di titoli italiani che aveva in portafoglio da 60 a 30 miliardi di euro, altre seguiranno il suo esempio. Viene un dubbio: quando terminerà il quantitative easing della Bce, questi titoli, con una ridotta presenza delle banche tra gli acquirenti, chi li comprerà? E dove potrebbero arrivare gli spread, anche senza eventi traumatici? Viene addirittura il dubbio che l’aumento degli spread registrato dai Btp nelle ultime settimane potrebbe avere qualcosa a che fare con l’orientamento mostrato dai regolatori, che dopo le banche metteranno sotto tiro anche i titoli di stato nei portafogli delle compagnie di assicurazione.
Varrebbe la pena di valutare, prima di andare avanti su questa strada, se non stiamo creando le premesse perché il rischio oggi ipotetico del fallimento di qualche paese dell’area euro non finisca per avverarsi proprio perché potrebbe essere una progressiva esclusione di compratori dal mercato (in gennaio le istituzioni finanziarie che rispondono alla Bce avevano complessivamente in portafoglio titoli pubblici di varia natura per 1.837 miliardi), e non una crisi di finanza pubblica, a far salire gli spread fino a renderli insostenibili. Visto che la normativa dovrebbe trovare applicazione non solo nell’area euro, per capire le dimensioni della bomba è bene ricordare che il debito pubblico globale ha raggiunto quota 50 mila miliardi di dollari, un settimo dei quali rappresentati da titoli che offrono tassi negativi. Questo pernicioso progetto è tuttavia solo l’ultima delle perle del sistema regolatorio che in questi anni è stato messo in piedi. Un’altra è il discussissimo bail in, ovvero il coinvolgimento in caso di fallimento delle banche dei detentori di alcune categorie di obbligazioni e dei titolari di conti correnti per l’ammontare depositato superiore a 100 mila euro.
La regola ha una serie di effetti e richiede una accurata messa a punto tecnica, ma il primo e più grave effetto, già ampiamente visto all’opera nei primi due mesi dall’entrata in vigore della nuova normativa che prevede il bail in, è la perdita di fiducia nelle banche in generale, e ovviamente in quelle meno solide in particolare. Ora, se la materia prima con cui lavorano le banche è il denaro, la precondizione che consente loro di lavorarci è la fiducia. La fiducia dei depositanti, degli obbligazionisti e anche degli azionisti, che non dovrebbero acquistare titoli bancari perché rendono più di altri ma perché dovrebbero essere più sicuri di altri. Naturalmente i banchieri se la devono meritare questa fiducia, e gestire con professionale prudenza il denaro che viene loro affidato. Purtroppo spesso non lo hanno fatto e i primi responsabili della perdita di fiducia nelle banche sono loro. I regolatori però hanno fatto il passo successivo, istituzionalizzando con il bail in questa sfiducia rendendo le banche quello che non sono, ovvero imprese come le altre. Se l’obiettivo è avere un sistema creditizio più stabile e resiliente, allora forse è il caso, se non è già troppo tardi, di fare una riflessione più profonda prima di chiudere l’Italia e l’intera Eurozona in una gabbia sospesa a pelo d’acqua. Perché di quella gabbia né i regolatori, né i banchieri e neanche i governi democraticamente eletti avrebbero la chiave.
MARCO PANARA, Affari&Finanza – la Repubblica 29/2/2016