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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

GUIDO BARILLA: "PIÙ USA E NIENTE BORSA. IL MADE IN ITALY È LASCIATO SOLO"

NEW YORK - Guido Barilla guarda l’America dalla vetrina dell’ultimo ristorante che il colosso di Parma ha aperto a New York, in Herald Square nel cuore di Manhattan. Una vetrina digitale, che spiega ai passanti il menù aggiornato e permette di leggere i commenti dei clienti e di vedere le foto dei piatti in tempo reale. È un pezzo di made in Italy che si mette in mostra per gli Stati Uniti. "Barilla ha guardato agli Stati Uniti fin dal dopoguerra - dice il presidente della multinazionale - da qui abbiamo preso ispirazione per la nostra politica commerciale, da qui sono venuti formidabili spunti per la comunicazione e per il packaging. Tra noi e gli Usa c’è stata una storia affettiva, che continua ancora".
Presidente, la Barilla è stata anche interamente americana per un certo periodo della sua vita. Poi è tornata tricolore.
"Si, siamo stati anche americani. Venduti e poi ricomprati da mio padre Pietro nel 1979. È in quegli anni che in azienda entra una forte influenza nei metodi di gestione, che qui erano particolarmente sviluppati per quel tempo. Da allora gli Usa sono per noi una vocazione. Tanto che negli anni ’90 abbiamo deciso di diventare proprio qui un produttore di pasta. Abbiamo aperto uno stabilimento nel 1997 in Iowa, seguito dal secondo nello stato di New York, nel 2007 ad Evon. Oggi facciamo 600 milioni di dollari di fatturato, in gran parte nel settore della pasta, dove siamo leader con una quota del 30 per cento, e siamo forti anche nel settore dei sughi e delle salse ricettate ".
Andate negli Usa perché l’Italia e l’Europa sono diventati mercati piccoli per un prodotto tipico come la pasta?
"No, la scelta di andare oltre l’Italia è slegata dal mercato domestico. Noi abbiamo posizioni importanti in Europa, ma il nostro mercato è il mondo e quindi noi dobbiamo essere qui, perché questo è il mercato più importante. Ma ci guardiamo attorno in Europa e in quei paesi dove ci sono opportunità di crescita. Stiamo facendo scouting, ci sono tante aziende di grande qualità all’estero che in teoria possono interessarci, magari però qualcuna di queste non è in vendita. Ma cresciamo anche in Italia e in casa siamo molto solidi. Poi miglioriamo la nostra competitività, stiamo portando avanti una trasformazione culturale, ci stiamo avvicinando molto ai consumatori. È un passaggio importante nella nostra storia".
Il mondo però significa anche l’Asia, e in particolare la Cina: miliardi di consumatori che cominciano ad apprezzare anche il cibo occidentale. Come vi muovete su quel fronte?
"La Cina è un mercato diverso, i cinesi hanno abitudini alimentari consolidate. Abbiamo lanciato un prodotto lì, ma la strada sarà lunga e particolarmente complicata".
Avevate come obiettivo quello di raddoppiare il fatturato entro il 2020. Ce la farete?
"Il progetto ha subito un rallentamento, anche perché era in parte legato a un programma di possibili acquisizioni, che non ci sono ancora state. Aumentare il fatturato è facile se si comprano aziende. Ma devono essere aziende con cui fare sinergie e avere comunità di business e culturali. Noi facciamo sviluppo in base alle nostre capacità".
E la Borsa rimane lontana...
"La quotazione in Borsa non ci interessa, cresciamo con i nostri mezzi".
Quattro mesi fa si è chiusa l’Expo di Milano. Che bilancio può farne? "Quello economico non lo conosco. Penso però che l’Italia abbia perso una occasione importante. L’Expo non era solo una vetrina per far conoscere il prodotto italiano e ricevere capi di stato e di governo, ma nasceva con l’intento di far convergere i riflettori sull’alimentazione e far capire al mondo che il problema del cibo deve essere affrontato in tempi brevi per evitare gravi conseguenze. Di questo non siamo stati abbastanza capaci. Noi ne abbiamo parlato con una nostra iniziativa, il libro ricerca "Eating Planet", e con la Carta di Milano che abbiamo consegnato all’Onu. Tra breve la sostenibilità alimentare diventerà critica, i cittadini del pianeta dovranno dare un contributo. Guai se continueremo a fare scelte scellerate come facciamo adesso quando, assai presto, nel mondo ci saranno 10 miliardi di persone: allora il pianeta affronterà tristi situazioni. Sotto questo aspetto Expo è mancata".
Anche la difesa dei prodotti italiani dalla contraffazione sembra debole, e mentre in Europa si dibatte sul "made in" la sensazione è che ne usciremo parzialmente sconfitti.
"Sappiamo perfettamente che quasi il 50 per cento del fatturato denominato a marchio italiano all’estero è "fake italian". E di fronte a questo assalto reagiamo in tre modi sbagliati. Per prima cosa il Paese non riesce a fare sistema. I produttori italiani quando vanno all’estero ci vanno da soli, senza un paracadute che li protegga e valirizzi i prodotti tipici, a differenza di quello che fanno i francesi, tedeschi, gli spagnoli. Poi va riconosciuto che anche a casa nostra ci spariamo addosso da soli, e invece di valorizzare le molte cose belle che abbiamo ci focalizziamo sui casi in cui qualcuno sbaglia e sui casi di contraffazione. Certo, a volte ci sono delle mele marce nel settore agroalimentare, cosi come in altri comparti, ma è sbagliato accendere un deleterio ed esagerato allarmismo. Qualche tempo fa si è parlato di prosecco adulterato. Il messaggio arrivato nel mondo è che tutto il prosecco italiano è adulterato, cosa falsa. C’è una tendenza nazionale a considerare negativo tutto quello che è industria, a farci le lotte in casa, a non fare sinergia. Nel resto del mondo non è così, gli altri fanno sistema e creano forza. Prendiamo i tedeschi. La Germania esporta 60 miliardi di prodotti alimentari in valore, il doppio di quello che fa l’Italia, e la maggior parte del loro fatturato è fatto dalle carni insaccate. Le sembra possibile? Bravi loro, male noi che invece litighiamo sull’olio, sul vino, sul grano, sulla pasta. L’alimentare è un settore strategico per il Paese, bisognerebbe che cominciassimo a capirlo. Quando un paese capisce che un’industria è importante e costituisce una risorsa nazionale ne fa una bandiera e la difende".
Il governo lo sta facendo?
"Questo è il secondo modo sbagliato. Il governo ha fatto una cabina di regia sulla pasta e noi abbiamo applaudito, perché abbiamo capito che voleva rilanciare il marchio del made in Italy. Però quando vediamo che vince la disinformazione siamo perplessi. Si dice che la pasta italiana è di bassa qualità perché fatta con grano estero. Questo è assurdo, ma nessuno reagisce. Allora pensiamo che la cabina di regìa serva a dare voce a organizzazioni sindacali che hanno una visione limitata dei problemi".
E qual è il terzo modo sbagliato? "La Confindustria. La nostra associazione deve fare un profondo esame al suo interno, fare un passaggio culturale e diventare il vero fulcro per lo sviluppo organizzato del Paese, e non solo un centro che difende situazioni interne, lobby particolari o che vive di burocrazia. Di strada da fare ce n’è ancora parecchia, ci vorrebbe il coraggio di cambiare il sistema completamente. Pensi solo a questo: l’agroalimentare è un settore portante dell’Italia ma per la Confindustria non è all’ordine del giorno".
FABIO BOGO, Affari&Finanza – la Repubblica 29/2/2016