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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

NEL MONDO SCAMBI PER 30MILA MILIARDI. AMAZON OGGI CONTA PIÙ DEL BRASILE

In un mondo interconnesso anche il valore dell’economia cambia. O almeno cambia il modo in cui si misura. E nell’era della globalizzazione digitale il valore di un’economia si misura dal valore dei suoi flussi: non più solo beni e servizi ma anche dati. Perché i dati creano ricchezza. Anzi, sono ricchezza. E questa non è una buona notizia per l’Italia: se nella classifica mondiale dei flussi siamo ancora l’ottava potenza mondiale, con un valore nel 2014 di quasi 1.600 miliardi di dollari, la nostra capacità di inserirci nel mainstream degli scambi globali è molto più ridotta. Lo dice il McKinsey Global Institute. Mgi annualmente redige un report sugli scenari della globalizzazione, e in particolare sulla digitalizzazione globale, siamo al 17esimo posto quanto a "connessività": brutto neologismo per dire che oggi non basta produrre se poi non si è dentro un sistema di connessioni, di relazioni, di scambi di traffici che alimentano i flussi dell’economia globale. Vuol dire, semplificando al massimo, che produciamo troppo per noi stessi e poco per un mondo interconnesso in cui i consumatori, siano i singoli utenti o grandi imprese in cerca di beni, semilavorati e servizi, non comprano più "sotto casa" ma ovunque nell’universo mondo trovino esattamente quel che cercano e alle migliori condizioni.
Non è un caso che in cima alla classifica McKinsey ci sia Singapore, un’economia in grado di muovere flussi pari a quasi 5 volte il suo stesso pil. E subito dopo vengono l’Olanda, gli Usa, la Germania. La Cina segue la Gran Bretagna e precede la Francia, che a sua volta è solo di una posizione sopra il Belgio. Se si era in cerca di un modo di valutare l’economia diverso dal vecchio Pil, ecco una risposta: il calcolo dei flussi di McKinsey valuta una molteplicità di fattori: non più solo i beni materiali e i servizi, ma anche i dati; non più solo la finanza ma anche l’apertura delle popolazioni, la loro capacità di aprirsi a culture e esperienze diverse. Perché anche questo crea ricchezza. McKinsey ha calcolato il valore globale dei flussi "tradizionali" (ossia beni, servizi e finanza) nel 2014 in 30 mila miliardi di dollari. Lo stesso valore del 2007, l’anno prima dello scoppio della lunga recessione. Ma non sono uguali i due valori: nove anni fa la componente finanziaria valeva tra un terzo e la metà del totale. Oggi è tra un quinto e un sesto. Ma la vera differenza è che quei 30 mila miliardi nel 2007 valevano il 53% del pil mondiale: vuol dire che più della metà del pil viene da scambi tra economie diverse, internazionali, "cross border" nella definizione degli analisti di McKinsey. Oggi ne valgono appena il 39%.
Cosa sono quei 14 punti di pil mancanti? Non sono certo minori scambi internazionali. Sono i dati. Fenomeno difficile da perimetrare ma si può tentare andando per esempi. Oggi a creare ricchezza è un mondo senza confini. Nel 1990 gli scambi di beni e servizi cross border erano 5 mila miliardi di dollari, ossia i l24% del pil mondiale, nel 2014 sono stati 30 mila miliardi, ossia il 39% del pil. Nel 1990 gli arrivi turistici internazionali nel mondo sono stati 435 milioni, nel 2014 1,1 miliardi. Alla base di questo boom di scambi ci sono le tecnologie di connessione. E quale miglior misura di questo fenomeno della domanda di banda? Senza scomodare la terminologia iperbolica che denomina i volumi di byte, basta dire che la richiesta di banda dal 2005 al 2011 è cresciuta di 45 volte e di altre 10 volte si moltiplicherà di qui al 2021. Primi effetti di questa era della connessione è la creazione di grandi comunità di utenti per piattaforme.
Se considerassimo le web community come paesi, oggi Facebook con i suoi 1,6 miliardi di "abitanti" sarebbe più grande della stessa Cina. YouTube e Whatsapp sarebbero appena più "piccoli" dell’India. Instagram più grande degli Usa e Amazon più grande del Brasile. Ma attenzione a non commettere l’errore di considerare il mondo della globalizzazione digitale e dei flussi globali come un universo popolato solo da giganti e in cui non c’è posto per i piccoli. Anzi. È il contrario. Più si è connessi è più aumenta il vantaggio delle piccole imprese rispetto alle grandi multinazionali. Più la domanda di banda per il traffico dati esplode a livello globale e più i grandi impianti industriali rischiano di diventare obsoleti e si torna a produrre vicino ai grandi mercati di consumo, ossia proprio quelle economie avanzate da cui si erano delocalizzati per cercare bassi costi del lavoro nei paesi emergenti.
Perché? Ma perché se la personalizzazione è la nuova chiave di volta, il numero dei grandi prodotti seriali, quelli su cui si fanno i grandi numeri delle sinergie, diminuisce. E con le stampanti 3D diventerà progressivamente più conveniente produrre vicino ai mercati di consumo, risparmiando sulla logistica. Anzi, i social network, dopo la loro nascita ed esplosione come fenomeno di individui, si stanno affermando come reti di imprese. Su Facebook ci sono 50 milioni di imprese, 10 milioni sono su Alibaba, 2 milioni su Amazon. Se aggiungiamo altri fenomeni come eBay, Flipkart (India) e Rakuten (Giappone), ormai il 12% dei traffici mondiali avviene online. La strutture economica si sta adeguando velocemente e il 50% dei servizi commerciali mondiali è ormai già digitalizzato. Risultato? Secondo McKinsey nel 1977 le grandi multinazionali americane valevano ben l’84% del totale dell’export Usa. Oggi pesano appena il 50%. E forse sono già scese al di sotto di questa soglia. Come si scompone questo dato? Con il cambio della tipologia di beni prodotti e scambiati. Pesano meno le materie prime. Per il crollo dei loro prezzi ma anche per la discesa costante della domanda. Tra il 2011 e il 2014 si sono scambiati a livello mondiale 72 miliardi di dollari in meno di chimica, 16 in meno di carta, 10 in meno di fertilizzanti e di tessuti, 8 in meno di acciaio. Crescono di converso gli scambi di componenti ad alto valore aggiunto: parti di aerei o di veicoli, di terminali elettronici, prodotti farmaceutici. Ma in generale il peso dello scambio di prodotti e beni in termini di quota di pil è sceso rispetto ai massimi raggiunti pre 2008. E parimenti sono scesi, anzi crollati, sempre in termini di punti di pil, i prodotti finanziari: gli acquisti cross border di azioni e bond, di prestiti e anche gli investimenti diretti hanno dimezzato il loro valore complessivo, dagli 11.900 miliardi di dollari del 2007 ai 5.200 del 2014. E ancora di più sono crollati in quota al pil mondiale: dal 20,7% al 6,8%. Un crollo che interrompe una crescita ininterrotta di 25 anni, visto che nel1980 questi flussi valevano appena 500 miliardi di dollari. Appena meglio è andato al comparto dei servizi, che vale "solo" 5 mila miliardi di dollari. E che ha continuato la sua crescita, lenta ma costante, che lo caratterizza dagli anni Ottanta. Ma ha potuto continuare a crescere perché la digitalizzazione di molti servizi ne ha consentito una nuova geografia più distribuita: i mercati emergenti, dall’India alle Filippine, dal Costa Rica al Sud Africa hanno beneficiato della possibilità di offrire servizi digitali, dai call center ai supporti tecnologici più sofisticati su un mercato globale. E lo stesso processo di ridistribuzione è avvenuto anche nelle imprese.
L’e-commerce e la connettività danno come risultato che anche la più piccola impresa artigianale abbia una vetrina grande come tutto il mondo. Gli effetti si vedranno sempre più nei prossimi anni: stima Mc-Kinsey che di qui al 2020 il numero globale di utenti che comprano online sul mercato domestico resterò stabile, attorno agli 1,2 miliardi, mentre quello di quanti faranno acquisti su siti esteri triplicheranno, dai 300 milioni di oggi a un miliardo. E parimenti il valore dello shopping online crescerà soprattutto nella sua componente estera, che si quintuplicherà. Merito della crescente "connessività" delle persone: e qui peseranno sempre di più formazione, scolarità, qualità dei prodotti culturali a cui ogni paese darà accesso ai suoi "utenti". La vita di tutti noi sarà sempre più "cross border". Tra i grandi numeri macinati dagli analisti del Mc-Kinsey Global Institute, ci sono anche questi: oggi su Facebook il 50% degli utenti iscrititi ha almeno un amico "internazionale" e questa media è ben più alta nei paesi emergenti. L’86% delle startup ha almeno una attività crosso border. E se il fatto che 400 milioni di persone abbiano messo il proprio curriculum vitae su LinkedIn oggi non fa forse più grosso effetto, ben più meraviglia invece il fatto che ci siano oggi nel mondo 44 milioni di lavoratori free lance che hanno un rapporto di lavoro online e cross border, grazie anche a siti come Freelancer. com. Dentro c’è di tutto. Certo, un idraulico è meglio trovarlo vicino casa. Ma un traduttore, un verificatore di processo, un softwarista, o magari anche un avvocato esperto di diritto commerciale di un paese con cui si vuole stabilire un’attività, ormai lo si cerca e lo si trova online. E se la quota di pmi italiane che fanno e-commerce è ancora ben sotto al 10%, allora non si potrà più dire che non si sa quale sia il problema dell’economia italiana che cresce solo dello zero-virgola.
STEFANO CARLI, Affari&Finanza – la Repubblica 29/2/2016