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 2016  febbraio 28 Domenica calendario

HO VISTO GIALLE FORMICHE GIGANTI


[Fabrizio De André]

Un ritrovamento prezioso, tra le carte di un archivio disordinato: mi conferma quanto occuparsi di musica per passione sia stato un privilegio e una fortuna. Un onore doppio pensando ai rapporti umani stabiliti con personaggi ascoltati, letti, visti in concerto o sulle copertine di un disco consumato a furia di ascolti. Avere avuto questa possibilità con un artista come Fabrizio De André, che negli anni mi regalò a più riprese dimostrazioni di stima e amicizia, resta uno dei cardini di una vocazione e di un amore per la musica poi diventati un lavoro. La storia di questa intervista risulta, una trentina d’anni dopo, semplice quanto straordinaria. E testimonia di una generosità, di un candore, di una trasparenza che non sono forse le doti ascritte più di frequente a un poeta e protagonista della nostra cultura. Siamo nei primi mesi del 1985, la carriera di Faber è già stata abbondantemente contrappuntata da capolavori (era uscito da poco il superbo Crêuza de mä). Fabrizio, per un naturale riserbo, per una lucida ritrosia nei confronti del luna-park, rimase sempre guardingo e cauto rispetto all’impasto di informazione-spettacolo. Credo che le sue interviste si contassero, soprattutto all’epoca, in pochi esemplari. Tanto è vero che a me, giovane alle prime armi, ne concesse una, a patto di poter rispondere per iscritto, dopo avermi conosciuto e capito le ragioni che mi animavano: una modalità assolutamente fuori dalle regole, andata in porto lungo una decina di fogli riempiti fitti a matita, tra cancellature, ripensamenti e una pazienza, una disponibilità sorprendenti. Quel pomeriggio, nella casa milanese dei genitori di Dori Ghezzi in cui abitavano, parlammo a lungo: io sparuto e stupefatto, davanti a uno dei miei beniamini, panorama il cavalcavia Serra, ma soprattutto l’amato Brassens, l’anarchia, la Sardegna, i dubbi e le paure del palcoscenico. Poi gli lasciai dieci delle mille domande che avrei voluto fargli. Di quelle risposte uscì qualche virgolettato sparso nei mesi successivi; la genuinità e la veracità del testo completo finirono in un cassetto. Da dove è saltato fuori.


1) Quali sono gli elementi che distinguono la canzone d’autore dalla musica leggera e quando si può correttamente considerare la prima come un prodotto letterario?
«Penso che il confine sia difficilmente definibile da un punto di vista strettamente oggettivo: è solo soggettivamente che può essere fatta una tale distinzione, cioè solo dall’analisi della diversa qualità espressiva che viene soggettivamente fornita dai diversi autori e soggettivamente recepita dall’ascoltatore. È un po’ come dire che non esistono in astratto una canzone maggiore e una canzone minore, esistono semmai canzonettari maggiori o minori; quanto poi una canzone, se pur scritta da un artista chiamiamolo “maggiore”, possa avere in sé elementi che possano farla assurgere a dignità letteraria, questo è un problema la cui soluzione preferisco lasciare ai critici che dovrebbero in ogni caso tenere presente come le canzoni meglio riuscite siano solitamente quelle che riescono a creare un sostanziale equilibrio tra i suggerimenti mnemonici ed emozionali della cultura classica e quelli della cultura popolare; credo che proprio in questo compromesso stiano in fondo il senso e la funzione della forma espressiva chiamata “canzone”».
2) Quali sono gli autori del nostro secolo che più hai amato e sentito negli ultimi anni di carriera e perché? (Andando per gradi, nel cinema, nella letteratura, nella musica e ovunque tu abbia indagato per lavoro e per passione).
«Per quanto riguarda il cinema direi Jodorowsky, per la capacità qualitativa e quantitativa di sintetizzare emozioni al di fuori delle lungaggini retoriche. Per la letteratura faccio volentieri i nomi di Leonardo Sciascia e dell’ultimo Umberto Eco che amo ritenere gli epigoni moderni di Stendhal; forse dico Sciascia ed Eco perché essendo io un romantico passionale e confusionario trovo un mio completamento nella loro creatività razionale e non moralistica.
«Per quanto concerne la musica poi, non ho da proporre autori ma da segnalare la musica etnica in genere e in particolare quella sarda che si esprime attraverso una vocalità anche policroma, ma autonoma, indipendente da qualsiasi strumento musicale che, in quanto meccanismo, congegno, è destinato sempre a contaminare artificiosamente il suono naturale della voce».
3) Qual è, secondo te, l’età d’oro per un cantautore, quella di maggiore e migliore prolificità (il tuo caso personale e uno sguardo su quello dei colleghi)? Credi che entrando nell’età adulta per un cantautore ci sia il rischio della perdita di credibilità da parte del pubblico? O è il contrario?
«È quella in cui riesci più facilmente a operare delle sintesi chiare e suggestive dall’affollamento che ti occupa il pensiero; l’età migliore è sicuramente quella giovanile, diciamo, per quanto mi riguarda, tra i diciotto e i trent’anni, laddove il cervello opera in maniera naturale quella selezione di termini appropriati, che fanno della sintesi stessa una sorta di intuizione; questo non vuol dire che questa capacità intuitiva non debba avercela un individuo di ottant’anni o che il fatto di non averla più non possa essere ovviato dall’acquisizione di una capacità tecnica che riesce a rendere ugualmente accettabile la tua forma espressiva, ma nel primo caso siamo quasi al fenomeno da baraccone e nel secondo alla impostazione professionale del “produrre poesia”, cioè al mestiere.
«Detto questo lascio a te decidere se sia più credibile un giovane “cantautore” di un anziano “cantastorie” e non a caso ho fatto una distinzione di termini perché laddove il giovane può incantarti per il suo slancio creativo e per la sua naturale disposizione alla sintesi, l’autore maturo ha per contro una maggiore ancorché necessaria tendenza all’analisi che lo porta, nella migliore delle ipotesi, al racconto più che non alla poesia e quindi, forse, allo svolgimento di un’opera per così dire di maggiore valore pedagogico».
4) Quanto deve essere vero, genuino e vissuto quello che un cantautore scrive e racconta nelle sue canzoni? Quanta parte di autobiografia e quanta di immaginazione c’è nella tua opera?
«Tutto dipende da quale valore e soprattutto da quale differenza si vuol fare tra l’immaginario e il vissuto; per quanto mi riguarda ciò che immagino lo vivo anche perché molte volte mi sono trovato nella condizione di immaginare sincronisticamente le esperienze vissute; faccio un esempio di comodo: dalla mia finestra mi capita ogni tanto (direi ogni molto) di vedere il Resegone e una volta ho visto scendere dal Resegone lunghe schiere di formiconi gialli (forse un effetto dei riflessi del sole): ora, il Resegone esiste, le formiche anche, il problema è che probabilmente le formiche così grandi come le ho viste io non esistono, non credo che possano scendere in frotte dal Resegone e soprattutto è difficile che siano gialle: di contro però non si può dimostrare il contrario e allora quando parliamo di immaginario, di fantastico, in effetti parliamo di possibile e il possibile si basa sempre su un dato reale, su qualcosa di vissuto, di visto: e chi mi dice, d’altra parte, che i formiconi da me visti o se preferisci immaginati non fossero altro che una mia svisatura, un’allegoria delle truppe di Annibale, che scesero in Italia dal Monginevro o dal Moncenisio (altro dato reale)? In conclusione se il confine tra reale e fantastico è già in effetti piuttosto labile, tanto più lo è in poesia dove il fantastico può diventare simbolo del reale».
5) In Italia non è quasi mai esistita una vera e propria scuola di corretta traduzione di canzoni dal francese o dall’inglese in italiano? Che senso ha avuto per te che pure scrivevi molti brani ex novo, tradurre Brassens, Dylan, Cohen e musicare Edgar Lee Master?
«È stato un divertente esercizio letterario, un interrogarmi sulle mie capacità di traduttore (in proposito Benedetto Croce affermava che esistono due tipi di traduzione: quelle brutte e fedeli e quelle belle e infedeli) e spero un utile lavoro di divulgazione di culture diverse dalla nostra».
6) Ci sono altri scrittori con cui ti piacerebbe ripetere l’operazione?
«Sì, con le parti in latino del Nome della rosa di Eco: mi sia concessa la battuta».
7) Rispetto agli anni Sessanta, dai Settanta in poi la forma musicale e il contributo sonoro nei tuoi dischi è aumentato sensibilmente. Che tipo di nuova esigenza ti è nata per cercare i supporti del rock della PFM o dell’ispirazione etnica di Mauro Pagani?
«La prima operazione, cioè il vestito rock fatto indossare alle mie prime canzoni, mi è stato suggerito soprattutto dalla curiosità di capire se il Pescatore o Bocca di Rosa potevano portare anche la minigonna o se invece avevano le gambe irrimediabilmente storte. L’accostamento alla musica etnica è invece nato dalla naturale esigenza di un uomo maturo di tornare per così dire alle sue origini, al suo passato; da un punto di vista musicale ai suoni crudi della tradizione popolare, le corde e le percussioni, della sagra del pesce di Camogli, la chitarra classica del mio maestro cubano: dal punto di vista linguistico il ritorno all’idioma della mia infanzia».
8) I modelli culturali, i segnali e anche le ispirazioni sono molto cambiati dalla tua generazione a quella di tuo figlio: eppure Cristiano è avviato a fare lo stesso lavoro. Con quale spirito un figlio d’arte può riuscire bene senza imitare o rinnegare il padre e quanta dose di orgoglio c’è in te?
«Ci può riuscire semplicemente coltivando la propria personalità e quindi perfezionando uno stile che è più completamente suo: d’altra parte Cristiano è un musicista sicuramente più capace di me e il suo rispetto nei miei confronti si fonda essenzialmente sul riconoscimento da parte sua della validità dei miei testi. Per quanto riguarda l’orgoglio di padre, come si definisce la soddisfazione di chi vede il prolungamento del proprio ego affermarsi nella vita, ebbene non lo vivo in quanto mio figlio faccia il musicista e ci riesca in maniera egregia, quanto piuttosto per il fatto che Cristiano, seppure ostacolato da diverse persone tra cui io stesso, sia riuscito esclusivamente grazie alla sua volontà e ai suoi meriti, a trovarsi un’attività consona al proprio desiderio di autoidentificarsi, in una società dove mi pare che alla maggior parte dei giovani questa chance sia preclusa».
9) Credi che l’avvento disordinato e massiccio dell’elettronica e quello molto simile dei video abbia aiutato o abbia provocato dei guasti nell’approccio e nel consumo musicale in Italia?
«Sicuramente lo ha aiutato nell’approccio anche se per quanto riguarda il consumo ha provocato, soprattutto all’inizio, qualche disorientamento. Dico che ha aiutato perché ha messo sempre di più i “produttori” di musica nelle condizioni di essere messi a confronto e quindi di migliorare necessariamente quanto meno il lato tecnico della loro produzione: il risultato fino a oggi conseguito consiste in una selezione piuttosto severa da parte dell’ascoltatore che non si accontenta più del suono rabberciato, della ritmica imprecisa: da adesso in poi è auspicabile che il famigerato consumatore ormai padrone della capacità di operare una distinzione di valore di ordine tecnico, arrivi quanto prima a operare una scelta altrettanto cosciente basata sulla qualità artistica del prodotto discografico: schiarite da questo punto di vista se ne vedono già quando si nota salire vertiginosamente nell’indice di gradimento di ascolto un brano come The Power of Love dei Frankie Goes To Hollywood, dove realizzazione tecnica e forza espressiva si concretizzano in una osmosi da brivido».
10) Un tuo brano (quale?) è stato inserito in un’antologia per la scuola media. Credi che, adottato regolarmente, sarebbe un buon sistema per introdurre la canzone nelle scuole, per interessare più da vicino gli studenti, in luogo di autori lontani e anacronistici come quelli previsti dai programmi ministeriali? E nel contempo è una grossa conquista che i media non censurino più le canzoni (era una gran vergogna quando questo succedeva con te)?
«È il modo in cui alcuni miei brani sono stato inseriti nelle antologie scolastiche che non mi sta bene. I versi di una canzone come La guerra di Piero se letti senza musica danno un po’ l’idea di una menosissima filastrocca e questo perché sono nati come versi per una canzone che è un’arte composita: che senso farebbe togliere tutte le tessere di vetro di colore azzurro da una finestra bizantina? Mi sta benissimo che la canzone venga inserita nei programmi di studio, ma in quanto canzone, e non mutilata di una delle sue strutture portanti: a questo punto mi domando che cosa ci stiano a fare i dischi.
«Il problema della censura poi è strettamente legato a quello politico e se stiamo attraversando un momento decisamente felice da questo punto di vista, potremmo in futuro ancora vederne delle belle e ascoltarne soltanto delle brutte».