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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

TEMPI MODERNI


John Travolta, in “Grease”, ci portava una giovanissima Olivia Newton-John nella speranza di riuscire, davanti allo schermo, a pomiciare con lei. Il professor Humbert Humbert, in “Lolita” di Stanley Kubrick, al drive-in andava invece con madre e figlia: seduto in mezzo, tra la signora Charlotte e la divina ninfetta che accendeva il fuoco dei suoi lombi, invece di guardare le immagini di “La maschera di Frankenstein”, lasciava che Lolita gli appoggiasse la mano sulla gamba, per poi mettere la sua mano su quella di Lolita, senza sapere che anche la madre avrebbe aggiunto la sua destra a quella abnorme ammucchiata di dita. In “Ritorno al futuro 3” è da un malmesso drive-in anni 80 che Doc lancia la DeLorean di Marty McFly verso il vecchio West del 1885, mentre in “Twister” un tornado violentissimo distrugge un cinema all’aperto che sta proiettando le immagini di un furioso Jack Nicholson intento a fare a pezzi l’Overlook Hotel in “Shining”. Perfino Aldo, Giovanni e Giacomo, quando vogliono omaggiare la tradizione del noir americano, ambientano in un drive-in di Coney Island (dove scorrono le sequenze di “Vertigo” di Alfred Hitchcock...) una delle scene più riuscite di “La leggenda di Al, John e Jack”. Quasi a dire che il drive-in non è un luogo come un altro. È un’icona pop del paesaggio americano: un tempio laico, con lo schermo al posto dell’altare, gli spettatori invece dei fedeli e le auto al posto di banchi e sedili.
Solo gli americani potevano inventare una diavoleria come il drive-in: perché nessun altro popolo vede nell’automobile una vera e propria house mobile come fanno loro. E perché nessun altro Paese può disporre di terreni a basso valore immobiliare da adibire a cinema all’aperto come ne ha (ne aveva?) l’America.
Il primo drive-in aprì – dicono gli storici – a Camden, nel New Jersey, nel giugno del 1933. A inventarlo fu un rivenditore di ricambi che si chiamava Richard Milton Hollingshead. La madre del commerciante era una donna decisamente sovrappeso, appassionata di cinema, ma troppo corpulenta per accomodarsi nelle eleganti poltroncine dei teatri in cui allora si proiettavano i film. Per ovviare al problema, e consentire alla signora di continuare a nutrire la sua attività di cinefila, Richard pensò bene di farla sedere nell’auto di famiglia, d’inchiodare un lenzuolo fra due alberi del giardino, di collocare la macchina davanti al telo e di proiettarvi un film. Per la sua famiglia, ma anche per i vicini di casa che abitavano nel medesimo viale. Il gradimento fu evidente, il successo immediato. Per qualche mese, Richard si applicò a risolvere i problemi tecnici connessi con il nuovo dispositivo (come migliorare la qualità visiva, come far arrivare l’audio a tutte le auto presenti, come collocarle in modo che nessuno si sentisse penalizzato da una posizione svantaggiata), poi brevettò l’idea e, il 6 giugno 1933, inaugurò il suo drive-in. Lo slogan di lancio era: «L’intera famiglia è benvenuta, non importa quanto i bambini sono numerosi». La sera della prima Hollingshead proiettò “Two White Arms”, una commedia inglese con Adolphe Menjou e Jane Baxter, annunciata con un titolo diverso, “Wiwes Beware”, per non irritare le major e non entrare in concorrenza con i proprietari e i gestori di sale tradizionali al chiuso. Il biglietto costava 25 cent a persona, più 25 per l’automobile, e fu subito soldout.
A “guardare le stelle sotto le stelle” erano accorse non soltanto famiglie con bambini numerosi e rumorosi, ma anche coppiette vogliose di scambiarsi tenere effusioni nell’abitacolo protettivo dell’automobile e gruppi di giovani in cerca di bravate, pronti a sedersi sul cofano della macchina invece che sui sedili, tra le proteste di chi aveva posteggiato dietro.

IL CINEMA IN VERSIONE CASUAL
Ma il drive-in nasce proprio per questo: alla formalità un po’ cerimoniosa e disciplinata della sala teatrale, contrappone l’informalità assoluta della fruizione all’aperto, sotto le stelle e con fiumi di pop corn in libertà. Non solo: il drive-in garantisce una visione al contempo corale (siamo in tanti) e intima (ognuno nella propria auto), e offre l’impagabile sensazione di essere simultaneamente insieme e soli. All’inizio la diffusione non è velocissima (negli anni 40 negli States se ne contano a malapena un centinaio), ma negli anni 50 c’è una vera e propria esplosione. Non sono necessari grandi investimenti, per aprirne uno: non serve costruire un edificio in muratura, bastano un terreno, un po’ di cemento, uno schermo, un altoparlante per ogni posto auto e un banchetto per la vendita, appunto, di bevande e stuzzichini. Il risultato è che nel 1956 si arriva a più di 4.000 drive-in che, secondo alcune stime, vendono più di un quarto dei biglietti totali. Il business però non viene tanto dai biglietti, quanto proprio dall’invenzione del trinomio cinema-bibita con bollicine-pop corn: nelle eleganti sale tradizionali non era consentito entrare con cibo unto da mangiare con le mani, lo si fa per la prima volta nei drive-in, dove si crea una consuetudine destinata a propagarsi successivamente anche alle strutture tradizionali. Attorno al drive-in nasce un rito e fioriscono comunità di fan: ci vanno i ragazzi degli anni 50, bramosi di guidare le loro auto sportive fin dentro l’arena del cinema come fin dentro un ristorante, come fanno gli inseparabili amici di “American Graffiti”, che si trovano al tramonto dal Mel’s.

SUGGESTIONI LETTERARIE
Al drive-in lo schermo è gigantesco, ti sovrasta, ti fa sognare. Ma non sei obbligato a star fermo e a guardare. Puoi anche muoverti, spostarti, fare altre cose. Non a caso, un grande scrittore come John Lansdale, con la trilogia intitolata proprio “Il drive-in”, ha fatto dell’Orbit, un cinema del Texas dove si proiettano film splatter e si vendono pop corn innaffiati con una salsa rossa che sembra sangue, una grande metafora dell’America, delle sue paure, dei suoi sogni e dei suoi fantasmi.
La crisi per questi cinema open air inizia a partire dagli anni 80, quando molti proprietari dei terreni cominciano a vendere le aree per destinarle ad attività commerciali più remunerative. All’inizio del nuovo millennio, poi, il passaggio al digitale provoca un’ulteriore moria, fino alla parziale inversione di tendenza degli ultimi anni, quando il gusto del revival e la passione per il vintage portano alla riapertura di alcuni storici drive-in, sia negli States sia in Italia.
Lo scorso settembre, per esempio, ha riaperto quello di Casal Palocco, vicino a Roma, il più grande d’Europa. Inaugurato nel 1957, aveva chiuso a metà degli anni 80. Ora il terreno è stato bonificato da un’associazione di ragazzi che, grazie a sponsor privati, hanno riacceso il grande schermo di 540 metri quadrati. I primi due film proiettati sono stati, non a caso, “Grease” e “American Graffiti”. Quando si dice, appunto, la nostalgia.