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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

E SE IN BORSA LA FERRARI FOSSE UN’IBRIDA?


Mettiamola così: sui mercati azionari la Ferrari è come LaFerrari. Cioè un’ibrida. Esclusiva e potentissima, ma che sulle Borse resta a metà strada tra un bene di lusso e un’auto con quattro ruote, sia pure leggendaria. Così si spiegherebbe, almeno in parte, il percorso contromano del Cavallino, in arte Race, tanto a Wall Street quanto a Piazza Affari. Poco prima del dual listing (il 21 ottobre 2015 al Nyse e il 4 gennaio scorso sulla Borsa Italiana) c’era la diffusa convinzione tra società, collocatori, analisti, investitori e giornalisti (compreso il sottoscritto: vedere Quattroruote n° 720 di settembre) che la Ferrari dovesse essere quotata come un luxury brand e non come un titolo del comparto automotive. Cosa che peraltro è avvenuta: «Non si era mai visto un costruttore di macchine approdare in Borsa con una valutazione di 30 volte gli utili netti, quasi tre volte la media del settore», nota Salvatore Gaziano di SoldiExpert Scf, uno dei consulenti finanziari più accreditati. Da lì in poi le cose sono però andate a marcia indietro e senza l’effetto-Soros (il finanziere ungherese naturalizzato americano ha acquistato 850 mila azioni, lo 0,45% del capitale) i titoli sarebbero in testacoda. Il 17 febbraio la Casa di Maranello ha riguadagnato in un colpo solo il 10,38% a Piazza Affari e il 9,68% a Wall Street, riducendo al 19,9% e al 34,7% la rispettiva perdita nei confronti dell’esordio. Un trend definito «inspiegabile» dal presidente della Ferrari, Sergio Marchionne. In realtà, un mix di spiegazioni ci sarebbe: l’estrema debolezza delle piazze azionarie, i timori per uno stop della ripresa economica, il Pil fiacco della Cina e, più nello specifico, una trimestrale (la prima dopo la quotazione) che ha storto la bocca agli analisti a causa della crescita del debito, del dividendo più basso delle attese e di previsioni finanziarie e industriali per il 2016 giudicate troppo conservative. A tutto questo si potrebbe aggiungere che Race è certamente un titolo “mitologico” da tenere in portafoglio, ma che (per ora) stenta nella percezione del mercato a immedesimarsi tout court con i marchi del lusso. E soprattutto con la loro relativa indipendenza dalle variabili macroeconomiche. Del resto, quelle del Cavallino sono azioni sui generis, non comparabili. Secondo un’accurata analisi di Mediobanca Securities, per ora la Ferrari sta operando come un semplice costruttore di auto. Alzare i prezzi ogni anno, come fanno i produttori di beni di lusso, consentirebbe al brand di diventare ancora più esclusivo, senza bisogno di rischiosi incrementi dei volumi per mantenere lo stesso ebitda, con benefici per l’usato e una ancor maggiore fidelizzazione dei clienti top. In più, Maranello è l’unico luxury brand cui non servono investimenti nella distribuzione retail per aumentare le vendite. Insomma, di potenziale inespresso ce n’è parecchio per emulare in Borsa i vari Hermès, Lvmh eccetera. Sarà per questo che il vice president FCA per le investor relations ha francesizzato in conference call il nome del suo ceo: Sergio Marshion?
Fabio De Rossi