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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

«UNA SERA, VOILÀ: PRENDO A BOTTIGLIATE LA “CONCHIGLIA”. RIDEVANO TUTTI. ANCHE VELTRONI. E TAFAZZI DIVENTÒ IL SIMBOLO DELLA SINISTRA»

[Aldo, Giovanni e Giacomo raccontano i loro primi 25 anni di carriera] –
«Avevo una gamba rotta e ingessata, mi portarono dentro con la carrozzina, poi i due bastardi mi misero su un fianco e s’inventarono, con la ruota della carrozzina, la ruota della fortuna», ride Giacomo, «ti pare che non mi ricordi la prima serata insieme, noi tre, su un palco?». «Eravamo al Caffè teatro di Verghera di Samarate, un posto aperto da un nostro amico nel 1985 che ha visto passare tutti, ma proprio tutti, da Luciana Littizzetto a Paolo Rossi, da Claudio Bisio ad Antonio Albanese o Natalino Balasso», conferma Giovanni, «mettevamo in palio tutte le sere, con quella lotteria speciale sulla carrozzina, Giacomo ingrugnito e una cartolina tra i raggi (ta-ta-ta-ta-ta), la macchina di Aldo. Solo che poi non la voleva nessuno, così potevamo sorteggiarla di nuovo la sera dopo. Era una vecchissima Opel Ascona diesel color vomito che doveva essere stata rubata agli zingari». Giacomo: «Una volta, in un autogrill, trovammo un’enorme pantera adesiva e gliela appiccicammo su. Tocco di classe. Aveva cinque marce e piano piano perse la quinta, poi la quarta, poi la terza, poi la seconda...». «Arrivai dal concessionario Citroën per prendere una macchina nuova in prima, ché ormai solo quella marcia era rimasta. È morta lì, davanti a concessionario. Quello mi fa: “La rimuove, per favore?”. Gli dico: “Scusi, non sono in grado di farla ripartire, se ci riesce lei...”».
«Guarda questa targa», dice Giacomo, e tira fuori una foto sul cellulare, «me l’hanno appena mandata, è stata scattata al Sacro Monte di Varese: “Da qui inizia la storia di Aldo, Giovanni e Giacomo... In questo posto, Castiglioni Maurizio del Caffè teatro di Verghera chiese ad Aldo, Giovanni e Giacomo di diventare trio... Il resto della storia la conoscete...”». «Castiglioni Maurizio, era un noto trafficante di cabarettisti», aggiunge Giovanni, «in realtà qualcosina insieme avevamo già fatto. Come il Tg delle vacanze di Zuzzurro e Gaspare. Eravamo in Sardegna, a Forte Cappellini, e facevamo uno sketch facendo finta d’essere in Sicilia con Aldo, il “professor Cataldo” che traduceva in siculo. Era lì anche Giacomo e per le ultime due puntate tirammo dentro anche lui».

Lacrime in discoteca. Giacomo: «Lavoravo allora con Marina Massironi. Ci chiamavamo “Hansel & Strüdel”. Certe serate, in discoteca! Musica sparata, la gente che si scatenava, poi a un certo punto: “Stop! Pausa! Un po’ di cabaret”. Ma quelli avevano voglia di ballare. Ringhiavano: “Viaaa! Viaaa”. Ricordo una sera Marina in lacrime: “Io non esco”. E il padrone: “Dentro, dentro!” Alla fine ogni occasione era buona per non pagarti».
L’esordio vero però, quello festeggiato quest’anno con le Nozze d’argento dopo sette opere teatrali, undici film tra cui alcuni dagli incassi stratosferici come Chiedimi se sono felice che con oltre 28 milioni di euro è nella top ten di tutti i tempi, un’infinità di personaggi creati per centinaia di passaggi televisivi e perfino un videogioco (Zero comico, dove i tre omini devono combattere e distruggere il feroce dittatore Pdor), resta tuttavia quello al Caffè di Verghera. Giacomo: «La domenica, lì, non ci andava nessuno, così il Castiglioni ci fa: “Voi vi tenete i soldi del biglietto, cinquemila lire, io quelli delle consumazioni”. Solo che decidemmo di fare le cose in grande, aggregando la Marina e due musicisti. E che musicisti!». Aldo: «Alla fine gli unici che venivano pagati erano loro. Noi sempre in perdita». Giacomo: «Andavamo lì tutte le domeniche alle cinque, inventavamo qualcosa, provavamo un po’ e dopo cena attaccavamo. Abbiamo capito che funzionava una sera che arrivò un gruppo di ragazzi vestiti come noi. Con le pelliccette leopardate». Pelliccette leopardate? «Avevamo delle giacche nere con inserti leopardati che ci avevano cucito le nostre mamme sul collo o sui polsini». «Non ci pozzo credere!», direbbe Aldo. Giacomo: «Giuro. Abbiamo una foto. Facevamo dei numeri che poi abbiamo portato allo Zelig e a Su la testa di Paolo Rossi».

Scherzi sì, soldi no. Si chiamavano allora “Galline vecchie fan buon Brothers”. «Un nome imbarazzante», ride Giovanni, «difatti ci chiamavano galline vecchie». Giacomo: «Avevamo un manifesto: Aldo “Dexter” Baglio, Giovanni “Esagerato” Storti & Giacomo “Sugar” Poretti». Giovanni: «Giocavamo sui nomi. Già le presentazioni erano uno show e duravano dieci minuti». Aldo: «Facevamo delle cose anche un po’ violente. Una sera venne a trovarci Raul Cremona, che aveva cominciato a fare il Mago Oronzo che lo avrebbe reso famoso a Mai dire gol e lo legammo con le manette a un palo sul palco lasciandolo in mutande mentre sua moglie cercava di tirargli su le braghe. Indimenticabile. Un’altra volta abbiamo fatto la corsa delle bighe di Ben Hur rischiando di far crollare tutto. Eravamo un po’ matti».
Giovanni: «Facevamo scherzi anche agli spettatori. Avevamo trovato quelle bottiglie di zucchero che si usano al cinema, ci mettevamo al banco come normali avventori e cominciavamo a litigare su chi doveva pagare. A un certo punto prendevamo quelle bottiglie e ce le spaccavano in testa. La gente scappava via terrorizzata e noi a inseguire: era uno scherzo!».
Soldi veri, zero. Giovanni: «I primi soldini li abbiamo visti io e Aldo facendo i figuranti alla Scala. Cercavano mimi, pagavano dieci repliche anche tre milioni di lire. Erano soldi, allora». Aldo: «Se eri giovane e di poche pretese, come me, con due spettacoli di dieci repliche ti salvavi l’anno». Giovanni: «E poi era bello vedere le macchine sceniche. Anche se ho rischiato la pelle. Una sera, per La tempesta, mi mandarono in cima al pennone della nave. Bellissimo. Con le lenzuola azzurre sotto che ondeggiavano. Pareva davvero un mare. A un certo punto il pennone si spezzò e venni giù. Lo aggiustarono e lo tenevano in quattro: si spezzò ancora. Shakespeare o non Shakespeare, dissi, io là in cima non ci vo più. Se volete, a metà». Aldo: «Rischiammo, come gruppo, di non nascere mai».
Giovanni, milanese di Porta Romana, è figlio di un tipografo, Roberto Storti, del Corriere della Sera. Rotative. Mamma Onorina, casalinga. «Sono cresciuto all’oratorio Sant’Andrea, dove ho conosciuto Aldo. Giocavamo insieme. Calcio, ping pong... Anche se allora non eravamo amici. Ci saremmo ritrovati più avanti. Suonavo la tromba, volevo fare il musicista. Poi ho studiato ginnastica artistica e acrobatica che mi sarebbero state utili a trovare il primo lavoro: docente di “acrobatica teatrale” per dieci anni alla scuola d’arte drammatica Pietro Grassi. Provai anche l’università a economia e commercio e agraria ma...». Aldo: «Diciamo che non ha fatto un cazzo in tutta la vita e doveva inventarsi qualcosa da dire ai genitori». Giacomo: «Digli quante ore facevi la settimana, di insegnamento a scuola!». «Otto ore». «E lo chiama lavoro! Un’ora al giorno. Lo chiama lavoro!» Aldo: «In pratica è riuscito a fare quel che fanno i politici: zero».

In siciliano con accento bolognese. Lui sì, Aldo, ha lavorato. «Mio papà Giuseppe è di San Cataldo, vicino a Caltanissetta, mia mamma Calcedonia (per fortuna l’han sempre chiamata Maria) di Palermo». Giovanni: «Terùn, terùn, terùn». «In realtà, sono venuto a Milano a tre anni e ho sempre vissuto qui». Mestiere del papà? «Ha fatto di tutto, per campare. Anche le rapine a mano armata...» Giacomo: «Ma non è vero! Raccontala giusta!» «Di tutto. Il postino, l’autista, l’operaio ai panettoni Motta, il venditore di bibite nei cinema o allo stadio... Si è ammazzato in mille lavori e lavoretti per essere più libero possibile». Giacomo: «Diciamo che fu anche un Uber ante litteram...». Cioè? Aldo: «Magari per arrotondare andava alla stazione a raccogliere passeggeri come un taxista di straforo... Mia madre invece faceva la badante e girava a fare punture. Ho cambiato un sacco di case: via Bernardino Coiro, poi Cinisello, poi via Trebbia, via Morandi, via Crema, via Di Vittorio, via Passobuole... Ma gira gira siamo sempre tornati a Porta Romana. Dove ho fatto l’asilo e le elementari. Difatti ho sempre parlato in milanese». Salvo che a teatro o al cinema. «All’inizio, a dirla tutta, mi facevano parlar bolognese con l’“essce” strascicata. Il siciliano me l’hanno imposto dopo. Non lo sapevo, il siciliano. Solo poche parole che usavano i miei cugini, ma era una lingua incomprensibile».
Primo lavoro? «Finite le medie, in un’officina metalmeccanica. Facevamo marmitte. Io verniciavo. Difatti me ne sono andato per quello. Avevo la vernice nelle narici. Da lì sono andato in un altro posto dove facevamo quadri elettrici. Poi mi hanno preso alla Sip, dopo sei mesi di scuola a Torino». Giovanni: «Dove io facevo il militare e suonavo la tromba nella banda. Rientrati a Milano abbiamo fatto insieme la Scuola Teatro Arsenale tenuta dal giapponese Kuniaki Ida e dall’italiana Marina Spreafico, tutti e due diplomati a Parigi alla École Internationale de Théâtre di Jacques Lecoq. Straordinari. Molta improvvisazione, molto uso del corpo...». Aldo: «Non è che avessimo deciso di far gli attori ma ci divertivamo. Facevamo un numero, io e Giovanni, che si chiamava I cavalieri». Giovanni: «Era la storia di due cavalieri della Tavola rotonda, molto maschi, che alla fine di uno scontro durissimo si davano un bacio». Giacomo: «Kuniaki Ida, che ho avuto come insegnante un anno dopo di loro, era un genio. A un certo punto ti metteva una maschera impersonale e tu dovevi comunicare senza parole e senza espressioni della faccia. Fantastico». Aldo: «Venivamo dalla parrocchia, l’Arsenale non era solo una scuola di teatro ma un mondo che si spalancava davanti a noi. Comprese le prime ragazze...».

Un nome da parrucchieri. Il primo a rimorchiare Aldo e Giovanni fuori dalla scuola fu però un uomo, Renato Corso, del mitico Derby. Giovanni: «Ci disse: venite a fare cabaret da me. Noi, a dire il vero, volevamo allora fare il teatro di strada...». Aldo: «Il nostro sogno era di comprarci un furgone, dipingerlo tutto nei modi più strani e girare il mondo fermandoci qua e là nelle piazze. Lo abbiamo fatto anche. Sfruttavamo quello che avevamo imparato di acrobatica per fare delle cose un po’ clownesche». Giovanni: «Poi, facendo soprattutto i mimi, abbiamo cominciato a lavorare nelle scuole elementari, con i bambini. Almeno per un paio d’anni». Fino al Derby. Giovanni: «Un numero che facevamo era quello di due naufraghi che pescavano. Un altro si chiamava I suggestionabili. Noi stessi, come duo, ci chiamavamo allora così. E già al Derby dicevano: “Ma che nome del piffero!”». Aldo: «Il primo era ancora peggio: “I CiclaMimos”». Giovanni: «Ma lassa perder!». «Lo so che ti vergogni. Per questo lo dico». «Vabbè, comunque l’anno dopo ci hanno convinti: chiamatevi Aldo e Giovanni. E così è andata. Un nome da parrucchieri. Ma che sarebbe venuto buono con l’aggiunta di Giacomo».
Finché non chiusero il locale, perché ci si spacciava droga. Giovanni: «Mai accorti di nulla. Eravamo proprio ingenui». Aldo: «Una sera entro in bagno, uno si gira e vedo che ha la faccia spruzzata di bianco. Gli faccio: “Guardi che si è sporcato di borotalco”. Dice: “Ah, sì sì. Grazie...”. Gianni Palladino, che faceva l’ultimo numero la sera della chiusura, tirava sempre in ballo gli spettatori e giocava con loro. Entra il poliziotto: “Polizia! Basta, si chiude!”. E lui: “Bagiggia, porta su il poliziotto dai...”. Non aveva mica capito che facevano sul serio». Chiuso il Derby, aprì Zelig. E i nostri si spostarono di là.
Giacomo: «Io sono di Villa Cortese, attaccata a Legnano. Mio papà Albino faceva il metalmeccanico e mia mamma Elsa l’operaia tessile. In realtà sono l’unico che ha lavorato davvero. Dopo la terza media, dritto in fabbrica. Dopo il lavoro, però, facevo le “serali”. Mica come questi due “faniguttùn”... Facevo l’operaio elettromeccanico poi, con il diploma, venni assunto come inserviente all’ospedale di Legnano. Studia studia, sono diventato caposala. Al reparto oncologico. Dopo undici anni di ospedale avevo solo voglia di scappare... Appena avuta l’occasione di recitare per le scuole mi sono licenziato per fare Il conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni». Giovanni: «Esiti spaventosi. I ragazzi abbandonavano la scuola per non sentirlo». Giacomo: «S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde una squillo!». Fatto sta che alla fine... «Ci siamo messi insieme». Nessuna gelosia, in tanti anni? Giovanni: «No. Ogni gruppo ha generalmente un leader. Noi no. Siamo alla pari. Ciascuno consapevole della fortuna di avere incrociato gli altri due». Mai una crisi neppure al fatidico settimo anno? «Al contrario. Il settimo anno è stato quello di Tre uomini e una gamba. No, mai rischiate rotture. Siamo amici. Ci vogliamo bene».

Omaggio alla “tafazzina”. Ma i personaggi via via come sono nati? Johnny Glamour, il dj ba-ba-balbuziente, i tre tenori Figaroa alle prese con i gargarismi, il cammello e il cammelliere che si sputano l’un l’altro, i bulgari... Aldo: «Quelli sono nati a Zanzibar dove il proprietario di Forte Cappellini aveva un altro villaggio. Il Mawuimbini. Una sera arriva un gruppo di sedicenti acrobati isolani. Un disastro. Noi abbiamo cominciato a fare, davanti a loro che ci guardavano malissimo, la parodia dei loro numeri. Gli spettatori ridevano da pazzi». Il Tafazzi? Giacomo: «Tafazzi il terrore degli spazi, perché questo è il nome completo, era inizialmente uno dei supereroi che facevamo a Zelig. C’era Aldo che faceva Superman, ma era sempre malato, aveva la tosse, soffriva all’anca... Giovanni era Flash, velocissimo, che con una tutina rossa e le alette sulle orecchie nel tempo di fare “Flash” diceva di essere andato a mangiare un gelato o a trombare mia sorella. Io, mi dicono, dovevo fare l’“uomo merda”. Bastardi! Non sapevo bene come fare. Una sera, colpo di genio, ho visto una bottiglia d’acqua vuota e ho cominciato a pestarmi la conchiglia. Ridevano tutti. La consacrazione fu quando a Mai dire gol entrai a sorpresa martellandomi come un pazzo. Il giorno dopo chiamano Gino e Michele e raccontano che Veltroni gli ha detto: “Non posso scriverlo io ma ho fatto fare un pezzo a Sandro Veronesi per spiegare che Tafazzi è il simbolo della sinistra che si auto-flagella perché vuol perdere”. E da lì, un diluvio di commenti. Ma la sai la storia della tafazzina?». Cioè? «Dopo un anno che eravamo lì a Mai dire gol vengono delle ricercatrici e ci spiegano che stavano cercando una proteina responsabile di una malattia gravissima dei bambini. Erano ostinate. Alla fine la trovarono e siccome si trattava di una proteina, come dire, autolesionista sulla rivista Lancet la chiamarono “tafazzina”. Giuro».

Seguaci del linguista Rohlfs. «Nico il sardo con nove fratelli e nove cognati che si chiamavano Parrego, Nagasella, Parasanna, Apinno, Gusunilla, Parassinna, Cassacarragnu, Franco e Parriggnala», racconta Giovanni, «venne fuori da anni di frequentazioni coi sardi. È una lingua che mi aveva sempre intrigato. Mi piaceva un sacco e mi divertivo a inventarmi le parole. Era solo un gioco. Poi quelli della Gialappa’s mi hanno detto: guarda che questo lo devi portare in televisione». Reazione dei sardi? «Entusiasti. Perché vedevano l’amore per la loro lingua. Anzi, qualcuno pensava che fossi sardo. Siccome poi ci sono quattro o cinque varianti magari un sassarese mi diceva: “Ma tu di dove sei?”. E io: “Di Perdasdefogu”. “Ah, ecco perché non capivo...”». E se trovava uno di Perdasdefogu? «Gli dicevo d’essere sassarese. E loro mi volevano bene». Anzi, Pasquale Chessa, sardo sardissimo, arrivò a scrivere un dotto articolo su Panorama colmo di elogi tracciando un parallelo tra il grande linguista Gerhard Rohlfs (il quale sosteneva «che il sardo non era un dialetto, ma una lingua a pieno titolo, una lingua a sé stante come il francese o il catalano») e il trio: «Sicuramente Aldo, Giovanni e Giacomo non sanno chi sia Gerhard Rohlfs, ma nel corso della nuova serie di Mai dire gol stanno dimostrando di esserne i più fedeli seguaci». Di più, scrisse che il dizionario inventato da Nico, cioè il Novissimo Cuccureddu, era «destinato a stravolgere il corso della linguistica italiana...».
Magari quello non è successo. Ma tanti anni dopo, i tre possono ancora riderci sopra. Non era poi sbagliato sostenere che le «Galline vecchie fan buon Brothers»...