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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

LA MADRE DI TUTTE LE PORCATE


Ristabilire una verità storica. È l’impegno della Fondazione Genoa che ha messo al lavoro un pool di esperti per ridare, 90 anni dopo, quello che il regime fascista rubò al Genoa Cricket and Football Club: lo scudetto del 1925. Sarebbe stato il decimo, quello della stella. E sarebbe anche come esorcizzare una maledizione, perché quel 9 agosto 1925, nella partita giocata contro il Bologna alle 7 del mattino a porte chiuse in un campo alla periferia di Milano, iniziò la parabola discendente del Genoa che non solo non ha più vinto il titolo di campione d’Italia ma, nella sua storia ultracentenaria, è finito innumerevoli volte in serie B e due anche in C.
Ci sono volute cinque partite per stabilire chi, tra Genoa e Bologna, sarebbe dovuto andare a disputare la finale, dall’esito scontato, con l’Alba Roma vincitrice della Lega Sud. In una sfida che avrebbe dovuto essere solo sportiva un ruolo determinante lo ha un gerarca di Bologna: Leandro Arpinati. Non un fascista qualunque. Amico personale di Mussolini, è il vicesegretario generale del Partito Nazionale Fascista. Deputato al Parlamento, nel 1926 diventa, senza bisogno di elezioni, podestà di Bologna e presto scala i vertici dello sport nazionale: presidente della Figc dal 1926 al 1933 (ottenendo l’organizzazione dei Mondiali del 1934) e poi anche presidente del Coni. Arpinati, per celebrare le glorie sportive del suo Bologna, fece anche erigere lo stadio dove ancora adesso, dopo la ristrutturazione per Italia 90, la squadra emiliana disputa le sue partite casalinghe. In tipica architettura fascista, lo stadio chiamato Littoriale, fu costruito a tempo di record. La prima pietra fu posata il 12 giugno 1925 e il 31 ottobre 1926 venne inaugurato solennemente da Benito Mussolini che entrò nello stadio a cavallo.
Il Genoa vinse per 2 a 1 la partita d’andata giocata a Bologna e a quel punto diede per scontato l’esito del ritorno a Marassi. Un errore imperdonabile, ad imporsi così, sempre per 2 a 1, fu il Bologna. Fu necessaria allora la bella ed è questa, che il 7 giugno si gioca in campo neutro a Milano, la partita incriminata.
Il calcio è già un fenomeno di massa, lo stadio è troppo piccolo e la folla strabocca sul terreno di gioco. L’arbitro Mauro chiede l’invio di forza pubblica supplementare che però non ottiene. Il Genoa è in vantaggio per due a zero quando De Prà devia in calcio d’angolo un tiro di Muzzioli. Quel corner non verrà mai battuto. La folla entra in campo, tanti sono in camicia nera, l’arbitro viene circondato e la partita sospesa per 13 lunghissimi minuti. Mauro convalida il gol ma assicura al capitano del Genoa, De Vecchi, che, da quel momento, la partita andrà avanti solo per motivi di ordine pubblico, avendola ritenuta sospesa sul 2 a 0. Così i genoani non protestano quando Pozzi segna il gol del 2 a 2, viziato da un macroscopico fallo sul portiere De Prà. Ma la Federcalcio invece che il 2 a 0 a tavolino per il Genoa, stabilisce che la partita andrà ripetuta «per la presenza di estranei in campo». Sì, le camice nere che avevano minacciato l’arbitro.
La partita numero quattro passa alla storia come quella delle pistolettate. Scrive Gianni Brera nel suo Genoa, amore mio: «Si gioca a Torino, il 5 luglio, in piena canicola. Treni speciali vengono organizzati per l’occasione da Bologna e da Genova. La partita finisce ancora alla pari (gol di Schiavio e Catto). La sera si ritrovano in stazione i passeggeri di due treni speciali. Molti bolognesi sono in camicia nera. Viene esploso qualche colpo di rivoltella mentre si avvia il treno dei bolognesi. I feriti sono tutti genoani. Uno di loro è il cognato del mediano Barbieri».
Si deve giocare una quinta partita? Al Genoa lo escludono e viene ordinato il rompete le righe. Il Bologna, invece, continua ad allenarsi e la partita si gioca il 9 agosto, alle 7 del mattino, in un campo di periferia, quello di Porta Vigentina. Contro un Genoa scarico il Bologna vince 2 a 0.
Su YouTube si può trovare un filmato nel quale, a distanza di tanti anni, Giovanni De Prà, il primo grande portiere del calcio italiano, polemizza con Enrico Sabattini, dirigente di quel Bologna: «Il campionato lo considerammo finito dopo la quarta partita, tutte le altre società ci dissero che riconoscevano noi campioni d’Italia. Ma l’8 agosto ci chiamò il federale di Genova dicendoci che il giorno dopo avremmo dovuto partire per una destinazione ignota. Eravamo tutti ai bagni mentre il Bologna si allenava. Sapevano che quella partita si sarebbe disputata e anche il campo dove si sarebbe giocato. Noi, poveri facchini del porto di Genova, campioni d’Italia in carica, siamo stati invece trattati come un pacco postale. E a bordo campo c’erano qualche carabiniere e tante camicie nere... Questa è la pura verità, sono un uomo di parola».
Non era un antifascista militante, ma col regime De Prà, a cui è intitolata la strada dello stadio di Genoa e Sampdoria, ebbe un rapporto complicato. Fu infatti l’unico giocatore che partecipò alle Olimpiadi di Anversa del 1928 a non ricevere la medaglia di bronzo. Punito per l’aut aut che aveva dato alla Federazione di Arpinati: «Mi sono sposato e ho promesso a mia moglie di portarla in viaggio di nozze. O ad Anversa viene anche lei oppure io non parto». E siccome non era pensabile fare a meno di un portiere come De Prà ad Anversa andò anche la signora Maria Bernabei, scomparsa pochi mesi fa alla bella età di 103 anni. Per avere la sua medaglia De Prà dovette aspettare il 1972, quando la Federcalcio finalmente riparò.
«Lo scudetto lo rivendico come genoano e socialista» dice Peo Campodonico, che negli anni Settanta è stato assessore comunale ma che è ricordato soprattutto per aver scritto l’inno della squadra del cuore: «Coi pantaloni rossi e la maglietta blu, è il simbolo del Genoa la nostra gioventù...». E cita l’interpellanza parlamentare che Fulvio Cerofolini, ex bigliettaio di tram divenuto sindaco di Genova, aveva presentato all’allora ministro allo sport e turismo Franco Carrara: «Gli era stata promessa l’apertura di un fascicolo, ma poi ci fu Tangentopoli, il governo Craxi saltò e tutto restò lettera morta. Mi stupisco che nessuno dei politici della nuova sinistra genovese faccia qualcosa». Ora si è attivato il diessino Mario Tullo: «Perché è sacrosanto che lo sport debba mantenere la sua autonomia, ma in questo caso è palese il ruolo che aveva svolto la politica. Non possiamo accettare che sia stato un gerarca fascista a decidere lo scudetto».
Cambiargli il nome fu l’ultimo sfregio del fascismo al Genoa, club fondato da soci britannici e allenato dall’inglese William Garbutt, il primo mister del calcio italiano. Nel 1928 divenne Genoa 1893 Circolo del Calcio e solo dopo la Liberazione potrà riavere il nome originario. Ora la città si sta mobilitando per cercare di far ottenere al vecchio Genoa quello che gli è stato sottratto. Oltre al dossier che la Fondazione Genoa presenterà in Federazione, i tifosi stanno organizzando una raccolta di firme. Come quella dei tifosi della Lazio (l’hanno sottoscritta in 31 mila) che chiedono, ex aequo proprio col Genoa, lo scudetto 1915, quando la finale non fu disputata per lo scoppio della Prima guerra mondiale e la Federazione assegnò il titolo al Genoa, considerando che in quegli anni le finali tra la squadra che aveva vinto la Lega Nord e quella che si era imposta nella Lega Sud avevano un esito scontato. Un titolo assegnato per logica, ma mai giocato sul campo.
Gessi Adamoli