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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

CHE COS’È UNA BAD BANK? UNA PATTUMIERA SALVABANCHE


E così anche l’Italia avrà la sua bad bank. Anzi, ne avrà tante, o forse nessuna. Per dirla con Pirandello: una, nessuna e centomila... Scherzi a parte, la storia comincia con la crisi economica che ha investito, insieme ad altri, il nostro Paese. La pesante recessione degli ultimi anni ha lasciato le sue tracce nei bilanci delle banche italiane. Nel gergo bancario, quelle tracce si chiamano «sofferenze»: prestiti a imprese che sono entrate in uno stato di insolvenza, e che perciò verranno restituiti solo in parte: se va bene.
Le banche italiane ne hanno accumulate circa duecento miliardi in totale, pari al dieci per cento dei prestiti concessi alla clientela. Si tratta di una cifra elevata. Che fare? Qualche contromisura è già stata presa. La principale è la svalutazione delle sofferenze nei loro bilanci: i prestiti in sofferenza sono già attualmente valutati per circa la metà del loro valore nominale, il che vuol dire che una perdita del 50 per cento è già stata messa in conto e non rappresenta più un problema.
Resta però l’altra metà della questione e, per risolverla, si è a lungo parlato di creare una bad bank. In parole semplici una società che acquista dalle banche le sofferenze e si occupa di recuperare ciò che è possibile dai debitori. Per raccogliere i soldi, necessari a comprare quelle sofferenze, la bad bank emette obbligazioni sul mercato. Chi le acquista sarà ripagato con i soldi che verranno recuperati grazie all’attività di riscossione dei prestiti.
Terminata questa attività, la bad bank, sorta di pattumiera del credito, destinata ad essere rottamata quando avrà terminato il suo lavoro, chiude. Liberando i bilanci delle banche dal peso delle sofferenze accumulate in passato.
Naturalmente, quando si vuole vendere qualcosa il punto cruciale è il prezzo. Ed è così anche per le sofferenze. Se il prezzo è troppo basso, lo scambio non conviene alla banca, perché sarebbe costretta a contabilizzare perdite immediate in bilancio: a quel punto meglio tenersi i prestiti e sperare di recuperare qualcosa. Se il prezzo è troppo alto, lo scambio non conviene agli acquirenti: il rendimento non li ripaga del rischio che si assumono. Così, per fare incontrare domanda e offerta, si è pensato di ricorrere alla garanzia statale, che funziona in questo modo: se la riscossione dei prestiti va male, lo Stato ripagherà i sottoscrittori delle obbligazioni. In questo modo si riduce il rischio, e così chi compra le obbligazioni (e per questa via compra indirettamente le sofferenze) è disposto a pagare un prezzo più alto, cioè più vicino a quello che le banche vogliono incassare. Ma la garanzia statale è stata la materia del contendere tra il governo italiano e la Commissione Ue. Per sua natura, la garanzia è un aiuto di Stato, e questo comporta l’applicazione del famigerato bail-in, che scarica i costi del salvataggio degli istituti di credito sui privati: la condizione, affinché la bad bank sia assistita dalla garanzia statale, è che gli azionisti e i creditori della banca debbano subire perdite, secondo un ordine prestabilito. Ma così la garanzia diventa di fatto inutilizzabile: ogni banca che ne facesse richiesta farebbe la fine delle quattro banche regionali «salvate» con il decreto governativo del novembre scorso. Per questo motivo, il governo italiano si è adoperato per evitare che la garanzia statale fosse considerata un aiuto di stato, e alla fine ci è riuscito.
Come? Ricorrendo al solito bizantinismo: per avere la garanzia, le banche devono pagare allo Stato un «prezzo di mercato». Peccato che questo mercato non esista. Per stabilirlo ci si è quindi inventati un complicato meccanismo, ma è probabile che la trattativa con l’Europa sia destinata a continuare per decidere come applicarlo. Altra condizione è che non si faccia una «bad bank di sistema», in cui concentrare tutte le sofferenze accumulate dal sistema bancario italiano. Al contrario, ogni banca potrà farsi la sua bad bank.
Un altro limite dell’accordo è che la garanzia statale potrà essere concessa solo sulla tranche senior delle obbligazioni emesse dalla bad bank. Ovvero la «fetta» di obbligazioni che ha diritto alla precedenza nel rimborso: l’altra fetta, cosiddetta junior, può essere rimborsata solo dopo che i creditori senior sono stati ripagati. Ma, se le cose stanno così, chi comprerà le tranche junior? È vero che qualche fondo speculativo disposto ad acquistarle si troverà, ma questo vorrà spuntare un prezzo molto basso; allora le banche potrebbero avere poca convenienza a vendere. Quindi lo strumento appena introdotto rischia di restare in larga misura inutilizzato. Questo pasticcio nasce da una contraddizione di fondo tra due obiettivi in contrasto tra di loro: quello di agevolare la vendita sul mercato delle sofferenze bancarie, grazie alla garanzia statale, e quello di evitare che tale garanzia sia un aiuto di Stato. L’intervento statale avrebbe avuto senso solo se fosse stato possibile concedere la garanzia ad un prezzo agevolato, oppure nel caso di una bad bank di sistema. In questi due casi lo Stato avrebbe svolto una funzione che un soggetto privato non avrebbe potuto o voluto svolgere. Ma a queste condizioni, dove ogni banca dovrebbe fare la sua bad bank e la garanzia statale è a «prezzi di mercato», a cosa serve l’intervento dello Stato?
Forse solo a dire che il governo ha mantenuto la sua promessa di risolvere il problema delle sofferenze bancarie, e che la Commissione Ue non è poi così «cattiva» come qualcuno vuole fare credere. La morale è che eravamo partiti con l’idea di creare una bad bank per il sistema bancario italiano e ci ritroviamo con un decreto (del 10 febbraio 2016) che punta a crearne tante quante sono le banche italiane, ma che potrebbe essere un flop. Alla fine, quante saranno le bad bank tricolori? Una, nessuna e centomila...


Angelo Baglioni*
* Professore di Scienze Bancarie all’Università Cattolica di Milano