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 2016  febbraio 25 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Fabiola Paterniti, Tutti gli uomini del generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Melampo Edizioni, Milano, 2015, pp

Notizie tratte da: Fabiola Paterniti, Tutti gli uomini del generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Melampo Edizioni, Milano, 2015, pp. 224, euro 16

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Il generale dalla Chiesa da piccolo sognava di diventare tranviere. La madre, invece, lo voleva diplomatico.

Tra i docenti universitari di un giovane Carlo Alberto dalla Chiesa, Aldo Moro.

Gli hobbies del generale: i francobolli e la terra.

Per i suoi uomini fece coniare una medaglietta e la sera, quando capitava, ordinava la pizza per tutti.

Quando Enzo Biagi gli chiese: «Ha mai provato ad immaginare la sua vita senza divisa?», il generale rispose: «è una domanda che potrebbe apparire cattiva».

Nel 1941 partecipò alla guerra di Montenegro e la definì: «la più importante della mia vita sotto il profilo militare». Prese parte alla Resistenza in qualità di ufficiale dell’Arma e il suo nome, immancabilmente, finì nella lista nera dei nazisti.

Ai figli del generale non era dato sapere il numero di telefono diretto del padre.

Il generale dalla Chiesa, soprannominato il piemontese di ferro, era solito dire «le genti d’Italia». In un’intervista, a Enzo Biagi nel 1981, ci tenne a precisare che: «Se si tratta di attingere alla coerenza, all’amore per l’ordine e per lo Stato, io sono lieto di essere definito “piemontese”. Per quanto riguarda il “ferro”, sarei presuntuoso pensare ad un collegamento con un famoso duca del 1500. Però è anche vero che, di tanto in tanto, vengono in superficie le estemporaneità, l’impulsività, la fantasia, la trasparenza, anche un po’ di humor, che tradiscono le mie origini emiliane, alle quali sono molto attaccato».

Alla domanda “lei è religioso?” il generale rispose così: «Sì, credo in Dio, nell’Immenso, anche se su questa terra, forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile credere». [intervista di Enzo Biagi]

«Nel corso della sua permanenza a Torino il generale spesso, la domenica alle nove, andava in chiesa, pregava e lasciava un mazzo di fiori acquistati al chiosco antistante».

«Io ho sempre considerato la magistratura un altare. Come cittadino posso ammettere che il sacerdote sbagli la liturgia». [intervista a Carlo Alberto dalla Chiesa di Enzo Biagi]

«Ho visto esaltarsi la dignità sulla pelle delle vedove». [intervista a Carlo Alberto dalla Chiesa di Enzo Biagi]

«Mi è capitato, mi capita talvolta, di mettermi tranquillo, in riva ad un fiume, ad attendere». [intervista a Carlo Alberto dalla Chiesa di Enzo Biagi]

«Mentre nel terrorismo di destra noi troviamo un retroterra culturale quasi dai contenuti asmatici, non bene assimilato, tanto che porta a una pericolosità forse più avvertita, quella della estemporaneità e dell’immediatezza», spiega dalla Chiesa, «in quello di sinistra c’è invece un filone ideologico. C’è un qualche cosa che viene coltivato, viene intensamente anche insegnato. E quindi si propone come strategia di usare la violenza contro le istituzioni dello Stato». [intervista di Enzo Biagi]

Il terrorismo «non è italiano soltanto, perché lo hanno anche altri paesi. Noi aggiungiamo un condimento che è l’emotività: è una specie di droga che ci portiamo dentro, una droga leggera, ma c’è». [intervista a Carlo Alberto dalla Chiesa di Enzo Biagi]

«Per tre volte hanno sciolto i suoi reparti, e per tre volte i vari governi si sono rivolti a dalla Chiesa per affrontare le grosse emergenze». [Giuseppe Severino]

Il nucleo speciale di polizia giudiziaria, meglio noto come Nucleo Speciale Antiterrorismo, nasce il 22 maggio 1974. Dentro vi confluiscono carabinieri, servizi segreti militari e polizia, ma non i finanzieri.

Il generale davanti la Commissione Moro: «Lasciai che girassero le voci più fantasiose sulla consistenza del Nucleo speciale perché l’avversario ci credesse più forti di quanto eravamo. Faceva parte della guerra psicologica».

Michele Gallo, uno dei suoi uomini, ricorda di quella volta che degli agenti tedeschi arrivarono negli uffici di Milano: «Noi collaboravamo con molti stranieri, ci scambiavamo informazioni e cercavamo di imparare strategie nuove. Vennero con una Bmw di grossa cilindrata. Questa era una grande novità. Noi italiani operavamo con strumenti rudimentali e le nostre auto erano, di norma, le vecchie 126 della Fiat».

«Tutto il 1979 fu un anno di sangue. Gli attentati raggiunsero la cifra record di 659».

«Benvenuto generale dalla Chiesa». Questo l’incipit del comunicato con cui, l’11 gennaio 1980, le Bierre rivendicarono l’uccisione di tre poliziotti freddati a Milano.

Tra i motti dei terroristi c’era «colpirne uno per educarne cento». D’altronde, come diceva il rivoluzionario brasiliano Marcelo de Andrade, «La lotta armata cittadina costitui[va] la via principale alla lotta di classe».

Una settantina di persone, nel novembre 1969, si incontra all’hotel Stella Maris di Chiavari, poi nell’agosto del 1970 si rivede e decide che è tempo di combattere, propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo. È così che nascono le Brigate Rosse.

«Dell’organizzazione fecero parte molti giovani provenienti dalla facoltà di sociologia dell’Università di Trento, tra i quali Renato Curcio e Margherita Cagol, poi i militanti del gruppo reggiano con a capo Alberto Franceschini, e quello del gruppo operai e impiegati delle fabbriche milanesi Pirelli e SIT-Siemens. I capi dell’organizzazione in una prima fase, furono proprio Renato Curcio, Mara [diminutivo di Margherita, ndr] Cagol e Alberto Franceschini».

Il brigatista aveva «un’età compresa tra i 22 e i 27 anni, con una soglia definita “limite fragile” attorno ai 21-22 anni».

«Un compagno ne portava un altro di cui si fidava: questi partecipava ad una, due riunioni, poi magari non si faceva più vedere: nelle Brigate erano passate centinaia di persone in questo modo, brigatisti di un giorno, un mese, un anno, poi tornati tranquilli al loro lavoro». [Alberto Franceschini, Pier Vittorio Buffa, Franco Giustolisi, Mara, Renato e io, Mondadori, Milano, 1988]

«I brigatisti non arruolarono mai un soggetto che avesse procedimenti penali o fosse comunque noto alle forze di polizia, all’interno c’erano persone provenienti da famiglie per bene. Non volevano persone chiacchierate […]». Per comunicare «ogni 15 giorni, due o tre persone si trovavano in una determinata piazza».

I brigatisti scrivevano tutto con la macchina da scrivere.

«Di norma, i terroristi rispondevano a un capo che spesso incontravano portando un volantino in tasca, poi si salutavano e si passavano le informazioni». [Gian Paolo Sechi]

In Francia nasce un comitato in difesa dell’organizzazione XXII Ottobre, di nota matrice terroristica. A farne parte nomi illustri come Jean Paul Sartre e il regista Jean Luc Godard.

Il 3 marzo 1972 rapiscono il direttore dello stabilimento milanese della SIT-Siemens, Idalgo Macchiarini. Il 28 giugno 1973 l’ingegnere dell’Alfa Romeo Michele Minguzzi e il 10 dicembre dello stesso anno il capo del personale Fiat, Ettore Amerio. Tutti dirigenti, tutti sequestri lampo, tutti rilasciati nel giro di poche ore.

Il turno del magistrato Mario Sossi, per le Bierre, arriva il 18 aprile del 1974. Lo sequestrano perché nel «1968 aveva denunciato autore, regista e attori della commedia Emmeti di Luigi Squarzina per vilipendio della religione. Nel testo era riportata la parodia blasfema del “Padre Nostro”. Da quel momento in poi era divenuto il simbolo della reazione. I giornali di sinistra, in prima linea l’Unità, ne avevano fatto un bersaglio fisso».

Un commando delle Bierre rapisce in via Fani a Roma Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana. L’agguato, come lo definirono in un comunicato, era un «attacco al cuore dello Stato». La storia dell’Italia infatti cambiò in quei 55 giorni, dal 16 marzo al 9 maggio 1978. Trascorsi i quali il corpo esanime del leader democristiano viene ritrovato dentro il bagagliaio della tristemente nota Renault 4 amaranto parcheggiata in via Caetani. L’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, poté solo dimettersi.
«Geometrica potenza», così le Brigate Rosse definirono il caso Aldo Moro.

Dopo la morte di Aldo Moro, nel gennaio del 1979, «uscirono dalle Bierre sette militanti di primo piano, tra cui i più noti alla cronaca di quel tempo: Valerio Morucci e Adriana Faranda».

Il 24 gennaio 1979 il nuovo bersaglio da abbattere è un operaio e per di più sindacalista, è Guido Rossa. Aveva denunciato un brigadista che volantinava nelle acciaierie Italsider. Ai suoi funerali c’erano duecentomila persone. Erano duecentomila persone contro il terrorismo. Anni dopo il brigadista Prospero Gallinari lo definirà: «un boomerang […] con un effetto mille volte più dirompente».

Dopo l’omicidio di Guido Rossa è il PCI a contattare dalla Chiesa. Il Nucleo, per stanare i brigatisti, ora dispone di un infiltrato.

Le Bierre arrivarono a fare quello che loro stessi definirono un “processo proletario”. Il 10 giugno 1981 rapirono Roberto Peci, il fratello di Patrizio Peci, un Bierre che stava parlando troppo. Dopo cinquantaquattro giorni l’imputato fu condannato a morte e tutte le fasi furono filmate con una super 8.

«I terroristi sono i nuovi nemici dei lavoratori». [Luciano Lama, allora segretario generale della CGIL]

I terroristi per le armi si rifornivano in Svizzera. Lì, conservati in alcuni locali scavati in una montagna, prelevavano le munizioni dell’ultima guerra e le bombe anticarro.

«Nel 1979 i nostri uffici di piazza Vescovio furono colpiti da un missile». [Gennaro Nuvoletta]

«I nostri uffici a quel tempo erano a Roma, sulla Salaria. Hanno mitragliato i muri della sede tante volte. Non si può avere idea di quale fosse il clima a quel tempo». [Giuseppe Severino]

«All’università di Padova, alla Sapienza di Roma, a Genova anche nel 1979 si tenevano corsi ai quali venivano ammessi rigorosamente o tendenzialmente solo studenti provenienti da alcune organizzazioni, in particolare da Autonomia operaia o dalle Bierre e dintorni. Le lezioni erano a porte chiuse. Una sorta di indottrinamento per futuri quadri».

Il generale dalla Chiesa dopo la morte dell’adorata moglie Dora prese a scrive un diario in cui le raccontava tutto.

Al cimitero da Dora poteva andarci solo di notte.

Il brigatista Patrizio Peci viene arrestato il 19 febbraio 1980. Lo stesso giorno, ma due anni prima, moriva Dora Fabbo, la moglie del generale.

Nel 1990 Patrizio Peci, il grande pentito delle Brigate Rosse, in un’intervista a Sergio Zavoli dirà: «Dopo sette anni che uno uccide, che ferisce e si accorge che quello che sta facendo non è una cosa giusta, indubbiamente è un trauma immenso. Per cui, quando mi hanno arrestato, ho pensato che la cosa più sensata che potessi fare in quel momento era di evitare altri morti, e in quel caso ho dovuto far arrestare dei miei compagni».

«È stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore». [intervista a Carlo Alberto dalla Chiesa di Giorgio Bocca]

L’ex Bierre Patrizio Peci racconterà di quella volta che volevano fare fuori dalla Chiesa ma non ci riuscirono perché il generale quel giorno si presentò con un’utilitaria. Nei suoi spostamenti era talmente imprevedibile che i suoi uomini presero a chiamarlo Ufo, unidentified flying object. E a Enzo Biagi disse: «Ma non come una sigla che sta per “ufficiale fuori ordinanza”! Proprio come UFO!».

«Una volta entrò nella sagrestia, a quel punto capii [a parlare è Michele Gallo, ndr] che stava pensando di passare da un’altra porta. Così feci il giro per farmi trovare all’ingresso posteriore. Lui mi chiese, ridendo sotto i baffi: “Perché si trova qui?” Era il suo modo di fare, cogliere alla sprovvista, depistarci, ma era soprattutto il modo per salvaguardarsi la vita. Eravamo i suoi angeli protettori, quelli che non ebbe a Palermo». Il 3 settembre 1982 il generale, la moglie e l’agente di scorta, vengono crivellati dai colpi dei fucili AK-47; si compie così la strage di via Carini.

Il boss della mafia Gaetano Badalamenti a Domenico Di Petrillo, uno degli uomini del generale, disse: «Colonnello stavamo dalla stessa parte».

Quando nel dicembre 1968 furono assolti 114 mafiosi il generale dalla Chiesa semplicemente disse: «Siamo senza unghie».

«La mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco». [intervista di Giorgio Bocca a Carlo Alberto dalla Chiesa]

«Io spesso sento alla radio questi conferenzieri che in gioventù facevano i terroristi e penso», rivela uno degli uomini che formò il Nucleo Antiterrorismo, «che questi signori sono stati in carcere, hanno ucciso, gambizzato ragazzi, eppure hanno il coraggio di parlare ancora. […] E poi i loro racconti li trovo in libreria, come fossero delle favole da propinare alle nuove generazioni». [Pasquale Vitigliano, detto il “Trucido”]

Un quadro appeso nell’ufficio del giudice Gian Carlo Caselli riporta questa frase del generale dalla Chiesa: «… Vi consegno il mio Credo, vi consegno la mia fede. Se non avessi avuto questa spinta, quest’ansia di servire la nostra Istituzione in trasparenza, senza riserve, vi sarebbe forse qualche volta un cedimento, qualche volta una flessione. Io vi invito perciò a credere: se partirete in umiltà, se partirete in modestia e crederete, state certi che troverete sempre intorno a voi coloro che crederanno in voi, perché la vostra fede li guiderà e li sosterrà nei momenti più difficili del loro impegno…».

«Grufolare tra le carte della rivoluzione», era quello che faceva chi lavorava con il generale.

«Quando [dalla Chiesa, ndr] lasciò la Sicilia per il nuovo incarico, doveva imbarcarsi sulla nave, al tramonto, al porto di Palermo e lì arrivarono tutti gli uomini che avevano lavorato con lui, accompagnati dalle famiglie. Nessuno aveva mai visto tanta gente occupare le banchine del porto a quell’ora. Tirarono fuori i fazzoletti in segno di saluto, mentre lui e la moglie si allontanavano».

I giornalisti inglesi usano un detto: «Non permettere ai fatti di rovinare una bella storia». [Armando Spataro]

«“Gli ortodossi dell’Arma” chiamavano gli uomini del generale “i tecnici”».

«Avevamo imparato a pensare come loro. A volte bastava guardare un annuncio di appartamenti in affitto su Il Messaggero, un “senza portiere” ci metteva in allarme. E, se l’annuncio spariva dopo uno o due giorni, controllavamo». [Domenico Di Petrillo, detto “Baffo”]

Gli infiltrati dovevano vivere come i brigatisti, gli si diceva quali libri leggere e perfino come vestirsi. Con «eschimo e giornali in tasca».

«Noi non avevamo una vita privata», ricorda Michele Gallo, detto “Dan”. «Vestivamo come i terroristi, vivevamo e parlavamo come loro. Io circolavo con un motorino, un Ciao della Piaggio, il mio mezzo preferito per pedinare e prendere di sorpresa l’avversario. Spesso giocavo a pallone con i ragazzi del quartiere dove operavo. Alla fine della partita quando andavo via, mi dicevano: ci vediamo domani, amico».

«A quei tempi gli strumenti che si adoperavano per le indagini erano rudimentali. Non c’erano i cellulari né i microfoni di adesso. I telefoni erano soltanto fissi e quindi i carabinieri addetti all’attività di controllo stavano tutto il giorno ad ascoltare gli indiziati attraverso apparecchi complessi, formati da bobine che registravano le conversazioni a comando. Quando finiva il nastro si sentivano dei rumori piuttosto forti che mettevano a dura prova l’ascoltatore. Michele [Gallo, ndr] ricorda bene quei minuti di panico, quando un cambio di bobina poteva mettere a rischio l’intera operazione».

«All’epoca, se c’erano conversazioni riservate, che non interessavano la nostra attività, si scriveva omissis. Non trapelava nulla».

«… e scava, scava vecchia talpa ma, invece di uscire nel giardino d’inverno, è sbucata nell’immondezzaio della storia». [Francesco Amato, giudice istruttore]

«Siamo strumenti ignari di occulte rapine». [Carlo Alberto dalla Chiesa]

Carlo Alberto dalla Chiesa parlava spesso della cosiddetta «zona grigia». [Che “possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare”, Primo Levi, I sommersi e i salvati, ndr]