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 2016  febbraio 25 Giovedì calendario

VOLEVO SOLO DIFENDERE MIA FIGLIA

Certe mattine mi sveglio alle tre. Apro gli occhi e penso: “Chissà se Fabiana sta dormendo”. Mi alzo, vado nella sua stanza e accendo la luce. Ma ci sono solo le sue fotografie».
Fabiana Luzzi è la sedicenne che il 24 maggio 2013, a Corigliano Calabro in provincia di Cosenza, venne bruciata viva, dopo una lite per gelosia, dal fidanzato diciassettenne. Mario, suo padre, è ancora straziato dal dolore. «Era una ragazza allegra, studiava danza da quando era bambina. Ancora adesso mi sembra di vederla arrivare in soggiorno volteggiando. Ma Fabiana non torna, Fabiana non c’è più».
Davide Morrone, il ragazzo che l’ha uccisa, è stato condannato in primo grado a 22 anni e sei mesi di carcere, che nel processo d’appello sono diventati 18. «E adesso potrebbero ridursi ulteriormente», denuncia Luzzi. «Il 1° marzo ci sarà l’udienza in Cassazione. I suoi avvocati hanno chiesto uno sconto di pena. Con mia moglie andremo a Roma, ma temiamo che anche questa volta non ci facciano entrare in aula».
Perché lo pensate?
«Nessuno ci ha avvisati del processo. Non la Procura, e neanche i carabinieri. L’abbiamo saputo dai giornalisti».
Non avete un avvocato?
«Neanche lui è stato informato».
Possibile?
«Il fatto è che noi al processo non abbiamo diritti, non contiamo niente. Non abbiamo potuto costituirci parte civile perché in Italia, per legge, se l’imputato è minorenne, solo lo Stato può agire contro di lui. Il mostro che ha ucciso mia figlia ha compiuto diciotto anni tre mesi dopo il delitto. Ci hanno spiegato che l’unica cosa che possiamo fare è avviare una causa per il risarcimento economico. Ma quale cifra può ripagare la vita di una figlia? Trovo ripugnante solo il pensiero. E intanto, al processo d’appello il giudice ci ha cacciati dall’aula».
Come è possibile?
«Con mia moglie siamo andati in tribunale: volevamo conoscere il magistrato che avrebbe difeso nostra figlia. In aula c’era il mostro. Il giudice ci ha fatto uscire. Abbiamo protestato, ci hanno detto che lo aveva chiesto l’imputato. I carabinieri ci hanno portato nel loro ufficio, nel sottoscala. Siamo restati lì tutto il giorno. Alla sera, il giudice è venuto a chiederci scusa, ci ha detto che non ci aveva fatti entrare per risparmiarci il dolore di sentire ancora una volta lo scempio di cui era stata vittima Fabiana. Ma intanto aveva ridotto la condanna da 22 a 18 anni».
Per quale motivo?
«Gli hanno riconosciuto la seminfermità mentale e la mancanza di premeditazione. A lui, che dopo avere accoltellato mia figlia è scappato, e quando è tornato con una tanica di benzina e ha trovato Fabiana viva, mentre lei lo supplicava di non farle più del male, le ha dato fuoco».
Perché lo ha fatto?
«Era geloso. Qualche settimana prima mia moglie aveva scoperto che la picchiava. L’avevamo convinta a denunciarlo. Quando abbiamo saputo che si erano rimessi insieme, era troppo tardi».
Da quel giorno lei chiede l’ergastolo.
«Non sono d’accordo con le leggi italiane, per le quali l’assassino minorenne non può essere condannato al carcere a vita. Mia figlia è chiusa nel cemento armato, e nessun giudice può toglierla dalla bara e restituircela. Allo stesso modo, secondo me, nessun giudice dovrebbe avere il potere di impedire a chi l’ha uccisa di scontare tutta la sua esistenza in carcere. Non è per vendetta, ma vorrei cercare conforto nella certezza che quel mostro non possa più fare a nessun’altra ciò che ha fatto alla mia bambina».
Lui vi ha mai chiesto perdono?
«No. E in ogni caso, si può perdonare? Cosa mi hai rubato, un cesto di mele che vieni a chiedermi perdono?».
E sua moglie? Neanche lei perdona?
«È in lacrime davanti a me. Come me, anche lei è morta con Fabiana quel giorno».
E scoppia a piangere.