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 2016  febbraio 25 Giovedì calendario

INTERVISTA A NINO FRASSICA

In una tavola calda di Piazza Strozzi, nel quartiere Prati a Roma, con un sottile, si fa per dire, profumo di soffritto, alle dieci del mattino arriva Nino Frassica, stivali Frye anni Ottanta e baffo alla Clark Gable. Siamo a due passi da via Teulada, dove si girava Quelli della notte, lo spettacolo cult di Renzo Arbore che gli ha dato la fama. Lui, siciliano, da oltre 30 anni vive qui, vicino a un’edicola: «Perché, se nella vita non avessi fatto il comico, avrei voluto fare l’edicolante». A Sanremo vestito di nero ha recitato la poesia A mare si gioca, un testo dedicato ai bambini morti nel canale di Sicilia, che ha fatto piangere tutti. Anche lui. Frassica, è scappato via con le lacrime agli occhi. Piangeva davvero?
Quando ho accettato su proposta di Tony Canto di recitare il suo testo, ero nudo. Ho tolto tutta l’esperienza dell’attore e mi sono sentito come un dilettante.
È facile usare l’artificio, raramente mi accade di togliermi la maschera. La commozione è arrivata perché per una volta ero davvero io. E mi sono commosso insieme al telespettatore. Non mi succede mai, io sono un attore.
Com’è che Nino è diventato Frassica?
Guardando gli altri attori. Così scappo dalla realtà, mi sono detto, e mi rifugio con questi che giocano e recitano. Quelli della notte, poi Don Matteo, Radio 2, Che tempo che fa con Fabio Fazio e ora l’impegno a fianco dell’Ai. Bi, l’associazione che aiuta i bambini profughi. È alla sua terza vita ormai? Forse alla mia 74esima, io sono come i gatti, che ne hanno 77. Me ne restano ancora tre. Ho ricominciato a fare la radio un anno fa con Programmone su Radio 2 e lì ho capito che mi piace fare l’autore.
In quel contenitore ho messo tutto: il mio passato, il presente e il futuro. Com’era il suo passato? Era il tavolino del bar a Galati Marina, il paese vicino a Messina dove sono nato e vissuto fino a trent’anni. Lì esercitavo la nobile arte del cazzeggio, come la definiva Arbore. Quello era il mio palcoscenico, fu la mia scuola, là studiai.
E poi dal tavolino del bar si è alzato ed è andato a Milano a fare teatro? Sì, un anno al Piccolo. Ero pendolare, passavo da Roma, non combinavo nulla e tornavo giù. Facevo dei mestierini per sbarcare il lunario.
Che genere di mestierini?
Presentatore di defilè, animatore nelle scuole e nelle feste di piazza, dj. Avevo l’orgoglio di non chiedere niente ai miei. Mio padre era impiegato comunale, mia madre casalinga, quattro figli, con i soldi si arrivava giusti giusti.
I suoi l’hanno vista diventare Nino Frassica? Solo mia madre, papà non c’era più. In una puntata di Don Matteo fa dire al suo personaggio, il maresciallo, che andava bene a scuola, mentre la maestra contraddicendolo dice che era l’ultimo della classe. È autobiografico? Mi hanno bocciato per due anni. Marinavo la scuola, non per saltare i saggi, ma per andare al cinema.
Che cosa le piaceva?
Andavo a Messina, c’erano due sale, l’Orfeo e il Diana, con spettacoli mattutini. Guardavo di tutto, sceglievo il cinema non il film. Quando ero piccolo invece andavo a quello di Galati. Si chiamava Ettuno, perché la N era caduta. Era come Nuovo Cinema Paradiso, la mia vera evasione. Totò, Sordi. Era il mio asilo, imparavo a fare le aste. Quando ha iniziato a sperimentare dal vivo? Con le recite parrocchiali. Famiglia cattolica? Eravamo cattolici per legge.
E oggi?
Non lo so, converrebbe esserlo. Ma non è detto che Dio esista, né che non esista. Come erano le recite parrocchiali? Non intervenivo, ma mi sentivo un po’ critico di recite parrocchiali, vedendo tanto cinema già a 12 anni me ne intendevo. Quando fece il salto artistico?
A scuola misi su una compagnia, facevamo parodie delle canzoni tipo Chi non lavora, non fa il professore. Organizzavo spettacolini con titoli improbabili che non c’entravano nulla. La compagnia si chiamava I cantatori pelosi, figli della cantatrice calva. Ispirato da Eugène Ionesco. Andava male a scuola, ma studiava il teatro dell’assurdo.
Ero affascinato dal teatro dell’assurdo. Ed ero affascinato da Alto Gradimento e da Mario Marenco, non ne perdevo una puntata, sentivo mia quella comicità surreale e lui era il mio mito. Mi ricordo che intorno agli anni 70 organizzai uno spettacolo di musica a Messina, alla Sala Laudamo. Tra un gruppo e l’altro mandavo in scena un povero ragazzino a leggere le mie poesie sconclusionatissime. E recitava nel caos del cambio degli strumenti. Mandavo lui per vigliaccheria. E io facevo il patron, il presentatore.
È vero che Arbore la chiamò dopo aver sentito un delirante messaggio che gli lasciò sulla segreteria? Sì, ma gli lasciai più di un messaggio, volevo che capisse che ero diverso dagli altri comici. Sapevo che lui non cercava i bravi, ma gli originali. Volevo fare colpo. E mi ha riconosciuto.
Che cosa ricorda di quegli anni gloriosi?
Con Indietro tutta, avevo l’intero programma, quell’ossigeno non mi è più capitato. Non esistono in tv luoghi come Quelli della notte, dove si poteva improvvisare, creare.
Con chi è rimasto amico?
Con Maurizio Ferrini. Eravamo noi i debuttanti. E poi Marenco, è stato il mio maestro, ha realizzato uno dei due sogni che avevo da ragazzo. Quali? Fare l’attore comico e lavorare con i miei miti: lui, Arbore, Cochi e Renato. E poi andare a vivere a Roma.
Li ha realizzati entrambi, è stato fortunato. Come si fa a dire se uno è fortunato? È come quando vinci al casinò, se te ne vai con i soldi sei fortunato, ma magari se restavi potevi essere ancora più fortunato e vincere di più. La fortuna è accontentarsi, ma io sono un irrequieto.
Ha ancora qualcosa da desiderare?
Veramente ho realizzato molto di più di quello che sognavo. Una cosa ancora vorrei: avere carta bianca in televisione come mi è stata data alla radio. Portare il mio umorismo surreale, senza pensare se è difficile per il pubblico. Non ha avuto figli? No. Le è dispiaciuto? Non avendoli non ho capito che cosa sia essere padre. Non sono neanche mai andato in Giamaica, non so come sia. Quelli diventati padri li vedo comunque cambiati in meglio. L’amore? Sì qualche volta, l’amore. Fa parte dei cinque sensi. Ma la mia vita ha al centro il lavoro, poi la famiglia, i nipoti, la squadra del Messina. Pensa solo a lavorare?
Quando qualcuno mi dice andiamo a cena, ma non parliamo di lavoro, io non ci sto. Capirei se facessi il becchino, ma già che sono un attore.. È vero che i comici sono tristi? Quando finisco di lavorare mi chiudo in camera e piango a dirotto. Questo è il luogo comune, perciò non è vero. Dipendo dal mio umore. Se non sono in una buona giornata non sono divertente. Diffido di chi fa il clown 24 ore su 24, c’è qualcosa di malato. Di chi altro diffida? Degli opinionisti, quelli seduti nei talk-show a parlare di tutto. Ma perché Samantha De Grenet deve intervenire sulle diete? Eppure il nulla fa spettacolo. Non si butta via il niente, lo si inserisce nei programmi pomeridiani. Mai fare l’errore di sottovalutarlo, il nulla, si fa una vita con il nulla. E poi c’è sempre un pubblico a cui sembra qualcosa. Il pubblico ama Don Matteo. Siete alla decima stagione. È un prodotto confezionato ad hoc, c’è tutto: i buoni, i cattivi che si pentono, e poi la speranza. Può durare 300 anni. Qual è un dolore della sua vita? Quando ho saputo che Sabrina Ferilli non faceva più la pubblicità dei divani. Ci sono rimasto molto male. È stato sincero in questa intervista? Al 98 per cento, sincero del tutto lo sarò quando verrà a intervistarmi a novant’anni e non farò più l’attore. Comunque non mi ha fatto una domanda importante. Quale? Che tipo di comico sono. Che tipo di comico è, Frassica? Ci sono due tipi di comici quelli che raccontano le barzellette e quelli che distruggono le barzellette. Io appartengo al terzo tipo.