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 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

INTERVISTA A ENNIO MORRICONE

Roma, febbraio
Il complimento più bello gliel’ha fatto Ennio Morricone, candidato all’Oscar, che ha arrangiato per lui Quando finisce un amore e altre tre canzoni dell’album Anima, nel 1974: «Non capisco come faccia Cocciante: è un autodidatta, non ha mai studiato armonia, ed è come un gatto, ricade sempre sulle sue zampe».

Davvero, lei non sa la musica?
«Davvero. Non scrivo una nota e non ho mai preso una lezione di canto o di piano. Anche Vangelis, che ha arrangiato Concerto per Margherita, è completamente autodidatta e non scrive una nota. E Pavarotti non sapeva la musica».».
Riccardo Cocciante ride di gusto, sornione e compiaciuto. Per chi non ne capisce di musica spieghiamo: la critica di Morricone è una sorta di laurea ad honorem. In pratica, dice, è un musicista che, senza aver studiato, conosce le regole dell’armonia e le applica in modo magistrale. Cioè, un genio.
Il maestro si concede solo un bicchiere di acqua durante l’intervista nel salotto di un hotel a due passi da via Veneto. Con lui la moglie Cathy, sua compagna dal 1973, «la custode di uno stile», un amore bellissimo il loro.
Il 20 febbraio Riccardo ha compiuto 70 anni e il suo regalo di compleanno è il ritorno della sua opera più importante, Notre Dame de Paris: dal 3 marzo al Linear4Ciak di Milano, Lola Ponce e Giò Di Tonno tornano nei panni della zingara Esmeralda e del gobbo Quasimodo. Poi, in tour fino a settembre.
È difficile farlo parlare di sé («Ho sempre tenuto ben distinto l’artista dalla vita privata»), e quando lo fa comunica discrezione, gentilezza, ma anche fermezza invalicabile: «Sì, ho 70 anni, ma finché ho la passione e la mente viva, posso andare avanti per molto tempo. Non avere passione condiziona l’uomo. Se un artista non ce l’ha, tutto diventa sterile».

Lei la sente l’età che avanza?
«Spesso l’artista è la somma di due persone: io quando oltrepasso il muro del palcoscenico mi trasformo, divento irruente».
Ma la sua dolcezza rimane.
«Ma questa è la mia anima! Il fisico, la materia, è un supporto. Il mio sogno è di non avere bisogno del mio fisico per esprimermi».

Lei ha sempre fatto fatica ad accettarsi fisicamente.
«Ognuno di noi ha dei complessi, io ne ho avuti tantissimi. Ma più crescevo nella mia espressività e più mi accorgevo che diventavo forte quando il mio corpo quasi non esisteva e la gente riusciva a penetrare dentro di me».

È una visione ascetica dell’arte.
«Pensi a Jacques Brel, che è stato il mio maestro. Sul palco era brutto, ma la sua anima esplodeva. O Edith Piaf, anche negli ultimi mesi della sua vita, quando non ce la faceva più, sembrava bellissima perché la sua anima era profondamente bella. Io sono un introverso, sì».
All’inizio sarà stato difficile entrare nello star system.
«Ero un timido all’ennesima potenza, quasi la mia fosse un’anomalia di vita e di comportamento. Non ho mai chiesto di farmi ascoltare, ma per fortuna ho avuto sempre persone intorno a me che hanno riconosciuto un talento che io stentavo a riconoscere come tale. Per me andare sul palcoscenico era uno sforzo immenso, ero sicuro di non potere mai affrontare il pubblico. Cantando, piano piano mi sono accorto che esistevo: potevo esprimermi e la gente mi capiva... Wow, per me era una cosa incredibile!».

Bella senz’anima era lei?
«No, era la disperazione che vivevo, il culmine di questa richiesta di ascolto. Volevo rompere il guscio, farmi ascoltare, comunicare. Volevo cantare e non volevo, volevo esprimermi ma avevo paura. C’era un volere e non potere, e un potere e non volere. Poi è arrivata Margherita che esprime più serenità, e Cervo a primavera in cui racconto il mio desiderio di cambiare, di trovare un’altra forma di espressione, di aprirmi: “Io rinascerò...”».

In Quando finisce un amore, giovanissimo, incontrò Morricone, personaggio non facile...
«Ma lì capisci il doppio volto di un artista. Quando lo incontri sembra abbastanza duro, aspro, invece la sua musica è un’altra cosa. Che bellezza! Con me, comunque, era molto gentile, abbiamo lavorato serenamente insieme, è sempre stato molto stupito dalla mia musica».

Si ricorda la prima canzone che ha ascoltato da bambino?
«Ascoltavo la musica che amavano i miei genitori: l’opera. Conosco a memoria il Faust di Gounod. E poi Gilbert Becaud, Et maintenant... Quando sono arrivato in Italia ho imparato la lingua guardando le trasmissioni musicali alla tv. Come Sette passi tra le note, c’erano Wilma De Angelis, Tony Dallara. Mio padre non mi parlava in italiano, quando ero in Vietnam il mio unico contatto con il nostro Paese era Le vie d’Italia, la rivista del Touring Club. E ascoltavo le opere, Verdi, Puccini...».

E arriviamo alla sua Notre Dame, un’opera popolare. Perché tornare con questo spettacolo?
«Perché è di grande attualià. Nel romanzo di Victor Hugo c’è la passione e il tema dei sans papier, i clandestini. All’epoca gli immigrati illegali dovevano dormire fuori dalla città».

Oggi abbiamo gli stessi problemi.
«Ma non dobbiamo aver paura della diversità. Per un popolo il confronto con altre culture crea nuove idee. Napoli si è arricchita dalla mescolanza e dalle contaminazioni del passato con spagnoli e francesi. In Francia la grande immigrazione dal Nordafrica ha creato nuovi modi di espressione e oggi c’è una nuova generazione di comici, di attori, di cantanti che hanno qualcosa da dire. Come Gad Elmaleh, che qui in Italia conoscete bene».

Anche lei è un po’ nomade: Vietnam, Roma, Parigi, Miami, Dublino. Non riesce a stare fermo?
(ride) «Un po’ tutti gli artisti sono girovaghi. Vivo in Irlanda perché là nessuno mi riconosce e posso girare per strada in tuta. È importante vivere la normalità. L’adulazione è bella per un po’, poi diventa sterile, invasiva, ti trasforma. E poi a Dublino c’è gente meravigliosa».

Perché detesta che la si definisca «romantico»? Lei lo è!
«Perché il termine è diventato lezioso. La mia musica è melodica, ma piena di graffi. Non amo descrivere un tramonto, non ho bisogno di vedere un paesaggio per comporre, ho bisogno solo di una stanza e di un pianoforte. La mia ispirazione è interiore. E i miei colori non sono pastello, ma forti, sgargianti».

Cocciante, tra poco è ora di cena e la lasciamo. Ma se potesse scegliere, cosa gusterebbe?
(ride). «Di sicuro in tavola ci sarà il peperoncino. Mi piace il cibo piccante. E poi amo cucine diverse, ma il mio piatto preferito è vietnamita: involtini nem con salsa nuoc mam a base di pesce. Da piccolo mi piaceva molto la zuppa di patate e porri, specialità della cucina francese. Viene con noi?».