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 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

MI È SCAPPATA UN’ATOMICA


L’11 marzo 1958, Walter Gregg e suo figlio Walter jr sono nel capanno degli attrezzi della loro casa a Mars Bluff, in Carolina del Sud. Le altre due figlie sono fuori a giocare con una cugina, e la moglie è in casa a cucire, quando dal cielo piomba nel loro giardino nientemeno che una bomba atomica: l’ha perduta un bombardiere B-47 decollato da una base militare in Georgia. La storia di questa arma nucleare sganciata sul suolo americano ha i tratti della farsa, anziché della tragedia, solo perché nella bomba non è inserito il nucleo “atomico”. Ma ci sono, ed esplodono, le cariche convenzionali che servono a scatenare la reazione nucleare: la bomba provoca un cratere, ma appena lievi ferite alla famiglia Gregg, che si limiterà a piangere la scomparsa di alcune galline.

MINACCIA COREANA. È solo uno tra i sorprendentemente numerosi incidenti che le forze armate degli Stati Uniti hanno avuto con le armi atomiche, raccontati da Eric Schlosser in Comando e controllo (Mondadori). Il giornalista investigativo Usa ha raccolto episodi di bombe smarrite, aerei precipitati mentre trasportavano gli ordigni, esplosioni di missili con testate nucleari. Vero è che delle circa 70mila armi atomiche costruite dagli Usa dal 1945 in poi nessuna è mai detonata inavvertitamente, ma le storie degli incidenti sono impressionanti. Anche perché di ordigni nucleari ne restano molti. Ce ne hanno da poco ricordato la presenza il presidente russo Vladimir Putin, che ha detto di sperare che non siano mai necessari contro l’Isis. E la Corea del Nord, che ha dichiarato di aver fatto scoppiare la sua prima bomba all’idrogeno in un test del 6 gennaio (le prime analisi l’hanno messo in dubbio: le onde sismiche rilevate indicherebbero l’esplosione di una molto meno potente bomba a fissione).
Per capire la dinamica degli incidenti raccontati da Schlosser – e perché non hanno avuto conseguenze estreme – dobbiamo accennare a come sono fatti gli ordigni. La bomba atomica “classica” sfrutta l’enorme energia data dalla fissione: la divisione del nucleo di elementi come uranio o plutonio. Nell’ancor più potente bomba a idrogeno, la fissione scatena un’ulteriore reazione (la fusione). Ma l’arma contiene anche esplosivi convenzionali. «Il plutonio, per esempio, deve essere compresso dall’esplosione omogenea di cariche convenzionali che devono detonare nello stesso istante», spiega Nicola Cufaro Petroni, dell’Università di Bari, del consiglio scientifico dell’Unione scienziati per il disarmo. Ecco spiegata l’esplosione “non nucleare” di Mars Bluff: per sicurezza, all’epoca le bombe erano armate con i nuclei “atomici” solo a bordo degli aerei e fuori dal territorio americano e l’ordigno caduto (sul velivolo un membro dell’equipaggio si era aggrappato alla leva di sganciamento manuale) ne era appunto privo. Per lo stesso motivo, non aveva avuto conseguenze un incidente come quello avvenuto il 27 luglio 1956 nella base britannica di Lakenheath. Un B-47 americano che stava eseguendo manovre di addestramento si schiantò contro un deposito di bombe atomiche a bordo pista e prese fuoco. I nuclei contenenti plutonio però erano ospitati in un altro igloo, e non si rischiò di liberare materiale radioattivo nella campagna inglese. Da fine Anni ’50, però, è iniziata l’era delle armi a nocciolo sigillato cioè con nucleo incorporato e quindi si sono resi indispensabili test sulla loro sicurezza in ogni condizione: stoccaggio, trasporto, incendio, impatto con schegge. Così con gli anni, e imparando dagli incidenti, sempre più sistemi di sicurezza furono aggiunti per evitare un’esplosione atomica accidentale. I fatti dicono che hanno funzionato, anche se Schlosser ritiene ci sia stata anche una dose di buona sorte... Perché agli ordigni è successo davvero di tutto.

SCHIANTI. Gli anelli deboli nella sicurezza erano proprio gli aerei Usa che trasportavano armi atomiche o le avevano a bordo, pronti all’attacco, nella Guerra Fredda. Coinvolti in perdite di ordigni, esplosioni e contaminazioni. Come avvenne nel 1958, nella base militare di Sidi Slimane, in Marocco. Qui, un B-47 impegnato in un’esercitazione ed equipaggiato con una bomba H – e con un nucleo pronto nel meccanismo di inserimento – si incendiò per l’esplosione di uno pneumatico. Gli esplosivi della bomba bruciarono senza detonare, ma una volta spento l’incendio rimase una grossa lastra con parti dell’aereo e dell’arma fuse insieme. Radioattiva, fu divisa in parti: la più grande fu sepolta accanto alla pista. Più grave l’incidente avvenuto 10 anni più tardi, nel gennaio 1968, in Groenlandia. A bordo di un B-52 in missione ricognitiva sopra la base di Thule (uno dei luoghi dove erano ospitati i sistemi per intercettare attacchi missilistici russi) scoppiò un incendio. L’equipaggio si paracadutò fuori dal velivolo, che precipitò sulla banchisa col suo carico di quattro bombe all’idrogeno. Gli esplosivi convenzionali esplosero e il carburante prese fuoco, il ghiaccio si ruppe facendo cadere rottami e pezzi d’arma in mare. Grazie ai dispositivi di sicurezza, nessun nucleo era esploso, ma plutonio e frammenti radioattivi si erano dispersi: tra i ghiacci, dovette essere avviata una massiccia operazione di decontaminazione.

MA DOV’È? Del resto, un incidente simile era già avvenuto 2 anni prima, il 17 gennaio 1966, quella volta sopra il territorio spagnolo. La causa era stata uno scontro in volo tra un bombardiere B-52 e un aereo cisterna. I pezzi dei due aerei si erano dispersi attorno al piccolo paese di Palomares e trovare le 4 bombe all’idrogeno perse fu tutt’altro che facile: fu individuata la prima, inesplosa, il giorno stesso; ventiquattro ore dopo furono trovate la seconda e la terza, che invece erano parzialmente esplose e avevano sparso plutonio intorno a loro. Fu la quarta a divenire un caso, mentre una flotta di navi, aerei e sottomarini cominciava a cercarla... Fu ritrovata (né danneggiata né esplosa) solo il 15 marzo, a 800 m di profondità nel mare, e poi recuperata. Persino più inquietante era stata la caduta di due bombe all’idrogeno vicino a Goldsboro, in Carolina del Nord, il 23 gennaio 1961, per un incidente in volo di un B-52. Una bomba reagì come se fosse stata sganciata su un bersaglio, ma non detonò perché uno soltanto dei meccanismi di sicurezza funzionò: un interruttore era e rimase in posizione “disinnesco”. Lo ha confermato il rapporto di Parker F. Jones, dei Sandia National Laboratories, desecretato ed esaminato da Eric Schlosser: Jones scrisse che solo un semplice interruttore si era frapposto tra gli Usa e la catastrofe. La seconda bomba non aveva rischiato di esplodere, ma il suo ordigno secondario all’uranio sprofondò nella terra fradicia e non fu mai trovato. E un incidente devastante coinvolse una testata termonucleare W-53, la più potente mai montata su un missile Usa: armava un Titan II vicino a Damascus, in Arkansas. Tutto iniziò alle 18:30 del 18 settembre 1980 durante un lavoro nel silo del missile: un aviere della squadra di manutenzione perse una chiave a bussola da 4 kg, che precipitò e rimbalzò contro una piattaforma colpendo il missile. Un attimo dopo, da un serbatoio cominciò a uscire uno spruzzo di combustibile vaporizzato. Evacuato il sito, fu chiamata una squadra d’emergenza. Alle 3 di notte, il silo esplose: una persona morì, altre restarono ferite, la testata fu scaraventata a 30 m dall’ingresso del complesso. Senza, grazie alle misure di sicurezza, né esplosioni né perdite di materiale radioattivo. E qualche incidente continua ad accadere: nel 2008, in Wyoming, un silo senza personale con missili Minuteman III prese fuoco, ma nessun sensore lo segnalò e i manutentori se ne accorsero solo entrando, a incendio spento. Dobbiamo fidarci dei sistemi di sicurezza? Sposta il problema (rendendolo forse più inquietante) Francesco Lenci, fisico, della Pugwash Conferences on Science and World Affairs. Il pericolo più grande è che qualcosa non funzioni nella catena di comando e controllo di un Paese: «Un lancio per errore di armi nucleari dopo un falso allarme (molti i casi documentati) scatenerebbe una rappresaglia. E naturalmente c’è anche l’altra possibilità: che terroristi creino in una città un ordigno, pur non trasportabile, semplicemente “sparando” una contro l’altra masse di uranio-235».
Federico Bona