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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

NELLA PANCIA DELLE BANCHE


LONDRA. «Questa volta è diverso» sono le quattro parole più pericolose della finanza, chiosava l’editorialista del Financial Times Martin Wolf nel 2009, recensendo l’omonimo libro di Carmen Reinhart dell’Università del Maryland e Kenneth Rogoff di Harvard. A quasi otto anni dal fallimento di Lehman Brothers, proprio lo scudo ideato da governi e regolatori per rendere il sistema finanziario più sicuro rappresenta il possibile veicolo di propagazione di una nuova crisi. Parliamo delle cosiddette casse di compensazione. Se il modello di banca globale è in declino, oggi sono loro i nuovi giganti dai piedi d’argilla, “troppo grandi per fallire”.
Le clearing house (o casse di compensazione, Ccp) sono società che di mestiere si assumono il rischio di controparte qualora acquirente o venditore non riescano a onorare un contratto. Il loro scopo è evitare che il fallimento di uno dei due finisca per scatenare una nuova crisi finanziaria, come avvenuto nel 2008, quando gli strumenti finanziari derivati venivano scambiati con accordi bilaterali deregolamentati, dove prezzo e qualità degli attivi erano variabili imprevedibili.
Eppure, nonostante oggi le regole internazionali impongano a venditore e acquirente di registrare la transazione e di portare attivi a garanzia della stessa nelle casse di compensazione, queste ultime non sono mai state sottoposte a stress test per verificarne l’adeguatezza patrimoniale. In altre parole, ci si è concentrati sul chiedere alle banche più capitale per evitare l’aiuto dei cittadini contribuenti in caso di crisi, dimenticandosi però di imporre le medesime regole a chi garantisce l’infrastruttura.
Secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), nel primo semestre 2015 il valore nozionale dei derivati che sono nella pancia delle banche mondiali è stato pari a 552 mila miliardi di dollari. Sebbene in discesa rispetto ai 691 mila miliardi registrati a giugno del 2014, la cifra rimane poco rassicurante.
I derivati sono strumenti utili per coprirsi dal rischio di fallimento di un’emittente, come i credit default swap (Cds), o dalle fluttuazioni dei tassi d’interesse, gli interest rate swap (Irs), oppure ancora, cronaca recente, per ripararsi dal crollo del prezzo del petrolio. Infine, per trasferire attività rischiose fuori dai bilanci delle banche.
«Quelli che chiamate derivati tossici non sono mai scomparsi. Le banche avranno sempre bisogno di trasferire il rischio a un investitore che, in cambio di un tasso d’interesse a doppia cifra, sarà pronto a comprare. Un’obbligazione con sottostante dei mutui performing (mutui performanti, sottoscritti da persone che continuano a pagarli senza problemi, ndr) può arrivare a rendere il 10-12%. Più il sottostante ha un basso rating, più il coupon sale», dice a pagina99 un broker di collateralized debt obligation (Cdo) dal suo ufficio ai piani alti di Basinghall Avenue, nella vecchia City.
I dati della Securities Industry and Financial Markets Association (Sifma), una lobby dell’industria finanziaria americana, evidenziano come i Cdo sul mercato a dicembre 2015 siano 805,3 miliardi di dollari, meno degli 835 miliardi di fine 2014 ma più dei 786 miliardi di fine 2013.
In pratica, i Cdo sono delle salsicce, dove i diversi tipi di carne rappresentano mutui, prestiti personali o altri tipi di debito a più alto rischio, suddivisi in diverse tranches (senior, mezzanine, junior), a loro volta aventi un merito creditizio differente, certificato dalle agenzie di rating. Naturalmente, quanto più il portafoglio sottostante è composto da strumenti a basso merito creditizio, tanto più elevato è il tasso di interesse associato ai Cdo.
A fine ottobre scorso, l’agenzia Bloomberg ha dato conto di come il fondo americano StoneCastle Financial avesse impacchettato in un Cdo un portafoglio di obbligazioni subordinate di 35 banche municipali americane, alcune talmente piccole da non avere alcun rating. È come se i bond subordinati di Banca Etruria, Carife, Cari Chieti e Banca Marche fossero finiti in un’obbligazione ad alto rendimento. Insomma, ci risiamo.
Una delle ultime invenzioni dell’ingegneria finanziaria made in Goldman Sachs sono le bespoke tranche opportunities, Cdo aventi come sottostante credit default swap (Cds), quindi assicurazioni contro il rischio di fallimento di un’emittente. In pratica, i Cdo impacchettano in varie fette (tranche) di diversa rischiosità – e quindi rendimento – Cds su singole società quotate, generalmente appartenenti all’universo high yield, cioè ad alto rendimento. Secondo Bnp Paribas, nel 2015 sono stati emesse bespoke tranche opportunities per un valore nominale di 20 miliardi di dollari. Essendo illiquidi, per stabilirne il prezzo di mercato ci si affida a complesse formule matematiche.
«Non controlliamo i bond basati sui mutui subprime, non abbiamo il budget», ammette candidamente la bella dipendente della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic) l’agenzia federale degli Stati Uniti che protegge i depositi dei risparmiatori, nel film La grande scommessa (The Big Short) dedicato alla crisi dei mutui subprime.
Fortunatamente, oggi la realtà è diversa. Quanto? «Nel 2008, quando è fallita Lehman Brothers, la maggioranza schiacciante delle transazioni era over the counter (Otc), sostanzialmente un accordo bilaterale tra offerente e compratore. Oggi, per ogni transazione over the counter la legge impone alle due controparti di registrarla e saldarla presso una cassa di compensazione, evitando così effetti a cascata su tutto il sistema se una delle due va in default», spiega Umberto Cherubini, coordinatore del corso di laurea in Quantitative Finance presso l’Università di Bologna e in passato consulente dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) sui derivati.
Le casse di compensazione o clearing house sono delle società che fungono da «controparte automatica e speculare (venditrice nei confronti dell’acquirente originario e acquirente nei confronti del venditore originario) di tutti i contratti stipulati in un mercato», secondo la definizione di Borsa Italiana. Il loro scopo è limitare il rischio di inadempimento di un contratto.
Tanto per dare un’idea, solo nell’ultima settimana di gennaio la Depository Trust & Clearing Corporation (Dtcc) ha gestito contratti per 12,5 mila miliardi di dollari nozionali. Nel 2015, Lch Clearnet, tra le maggiori casse di compensazione europee, ha assicurato il buon esito di transazioni per 323 mila miliardi di dollari.
«Le clearing house (Ccp) non sono sottoposte a stress test pubblici come le banche. E se da un lato sono fondamentali perché rendono più sicuro il trading, dall’altro, proprio per via della loro attività di compensazione (clearing) sono necessariamente connesse a quasi tutto il sistema finanziario», afferma Silvia Merler, affiliate research fellow presso il Bruegel Institute di Bruxelles.
Timothy Massad, presidente della Commodities Futures Trading Commission (Cftc) americana – il regolatore di futures e delle opzioni – in un discorso pronunciato il 22 gennaio scorso sottolineava tra le priorità del 2016 quella di «determinare degli standard per effettuare degli stress test sulle Ccp, che aiuteranno a valutare i rischi cross border. Cosa succede se una Ccp ha un problema, o se una o più Ccp falliscono? E se le risorse disponibili per affrontare un default non fossero sufficienti?».
Già nel 2011 Mark Roe, professore alla Harvard Law School, in un editoriale al vetriolo apparso su Project Syndicate sosteneva come i regolatori internazionali abbiano sovrastimato i benefici reali delle casse di compensazione, le quali ridurrebbero sì i rischi all’interno della clearing house, ma fallirebbero nel prevenire il loro trasferimento all’esterno, ovvero se una delle due controparti all’interno della clearing house fallisce su transazioni effettuate al di fuori della clearing house. In altre parole, non essendo possibile una cassa di compensazione globale per tutte le transazioni, da un fido di 10 mila euro fino ai Cdo, il rischio c’è sempre.
C’è di più. Avere un capitale regolamentare sufficiente ad attutire shock macroeconomici può non bastare ugualmente a uscire indenni dalla prossima crisi. «Le regole internazionali hanno creato uno scudo che ai tempi di Lehman non c’era, eppure la capacità di lobbying dell’industria finanziaria lo ha ridotto ai minimi termini», continua Cherubini. Prima la diga non c’era, ma è dalla bontà dei materiali, cioè del capitale, utilizzato dai costruttori che si capirà se riusciremo a evitare un altro Vajont.
«Le banche hanno interpretato a modo loro l’articolo 105 della Capital Requirements Regulation (Crr) della European Banking Authority (Eba), che prevede la cosiddetta prudent evaluation sul mark to market, ovvero l’obbligo di riportare sui propri libri il valore equo (fair value) degli strumenti finanziari che hanno in pancia, e accantonare capitale per tener conto che questi prezzi possano essere sbagliati», osserva Cherubini. «Questo esercizio è affidato ai modelli interni, e non a un organismo indipendente».
«Dal primo trimestre 2016 la prudent evaluation impone di accantonare capitale per evitare le perdite nascoste dal mispricing dei titoli tossici», conclude Cherubini. Si tratta di attività iscritte a bilancio dalle banche nella categoria Level 3, che include strumenti «illiquidi e di difficile valutazione» stando alla definizione del Financial Accounting Standard Board (Fasb). In sostanza, Cdo e altri titoli strutturati sui quali, in termini di prezzo, tocca prendere per buona la parola della banca.
A giugno 2015, la banca d’affari J.P. Morgan deteneva asset di livello 3 pari a 38 miliardi di dollari, Deutsche Bank a 22 miliardi di euro, Hsbc a 13 miliardi di dollari, Bnp Paribas a 30 miliardi di euro e Unicredit a 3 miliardi di euro, giusto per citare alcune delle G-Sib, le 30 istituzioni finanziarie riconosciute di importanza sistemica dal Financial Stability Board (Fsb), l’organismo internazionale che si occupa di sorvegliare il sistema finanziario globale.
In preparazione al meccanismo unico di supervisione (Single Supervisory Mechanism o Ssm), la Bce nell’inverno 2014 ha condotto attraverso l’Eba uno stress test su 130 banche europee, mettendo sotto la lente anche gli attivi di Livello 3. Guardando il bicchiere mezzo pieno, su 82 miliardi di strumenti registrati come Livello 3 a bilancio, la Bce ha imposto ulteriori svalutazioni per 1,2 miliardi di euro. Sui derivati di Livello 3 invece le svalutazioni si sono fermate a 223 milioni, riferite alle 16 banche aventi esposizioni verso questi titoli oscuri giudicate “significative” dagli uomini di Mario Draghi.
Il problema rimane contabile. Eli Remolona, rappresentante dell’Area Pacifico presso la Banca dei regolamenti internazionali (Bis), nel 2010 calcolò che i derivati sui mutui subprime avessero causato 500 miliardi di dollari di perdite alle banche Usa, ma ben 4 mila miliardi di dollari di svalutazioni nei loro libri. Il prezzo, evidentemente, non era giusto.