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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

LA VOCE DEGLI AYATOLLAH RISUONA A COLPI DI RAP


Dai concerti illegali nei locali sotterranei di Teheran al vascello della Marina militare. Amir Hossein Maghsoodloo, in arte Amir Tataloo, ha fatto un bel salto. Volto conosciuto della musica underground iraniana, milioni di fan sui social network banditi dal regime, accusato nel 2013 di collaborare con canali satellitari stranieri e di diffondere «culti satanici», oggi il trentatreenne Amir Tataloo presta la voce agli ayatollah.
Lo scorso luglio, il giorno prima che venisse firmato l’accordo sul nucleare tra l’Iran e il gruppo dei 5+1 (Usa, Cina, Francia, Germania, Russia e Regno Unito), su YouTube è stato pubblicato il videoclip Energia nucleare. Si apre con una scritta che recita così: «Nessuno può negare alla nazione iraniana il diritto all’energia nucleare pacifica». In 3 minuti e 20 secondi Amir Tataloo, ripreso a bordo di un vascello della Marina, spiega perché: «Se è male, lo deve essere anche per te, se è bene, vale per tutti. Sono un iraniano onesto, contrario a tutte le violenze, ma se ti imponi con la forza, resterò con tutto me stesso sulla mia strada». Il ritornello, lanciato dal ponte della nave e ripetuto dai soldati mentre battono ritmicamente i piedi, è ancora più chiaro: «È un nostro diritto assoluto, avere un Golfo persico armato».
Recitata in lingua farsi ma con sottotitoli in inglese, la canzone è uno degli esempi più significativi del nuovo corso che il regime sta imprimendo alla propaganda interna. Conquistare i giovani con il loro linguaggio e i loro canali di comunicazione, puntando sul nazionalismo, più che sui tradizionali valori islamici. Il passo è necessario: i giovani rappresentano il più consistente blocco sociale del Paese.
Il 65% circa degli 80 milioni di abitanti dell’Iran ha meno di 35 anni. Il 40% è sotto i 25. Si tratta di una gioventù molto istruita, che studia, legge, si informa, è curiosa verso il resto del mondo e pienamente consapevole dei limiti che le vengono imposti. Nati dopo la rivoluzione del 1979, molti sentono come aliene le parole d’ordine della leadership.
Quella retorica da guerra fredda, quei motti antimperialisti, quel ripiegamento autarchico suonano vuoti, sorpassati, desueti, inservibili. I clerici al potere appaiono come mummie. Congelati in un’età della pietra, quei vecchi non capiscono che una rivoluzione, per definizione, non può durare quarant’anni.
Sta qui, il vero nodo da sciogliere: il sistema è ancora rivoluzionario, a parole e nell’architettura istituzionale, ma la società è per lo più post-rivoluzionaria. Lo scollamento demografico e ideologico è evidente. La crescita della popolazione, fisiologica dopo il “baby-boom” degli anni Ottanta, si è trasformata in pressione sociale, in rivendicazioni politiche, a volte in aperte contestazioni.
Come nel 2009, al tempo della cosiddetta “Onda verde”, quando vennero contestati i risultati delle elezioni presidenziali, che attribuivano la vittoria a Mahmoud Ahmadinejad. Le proteste furono represse. Gli attivisti uccisi, picchiati, spediti in prigione o costretti all’esilio. I leader politici riformisti, come i candidati Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, finirono agli arresti domiciliari, dove si trovano tuttora.
La lezione è valsa per tutti. Gli attivisti hanno avuto conferma che l’intero sistema è marcio, ma che buttarlo giù a spallate non si può. L’establishment ha capito che c’è una parte della popolazione in fermento per cambiare le cose. E che i vecchi slogan non funzionano più. Da qui, il tentativo di usare strumenti e linguaggi diversi. Di aggiornare stile e contenuti della propaganda.
«Ci siamo accorti di aver allontanato i giovani con la propaganda che abbiamo prodotto negli anni Ottanta e Novanta», ha spiegato alcuni mesi fa sul quotidiano The Guardian un anonimo produttore cinematografico pro-regime. «Dobbiamo imparare a parlare il linguaggio della gioventù e usare i suoi codici se vogliamo che apprezzi i nostri lavori».
È questa la nuova scommessa dei mullah. Riguadagnare consenso usando canali, mezzi e tendenze culturali bandite, censurate, costrette nei canali illegali o esteri. Cooptando perfino quei cantanti accusati di diffondere messaggi contrari ai valori della Repubblica islamica.
La storia del cantante Amir Tataloo, finito sotto l’occhio della polizia religiosa nel 2013, «re del rap, del rhytmn & blues e del pop persiano» e ora voce del regime, è esemplare. Sui social network, il cambiamento non è piaciuto: «Meglio che si ritiri, l’ha fatta grossa», accusa qualcuno. «Canzone niente male», replica qualcun altro. «È giusto rivendicare il nostro diritto all’autodifesa», aggiungono in molti. Da questo punto di vista, la strategia sembra funzionare. La propaganda di matrice islamica ha poca presa, sui giovani. Ma quella nazionalistica scalda gli animi, in modo trasversale. Anche chi contesta il regime, rivendica dignità e pieno riconoscimento per un Paese troppo a lungo considerato pariah. Ma nessuno si fa fregare: «La canzone sarà pure bella, ma dietro ci sono i mullah».