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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

JASPER JOHNS


Non è facile contattarlo. Qualche mese fa un’amica americana mi ha dato il suo nuovo indirizzo di posta elettronica: «Prova a scrivergli, ma sarà inutile, non vuole essere più disturbato da nessun estraneo». Lo scorso luglio gli mando una mail: nessuna speranza di ottenere risposta. Invece, la risposta arriva. Jasper Johns mi chiede di inviargli qualche domanda. Settimane dopo. Ricevo un’altra mail in cui, pur se in maniera laconica, Johns consegna a «la Lettura» una frammentaria riflessione poetica di straordinaria importanza. Dunque, inaspettatamente accetta di raccontarsi con il suo inconfondibile understatement.
Da anni il riservato padre del New Dada – nato ad Augusta, Georgia, il 15 maggio 1930 – ha scelto di non farsi in alcun modo contaminare dalle tante sollecitazioni che gli provengono da critici, da galleristi e da direttori di musei. Dal 1995 si è ritirato in una tenuta nel Connecticut («ci sono solo i cervi; li odio perché distruggono tutto»). Lì dipinge poco e frequenta solo qualche amico. Di rado si confessa, come aveva già fatto con il «Corriere della Sera» (12 aprile 2011).
Questa volta, però, si concede con maggiore disponibilità, svelando aspetti poco indagati della sua identità. Colto e controllato, afferma di aver assegnato sempre nel suo lavoro un’assoluta centralità a virtù segrete e sfuggenti come l’inconscio e, soprattutto, la memoria. Che è fondamento leggero e, al tempo stesso, robusto della nostra esistenza: conserva le nostre radici. Palazzo labirintico, nelle cui stanze si affolla un’infinita molteplicità di situazioni, la memoria è inconsistente, ma indispensabile: senza di essa, tutto crollerebbe in mille pezzi. Segnata da ferite e da fratture, può essere ispirata da un odore, da un sapore o da un suono. Nelle sue maglie stringe brandelli di vissuto, che vanno difesi da una tragica diaspora. Si offre a noi come spazio dilatato nel quale – senza ordine – si riannodano fatti eterogenei, cui si attribuiscono echi ulteriori.
Contrariamente a quanto è stato spesso sottolineato, questa sorta di epigono del Nathan Zuckerman raccontato in Il fantasma esce di scena di Philip Roth non si considera affatto un artista impegnato nel sistema dei media e nella società dei consumi. Si descrive, invece, come un lontano erede di Proust, sulle cui orme concepisce le sue opere come dispositivi per provare a trattenere ricordi affiorati dal fondo della coscienza.
Rivelatore, innanzitutto, il frequente ricorso, sin dalla metà degli anni Cinquanta, a una tecnica antica come quella dell’encausto: gli egizi erano soliti ricoprire i sarcofagi di legno con dipinti a cera raffiguranti il corpo mummificato all’interno. Sulle orme di questa strategia, Johns predilige l’encausto perché asciuga e si raffredda rapidamente; è morbido e disponibile a conservare ogni gesto; può accogliere le diverse stratificazioni delle pennellate, tra correzioni, addizioni e sottrazioni; permette di fondere l’icona con il suo supporto; e trasforma il quadro in un letto su cui deposita effigi appena emerse.


Sapiente nel predisporre personalmente le sue «imprimiture», Johns sovrappone vari livelli di pittura. In seguito, immerge nella cera strisce di giornali o altri fogli stampati. Poi, incolla queste materie sulle tele, sigillandole come insetti nell’ambra. Infine, dentro questi orditi, incastona reperti di un’archeologia interiore: bersagli, bandiere, carte geografiche, numeri, lattine di birra, torce elettriche, fotografie. Distante dall’estetica dell’indifferenza, egli si propone di custodire alcune disperse reliquie della quotidianità. Che ingloba nel corpo delle sue opere, alterandone le fisionomie e i significati. Le ri-situa in contesti inattesi; le rende irriconoscibili, tremolanti; talvolta le immerge dentro magmi cromaticamente densi, determinando collisioni tra rappresentazione e astrazione, tra figurazione e minimalismo, tra tridimensionalità e piattezza. Insomma, si appropria di alcuni elementi convenzionali e li dona a noi come segni ambigui, «sensualizzati», fino a dissolverne la consistenza.
Quasi mimando il funzionamento della memoria – che è fatta di lacune e di lacerazioni – Johns con sottigliezza evoca momenti, indizi e fantasmi di un recente passato che non vuole far tacere; e li ripone nelle sue opere. In particolare, si pensi a cicli come Target, come Flags e come Maps – indirette riscritture del genere classico della natura morta – dove fragili tracce vengono salvate dall’oblio.
«Mi interessano le cose che suggeriscono il mondo», ha detto. Quelle cose hanno lo stesso valore della madeleine proustiana: pur comuni e usuali, generano giochi di rimandi, conducendo verso altri territori semantici. È, questa, la ragione per cui, nei suoi scritti e nelle sue interviste, Johns ha sovente parlato dell’importanza della categoria freudiana di transfert. Il suo fine, ha scritto nel 1959, è «raggiungere l’impossibilità di una memoria visuale sufficiente a trasferire l’impronta della memoria da un oggetto simile a un altro».
Intento a esplorare il lato ermetico di alcuni luoghi comuni, egli preleva un certo «motivo» cui dà un senso diverso rispetto a quello che detiene nella realtà: lo tratta come una metonimia capace di alimentare rinvii e associazioni. Ad esempio, in White Flag (1955), assume una classica bandiera americana, e la ri-loca: restano le stelle e le strisce, ma quella bandiera non è più un simbolo politico; non sventola; è immobile; è campita da fasce disegnate con la precisione di un diagramma, che definiscono l’ordito di una perfetta composizione geometrica. Ecco il potere della pittura: rendere astratto qualsiasi soggetto «vero», mettendo in atto ardite trappole percettive tese a disorientarci.
A questa filosofia Johns è rimasto fedele. Come conferma Regrets, la sua ultima serie di opere esposta al Moma di New York nel 2014, dove ha recuperato un ritratto fotografico di Lucian Freud commissionato da Francis Bacon e scattato da John Deakin, e lo ha reinventato grazie a tecniche diverse (olio, acquerello, inchiostro, acrilici, stampe, fotocopie) e a giochi di duplicazione (la foto riflessa in uno specchio). Ancora una volta un modo per far tornare alla luce schegge di passato. Trasfigurandole, sfigurandole.

Vorrei muovere dal concetto di memoria che, come hanno sottolineato alcuni critici (James Cuno e Barbara Rose), è decisivo per interpretare la sua opera. L’arte è un «apparato» per ri-abitare il passato?
«Suppongo che gran parte del nostro pensiero implichi la memoria, ma essa non è qualcosa che ricerco consapevolmente».
Ha intenzione di scrivere un libro di memorie?
«Non so organizzare il mio pensiero. Non so pensare».
«Osservare qualcosa può portare il cervello a fare qualcosa d’altro. Il mio lavoro può includere, come un tema di fondo, rimandi alla cosa vista», ha detto nel 1959 a David Sylvester. Si riconosce ancora in quelle parole?
«Sì. Ho stimato David. Ma non amo i critici. Non li voglio mai qui a casa mia».
Sempre nell’intervista a Sylvester, ha dichiarato: «Il fatto stesso di lavorare può far emergere ricordi di altri lavori: (...) dipingere questi fantasmi sembra essere un modo per farli tacere». La consuetudine di assimilare nei suoi quadri oggetti, pagine di giornali e fotografie rivela la sua necessità di proteggere alcune tessere di ciò che non è più?
«Non c’è il desiderio di attingere ai fantasmi. Appaiono spontaneamente. Le esperienze già vissute sembrano spesso influenzare le nostre azioni nel presente. Da sempre è così per me».
La nozione di memoria è strettamente collegata a quella di inconscio. Che rapporto esiste, nella sua pratica artistica, tra intenzionalità e inconscio?
«Quel che fai contiene un’energia che ti arriva da un luogo oscuro e ti trasmette una certa grazia. A te sta solo saper accogliere quell’impulso. Un’opera può dirsi finita quando è risolta in sé, quando è per se stessa, quando ti ha svuotato, quando tutte le sue parti sono andate in una certa direzione, e non sono più possibili ritorni. Se chi la realizza è in grado di entrare in contatto con le forze che creano e guidano la nascita di quella stessa opera».
Il recupero di oggetti – quasi neutralizzati nella superficie della pittura – nelle sue opere sembra richiamarsi non al modello del ready made di Duchamp ma alle «dissoluzioni» in cera di Medardo Rosso. Condivide questo riferimento?
«Non sono ben informato sull’arte italiana. Ma non concordo con l’utilizzo del termine “dissoluzione” a proposito delle sculture di Medardo».
Nei suoi quadri, le «cose» sembrano possedere una doppia identità: sono segni inerti che, mentre vengono presentati, diventano altro da sé. Per governare questo passaggio, si affida all’artificio del «transfert».
«Se si crede nell’inconscio – e io ci credo – c’è spazio per ogni possibilità. Ma queste opportunità sfuggono a tutte le dimostrazioni razionali. Nei miei lavori, mi occupo di una determinata cosa, che per me non è più quello che era in origine. Mi interessa il suo divenire altro da ciò che era. Mi soffermo sul momento in cui viene identificata con precisione una certa forma, mentre quel momento scivola via».
Nei suoi cicli spesso ha fatto dialogare l’attenzione al piano oggettuale con una sincera sensibilità per la qualità della pittura. In che modo è riuscito a saldare queste differenze?
«Non rappresento gli oggetti: li uso come un’estensione del dipingere. Per me, non ha alcuna importanza quel che l’arte evoca. Deve tenere occupati i tuoi occhi e la tua mente. E apparire come un’affermazione non ponderata ma disperata: il gesto finale deve mostrare quello che non potevi evitare di dire, non ciò che hai deciso dire. Poi, starà a chi guarda usufruirne. Quando e come vorrà».
Tra i suoi cicli storici, vorrei soffermami su «Maps». Come sono nate? Esiste una dimensione politica e autobiografica sottesa a quella serie?
«Nel 1950 Rauschenberg mi diede una piccola mappa degli Stati Uniti continentali con gli Stati delineati. Vi dipinsi sopra e gliela restituii. Dopo, cominciai a rielaborare quella stessa immagine su varie scale, estendendone i contorni, per includere porzioni del Messico e del Canada. Con Maps non volevo fare dichiarazioni patriottiche. Molti hanno pensato che quelle fossero opere sovversive. È buffo constatare come i sentimenti del pubblico possano ribaltare il significato autentico dell’arte».
Spesso si sono colte affinità tra il rapporto che lei ha avuto con Rauschenberg e quello di Picasso con Braque.
«All’inizio degli anni Cinquanta, Rob aveva attraversato un periodo difficile: la sua galleria aveva chiuso. In quell’epoca abbiamo vissuto in uno stato di relativo isolamento a New York. Abbiamo parlato molto: ciascuno di noi due ha rappresentato un po’ il pubblico per l’altro. Abbiamo discusso progetti per possibili lavori. Occasionalmente, ci siamo suggeriti idee. Siamo stati vicini. Insieme, abbiamo capito meglio quello che stavamo facendo».
I riferimenti all’amicizia con Rauschenberg mi portano a chiederle di ritornare ai suoi anni di formazione.
«Nella mia infanzia c’è stata poca arte. Sono cresciuto nella Carolina del Sud. Laggiù non c’erano musei né gallerie. Solo a Charleston c’era un piccolo museo di provincia. Vi erano esposti artisti locali, autori di dipinti di uccelli. Non so con esattezza quando ho cominciato a desiderare di fare l’artista. Ci sono fasi in cui cambiamo corso quasi senza accorgercene. Eppure, quasi tutto si impara gradualmente. A un certo punto, verso la metà degli anni Cinquanta, mi sono detto: “Sono un artista”. Prima, per molti anni, mi ero ripetuto: “Diventerai un artista”. È stato un enorme cambiamento spirituale».
Anche in «Regrets» è partito da qualcosa di lontano: da uno scatto dell’inglese John Deakin, ritrovato in un catalogo della casa d’aste Christie’s.
«La fotografia di Deakin non era qualcosa di lontano. La tenevo in mano. Non so cosa mi abbia indotto a utilizzarla. Qualche anno prima avevo provato a lavorare con una foto di un soldato in preda alla disperazione, in una posa piuttosto vicina a quella del personaggio che appare ora in Regrets. Quel tentativo diede come risultato solo qualche schizzo. Ho più volte ripensato a quello che mi aveva colpito nella composizione di Deakin. Anche se, quando inizio un quadro, non muovo mai da un’idea chiara».
Come ha modificato la «matrice» di Deakin?
«L’ho ricalcata. In seguito, l’ho riflessa allo specchio, come in un test di Rorschach. In larga misura, ho tracciato i contorni delle cose mostrate in quello scatto maltrattato dal tempo: gli strappi, le pieghe, le linee dei danni».
Forse, è la prima volta che assume una fotografia in un suo ciclo di opere.
«La fotografia mi ha sempre interessato, perché offre indizi diversi su spazi che occupiamo ogni giorno. Ci fa guardare il reale con altri occhi. Inoltre, può attivare energie di cui noi stessi non siamo consapevoli. Non ritengo che alteri la pittura».
«Regrets» è anche un dialogo a distanza con Bacon e Freud?
«Non riesco a leggere Regrets in questo modo. Non sapevo neanche che fosse Lucian Freud la persona ritratta quando vidi quell’immagine per la prima volta. Ne sono stato attratto profondamente. Non l’ho analizzata né mi sono sforzato di capire il soggetto ripreso».
Come spiega la presenza dei teschi in «Regrets»? Un’allusione al concetto di «vanitas»?
«Il teschio ha preso forma da sé quando ho riflesso nello specchio il mio “ricalco” della fotografia».
Nel suo insieme, la sua opera sembra indicare con forza la centralità della disciplina pittorica. Al punto che lei è stato definito da Robert Hughes un «virtuoso del pennello», che distende stesure sobrie e piacevoli con una sensualità misurata. Potrebbe raccontarmi il suo modo di dipingere?
«Non sono in grado di farlo. Non ho un metodo rigoroso cui mi attengo. Per me conta solo il processo del fare. Cerco di procedere in modo quasi illogico: voglio che il mio lavoro vada dove non ci si attenderebbe. Ho utilizzato media differenti in stagioni diverse, ma non ho mai pensato a me come a un virtuoso della pittura. Solo dopo che le cose sono andate bene, ho avuto la sensazione di aver imboccato la strada giusta. Prima, mai. Ma tutto è accaduto inconsciamente: senza programmare niente».
Quali sono le virtù di una tecnica antica come quella dell’encausto, di cui si è spesso servito?
«Agli inizi degli anni Cinquanta dipingevo con i colori a olio, che non si asciugavano abbastanza rapidamente: io volevo aggiungerne sopra subito altri. Ho letto dell’encausto su qualche libro e ho provato a usarlo. È stata la soluzione di un problema. L’ho adottato perché per me era importante che la pennellata si indurisse velocemente, consentendo di applicarne sopra un’altra, senza che quella precedente sbavasse».
Le sue opere – da quelle giovanili all’ultimo ciclo – sembrano collegarsi e continuarsi tra di loro, dando vita a gruppi nei quali si rimodulano a oltranza impreviste narrazioni visive.
«È così. Può accadere che una persona si concentri sempre sulle stesse ossessioni e sugli stessi problemi, affrontandoli in modi diversi. Suppongo che questa tensione, ma anche la sua dissipazione, abbiano dato origine ai miei “gruppi”. Gli spettatori, però, non sono attenti a queste relazioni».
Come le sembra l’«artworld» di oggi? Va alle mostre? Frequenta artisti, critici, galleristi?
«Vivo a due ore di distanza da New York e non mi capita spesso di andarci per visitare le mostre. Di solito vedo solo le esposizioni di amici artisti o di maestri del passato».
Nel 1964 Frank Stella ha realizzato un dipinto intitolato «Jasper’s Dilemma», alludendo al suo porsi sempre su una soglia, tra rappresentazione e astrattismo, tra oggetto e immagine, tra colore e chiaroscuro, tra contorno rigido e sfumato. Ritiene di aver risolto quel «dilemma»?
«L’opera di Stella si riferisce alle mie tele eseguite con i colori dello spettro cromatico e a quelle basate sui grigi e sulla scala tonale dal bianco al nero. Credo di non aver ancora risolto il mio “dilemma”. Non lo risolverò mai».
Adorno ha scritto: «Lo “stile tardo” non può essere il risultato della vecchiaia o della morte, perché lo stile non è una creatura naturale e le opere d’arte non hanno una vita organica da perdere. Ma la morte incipiente di un artista entra comunque nella sua opera”. Cosa significa, per lei, continuare a dipingere a 85 anni?
«Penso che le idee oggi mi arrivino in modo diverso rispetto a quando ero giovane. Da ragazzi il senso della vita che sentiamo addosso è inesauribile: è solo in quegli anni che percepiamo la velocità con cui cambiano le cose. Nel tempo, inevitabilmente muta il nostro pensiero».
In questo periodo sta dipingendo?
«Non sto lavorando adesso. Anzi, sto lavorando. Ma non in maniera produttiva».
Vincenzo Trione