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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

IL FASCINO DISCRETO DEL PUDORE


Unire moda e religione non è mai stata un’impresa facile. Eppure la questione resta vitale per il mercato del lusso contemporaneo. Facile capire perché: buona parte del settore più “alto” vive grazie ai grandi compratori dei Paesi arabi, e voler avere rapporti commerciali con quelle zone equivale a doversi confrontare con i loro precetti, usi e costumi. Di passi falsi se ne possono fare parecchi: come quando nel ’94 Lagerfeld per Chanel mandò in passerella un corsetto ricamato con i versi del Corano, convinto che si trattasse di una poesia d’amore. Con il tempo e l’esperienza, però, la faccenda ha subito uno sviluppo per certi versi inaspettato. È passata l’epoca in cui si riteneva che per sfondare in quei Paesi bastasse abbondare con cristalli, oro e decori (i luoghi comuni sono duri a morire, anche nella moda). Si è assistito a una lenta e progressiva traslazione dell’estetica di molti designer verso una concezione più adatta al modo di vivere di certe culture. Un cambio avvenuto dunque a monte, all’inizio della catena creativa per così dire, magari non smaccato ma innegabile: orli più lunghi, gonne e pantaloni sovrapposti, abiti da sera con maniche lunghe e décolleté ben coperto. Intanto sulla scena internazionale sono arrivate alcune, strepitose icone come Rania di Giordania, che hanno dato una spinta ulteriore verso l’accettazione globale di quell’eleganza. Altro fattore determinante è stato il successo di creativi – quasi tutti donne – sin dal principio portatori di un’immagine pudica, più sobria e meno platealmente sexy. Stella McCartney, Phoebe Philo per Céline, le gemelle Olsen con The Row, e soprattutto il Valentino di Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli, maison acquisita nel 2012 dallo sceicco del Qatar su suggerimento della moglie, Mozah bint Nasser al-Missned: sono loro gli interpreti di una sensibilità definibile, per mancanza di altri termini, “modesta”. E se la notizia del lancio da parte di Dolce&Gabbana di una collezione di abaya ha fatto da detonatore sui media (un’operazione simile era stata, nel 2014, la linea per il Ramadan di Dkny), il sistema è già alla fase successiva, con la modest fashion assurta a fenomeno di costume. Coinvolge non solo le consumatrici di fede musulmana ma di ogni credo, nonché tutte quelle donne che per gusto personale aspirano a un abbigliamento meno sfacciato. A questo punto la religione, per strano che possa apparire, è solo una parte della storia. Non la sua unica ragion d’essere.
Prova ne è che tra i rappresentanti di maggiore spicco della tendenza ci sia un brand di Brooklyn fondato dalle trentenni Mimi e Mushky, MimuMaxi. Le loro specialità sono lunghe vesti morbide e fluide dalle tonalità naturali, perfette per quel minimalismo rilassato tanto in voga: grazie anche ai prezzi relativamente contenuti, la collezione è piaciuta molto a pubblico e stampa, in gran parte ignari che il marchio sia stato fondato nel rispetto delle severe norme d’abbigliamento dell’ebraismo chassidico, la religione di entrambe. Nessun equivoco, visto che loro tengono a ribadire l’indipendenza stilistica. E la pensano così anche l’americana Eve Emanuel di More Than Just Figleaves, linea “laica” che però rispetta i codici estetici delle principali dottrine, e l’israeliana Nava Brief-Fried, fondatrice di ModLi, piattaforma digitale che raccoglie decine di boutique specializzate in modest fashion. Anche per lei la svolta è arrivata all’insegna della pluralità religiosa, tanto che il suo e-store contiene al momento negozi musulmani, mormoni, cristiani ed ebraici. Tutte hanno saputo cogliere l’importanza crescente di certe richieste: Nava forse non sbaglia a paragonare il suo lavoro, con le dovute proporzioni, a quello di Coco Chanel, che ha dato alle donne del suo tempo esattamente ciò che volevano, ribaltando, ripulendo e modernizzando lo stile dell’epoca.
Non vanno poi trascurate le decine di blog nati per mappare i negozi di tutto il mondo: Melanie Elturk, fondatrice di Haute Hijab, spiega di aver preso spunto da lì per il suo brand. La statunitense ebrea ortodossa Adi Heyman, col suo sito Fabologie, è tra le influencer più potenti e fotografate, nonostante rispetti alla lettera i canoni imposti dalla sua religione (per esempio indossa una parrucca, per non mostrare i capelli in pubblico). La richiesta quindi c’è, e il mercato si sta muovendo di conseguenza. Non che sia tutto facile, però. «Voler fare questo lavoro in Arabia Saudita non è semplice: per esempio, per realizzare i cataloghi devo andare all’estero, perché qui la legge me lo impedisce», spiega Reem Al Kanhal, designer emergente capace di mescolare silhouette “locali” e spirito occidentale. Lei, una passione per la moda nata quand’era ancora bambina, ha frequentato l’unica scuola di design di Riad diventando una pioniera del settore. Quando le si chiede di cosa sia più orgogliosa, risponde immancabilmente: poter essere d’esempio per i numerosi compatrioti che vogliono intraprendere la sua stessa carriera.
L’argomento resta spinoso. Esemplare è la polemica scoppiata un anno fa negli Usa (riportata anche dai quotidiani israeliani), quando MimuMaxi ha pubblicato sul sito una foto di Summer Albarcha, blogger musulmana di Saint Louis, in un look della maison. Mimi e Mushky hanno rifiutato di eliminare l’immagine come richiesto dagli ambienti ebraici più conservatori, ribadendo l’apertura del marchio a tutte, a prescindere dalla religione. Ma è chiaro che il tema tocca un nervo scoperto. È assai indicativa anche la veemenza con cui chi lavora nel settore continua a sostenere che siano le donne stesse, stanche di esibire il proprio corpo, a volere un certo tipo di moda. «Odio che si scopra la pelle per vendere abiti o attirare lo sguardo», sbotta Reem. «I miei idoli sono Charles James, Jean Paul Gaultier, Christian Dior, John Galliano: couturier che scolpiscono il tessuto, esaltando così chi indossa le loro creazioni». Il ragionamento fila: se nel mercato c’è posto per abiti al limite della decenza, allora hanno pieno diritto a essere soddisfatte anche le richieste di chi non vuole mettersi in mostra. E sono tante a pensarla così: nel 2012, per ritirare l’ennesimo Golden Globe come protagonista di The Iron Lady, Meryl Streep era salita sul palco in un lungo abito con castigati inserti di pizzo, tasche e cinturina in vita. La creativa era Alessandra Rich, italiana trapiantata a Londra, ideatrice di una linea di abaya di lusso presto evolutasi in abiti da sera pudichi e molto sofisticati. Il bello è che la grande attrice quell’abito se l’era scelto e comprato da sola da Harrods: nessuna stylist a consigliarla, nessun accordo con la designer – la norma quando si tratta di red carpet – nessuna volontà di assecondare qualche trend. Un bel colpo per Meryl, che ha dimostrato quanto quello stile, in apparenza tanto lontano dall’estetica contemporanea, fosse apprezzato dalle donne; e per Rich, diventata nel frattempo un nome di riferimento di star e socialite, dagli Usa al Medio Oriente. Alla fine tutto si riduce alla legge della domanda e dell’offerta: la normalizzazione passa anche da qui.