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 2016  febbraio 22 Lunedì calendario

LA CRISI SPINGE L’ACQUISTO DI DIAMANTI. BOOM DI RICAVI PER CHI LI VENDE IN BANCA

Milano Le turbolenze sui mercati hanno ridestato la storica passione degli italiani per gli investimenti in beni rifugio. Un popolo avverso al rischio finanziario, che ha sempre preferito mettere i soldi nel mattone, nei Btp, talvolta nei lingotti d’oro. Negli ultimi tempi a questi beni che dovrebbero dare più sicurezza e stabilità se ne va aggiungendo uno nuovo, anzi antico. Il diamante, la pietra più dura e pura, che per ragioni storiche e culturali viene associata alla conservazione e ai valori inscalfibili. Come sempre, però, non bisognerebbe lasciarsi troppo condurre dalla psicologia e dall’emotività: il “diamante da investimento” riflette sì un’ottica conservativa, e permette di diversificare i rischi di patrimoni grandi e piccoli. Però deve restare una soluzione parziale, anche perché nel mondo ci sono molte più paure che diamanti e tasche. Per Maurizio Sacchi, amministratore delegato di Diamond private investment, la giusta quota da destinare a questo investimento è intorno al 5% del patrimonio mobiliare: «E’ vero, in questa fase vediamo una corsa ai beni rifugio - racconta il fondatore dell’azienda leader di mercato della vendita di diamanti al pubblico tramite il canale bancario - ma io preferirei che s’investisse in diamanti quando i mercati corrono. Oggi c’è il rischio che i risparmiatori, inseguendo paure e ansie, distorcano un mercato molto sottile e tranquillo, che non va turbato». Sacchi è un esperto ultraventennale: dopo avere fatto crescere la Intermarket diamond business, nel 2004 ha fondato la società che ormai l’ha scavalcata per quota di mercato sulle banche, in un duopolio che offre pietre ai clienti degli istituti che le richiedono. Per capire i suoi timori di “troppa grazia” bisogna ricordare che il mercato dei diamanti è ridotto (in Italia non arriva al miliardo di euro) e caratterizzato da offerta limitata e calante. Un pugno di produttori mondiali domina i flussi, le pietre si vanno esaurendo e l’80% della produzione si consuma negli scopi industriali (trivelle, presse e simili). Solo un quinto del prodotto si destina alle gemme, e solo un 2% ha caratteristiche qualitative adatte all’investimento. Servono purezza, colore, taglio e pezzature adatte – tra 0,5 e 1,5 carati – per fare di una pietra da gioielleria un diamante da investimento. Spesso cambia anche il prezzo: che lievita fino a due, tre volte tanto. Ma i prezzi sono funzione della qualità, che per i diamanti da investimento è garantita e valutata dalle Borse di Anversa e di New York. Inoltre questi diamanti rispettano gli standard etici delle quattro risoluzioni Onu in materia, e rispondono al processo Kimberley di certificazione e tracciabilità. Per questo motivo non si possono vendere “in nero”: mentre talvolta i gioiellieri si scordano di fatturarli. Quasi tutte le banche italiane negli ultimi anni si sono convenzionate ai due operatori citati, tramite contratti di segnalazione con cui gli istituti indirizzano i clienti. Normalmente il luogo dello scambio è la filiale bancaria, dove i funzionari dei venditori incontrano gli interessati all’acquisto. Intesa Sanpaolo, il gruppo più grande e dunque ambito, ha stretto una convenzione con Dpi l’anno scorso, e dopo un progetto pilota durato qualche mese ha avviato l’attività in gennaio. «Il nostro obiettivo era completare l’offerta di prodotti di investimento ai clienti – spiega Andrea Lecce, responsabile marketing della maggiore banca italiana – perché, pur offrendo già una gamma di beni rifugio, volevamo ampliarla con un prodotto particolare e dalle quotazioni stabili, che negli ultimi anni hanno superato dell’1,5-2% l’inflazione ». Da gennaio Intesa Sanpaolo ha suscitato l’interesse di circa 500 suoi clienti verso i diamanti Dpi. «Ci siamo posti regole precise – continua Lecce – una è l’investimento massimo del 5% del patrimonio del cliente, anche per evitare concentrazioni provocate dalla volatilità dei mercati. Un’altra è l’attività di verifica interna che Intesa Sanpaolo svolge sulla formazione dei prezzi di vendita». Attività che, se emergessero casi di eccessivo scostamento rispetto ai prezzi di Dpi, potrebbe consentire alla banca un intervento. Sia Dpi che Intermarket stanno crescendo. La prima, che ha il 60% del mercato è passata da 70 milioni di fatturato 2014 a 150 nel 2015, e grazie all’accordo con Intesa Sanpaolo e alla campagna di espansione europea con altre banche in Belgio, Francia, Germania, Croazia (replicando il modello commerciale che assicura agli investitori la possibilità di rivendere i diamanti entro 30 giorni) punta a moltiplicare fino a quattro volte i volumi 2016. Intermarket ha aumentato i ricavi del 20% nel 2015, a 183 milioni. E la crisi delle Borse, almeno a breve termine, darà una mano. A sinistra, una fase della lavorazione dei diamanti. Gli Stati Uniti sono il paese che acquista il 44 per cento del totale mondiale.
Andrea Greco, Affari&Finanza – la Repubblica 22/2/2016