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 2016  febbraio 22 Lunedì calendario

DEFLAZIONE, LA MALATTIA DELLE MONETE CHE NON TROVA UNA CURA

La temperatura di un corpo umano sano è tra 36 gradi e mezzo e 37. Quando si abbassa sotto quei livelli il corpo diventa debole e progressivamente vengono meno le funzioni vitali. Secondo la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea, il tasso di inflazione di una economia sana è tra l’1,5 e il 2 per cento (la definizione ufficiale è “vicino ma inferiore al 2 per cento). Quando l’inflazione è più bassa il corpo dell’economia diventa debole e poco reattivo. È questa la ragione per la quale il mandato delle banche centrali è utilizzare le politiche monetarie per garantire quella soglia evitando che vada più in alto (prendendo la febbre) o più in basso (indebolendosi).
La cura per contenere l’inflazione è nota ed è stata più volte testata: aumentare i tassi di interesse e ridurre la liquidità del sistema. Sappiamo che funziona, anche se gli effetti collaterali, soprattutto in termini di disoccupazione, sono pesanti. La cura contro la deflazione invece ha una casistica senza successi. Dal secondo dopoguerra sino a un paio di anni fa la sola vittima è stata il Giappone, che dall’inizio del millennio ci combatte senza soddisfacenti risultati. La Banca centrale di Tokyo le ha tentate tutte, ha portato i tassi a zero, stampato moneta senza risparmiarsi, comprato titoli di Stato, obbligazioni delle imprese, azioni, ha inondato il mercato di liquidità. Non ha avuto gli effetti sperati neanche l’esplosione della spesa pubblica che ha portato il debito del Giappone al 260 per cento del pil. Niente da fare. Con lo stesso problema ora si stanno misurando la Bce e molte altre banche centrali e la strumentazione è la stessa, tassi a zero o negativi, grande liquidità immessa nel sistema. Non siamo caduti in deflazione ma oscilliamo poco sopra lo zero. In termini di metafora si potrebbe dire che la corda (monetaria) si tira ma non si spinge. Deflazione vuol dire che il denaro aumenta il suo potere d’acquisto e quello che un anno fa potevi comprare con cento oggi lo puoi comprare con 98. Può sembrare una buona notizia per chi ha soldi in tasca ma non lo è: perché quel fortunato signore, che sia un consumatore o un imprenditore, pensando che quello che oggi può comprare a 98 tra un po’ lo potrà avere a 96, il suo denaro non lo spende e non lo investe. L’economia rallenta, per liberare il magazzino i venditori abbassano ancora i prezzi e la deflazione si avvita, i debiti si fanno più pesanti e più difficili da rimborsare, le aziende falliscono, l’economia si fa sempre più debole. Perciò va combattuta come una malattia, quindi ci vogliono una diagnosi e una cura. Un’esperienza del passato che ha qualche somiglianza con quella di oggi non è finita molto bene. Era la fine del XIX secolo e le merci a basso costo che arrivavano dall’America precipitarono l’Europa nella deflazione. Durò parecchio, finché la corsa agli armamenti di Germania e Regno Unito non dettero una scossa all’occupazione e alla domanda. Si uscì dalla deflazione e si arrivò alla Prima Guerra Mondiale. Se non è il caso di replicare l’esito, quell’esperienza un po’ ci può aiutare nella diagnosi e forse nella terapia. La causa domestica più evidente della deflazione in Europa sta nel basso utilizzo degli impianti e della manodopera che deriva dal fatto che consumi e investimenti sono fermi dopo alcuni anni di declino. Con tanti disoccupati i salari non salgono mentre i prezzi dei beni in cerca di compratori scendono. Tra le cause esterne quella che viene sempre citata e che ha certamente un ruolo è il crollo delle materie prime e segnatamente del petrolio. Mario Draghi ha spiegato con la sua geometrica chiarezza come una crisi dei prezzi del barile causata da carenza di domanda influisce sulla inflazione core perché finisce per determinare una riduzione delle esportazioni nette globali, il che a sua volta porta ad una contrazione degli investimenti. La caduta dei prezzi petroliferi può avere effetti deflattivi anche se è determinata da eccesso di offerta se questi eccessi sono ripetuti e si protraggono nel tempo, perché abbassano le aspettative di crescita dei prezzi di famiglie e imprese che quindi rinviano acquisti e investimenti. Ad oggi, sostiene Draghi, ambedue gli effetti sono in atto. Dare però solo al crollo delle materie prime tutta la responsabilità dell’andamento dell’inflazione rischia di portarci fuori strada. Basta guardarsi un pochino indietro per vedere che una correlazione diretta non è scontata: tra il 1999 e il 2007 il prezzo del barile è cresciuto da 18 a 71 dollari, ma in quegli stessi anni l’inflazione globale è scesa dal 6 al 4 per cento mentre la crescita del pil del pianeta è salita dal 3 al 6 per cento. Drogata dal debito, certo, ma il fatto che l’inflazione si sia ridotta di un terzo in anni un cui il ritmo di crescita dell’economia è raddoppiato e il prezzo del petrolio quadruplicato dovrebbe suggerirci che già allora, ben prima della grande crisi, erano in azione altre forze. Un primo suggerimento su quali esse siano ce lo dà l’esperienza della fine dell’800, con la prima globalizzazione. Allora furono le merci, soprattutto i cereali, a basso costo in arrivo dall’America a portare la deflazione in Europa. Similmente possiamo dedurre che la seconda globalizzazione, quella della fine del secolo scorso e l’inizio di questo, con l’invasione delle merci a basso costo provenienti dalla Cina e dagli altri paesi emergenti è stato un fattore determinante nel comprimere l’inflazione anche quando in Occidente consumi e occupazione crescevano. Quell’impatto è ancora in atto, ma la globalizzazione questa volta non è la sola forza in azione e neanche la più potente. Accanto infatti c’è la tecnologia. L’automazione della manifattura ha spinto in basso i costi di produzione. Ora siamo nella fase della digitalizzazione, che riduce i costi non solo dei prodotti ma anche dei servizi. Uno degli effetti della digitalizzazione infatti è la disintermediazione: compriamo i libri e molto altro da Amazon e non nei negozi, condividiamo le nostre macchine con Blablacar o quelle a noleggio con il car sharing, usiamo Uber invece dei taxi e per il turismo AirBnb. La ragione del loro successo è che i prezzi di quei prodotti e di quei servizi sono più bassi. L’economia nuova (che contiene anche pezzi di quella vecchia, dai voli di Ryanair ai mobili dell’Ikea) è low cost: dobbiamo rassegnarci, la digital economy e i nuovi modelli di consumo sono deflattivi. Direttamente perché disintermediando riducono i prezzi, e indirettamente perché i nuovi modelli produttivi e distributivi almeno per il momento distruggono lavoro, quindi impediscono la crescita dei salari e del monte salari. Poiché la compressione dei prezzi da globalizzazione non si esaurirà nel giro di pochi anni e quella da digitalizzazione durerà ancora più a lungo, allora dovremmo prendere in considerazione la possibilità cambiare prospettiva. Petrolio o non petrolio, la bassa inflazione e forse la deflazione potrebbero non essere congiunturali ma strutturali. Dovuti a un cambiamento profondo del modello economico del quale siamo solo all’inizio e il cui impatto tocca non solo la moneta ma anche la stabilità sociale, politica e geopolitica. Possiamo fare quindi la lista delle “cospiring forces” che ci spingono verso la deflazione: basso utilizzo degli impianti ed elevata disoccupazione (che rallentano investimenti e consumi), crollo delle materie prime che deprimono le aspettative sui prezzi e l’export mondiale, tecnologia e globalizzazione che riducono i costi e i prezzi. A questo punto forse è il caso di porsi un paio di domande. La prima è se dobbiamo ancora concentrare le forze contro la tendenza deflazionistica o piuttosto utilizzare gli strumenti della politica monetaria per conviverci il meglio possibile. La seconda è se possiamo ancora pensare che siano i bazooka della politica monetaria la sola medicina. Rilanciare gli investimenti e redistribuire più equamente il reddito per spingere i consumi sono obiettivi che richiedono politica. Quella senza aggettivi.
Marco Panara, Affari&Finanza – la Repubblica 22/2/2016