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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - PRIMARIE USA, HILLARY VINCE A STENTO, TRUMP TRIONFA, JEB BUSH SI RITIRA


REPUBBLICA.IT
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
NEW YORK - Vince Trump, non ci sono discussioni. Alle tv e ai siti dei giornali bastano pochi minuti dopo la chiusura dei seggi (e appena il 2 per cento dei voti scrutinati) per proclamare il candidato-miliardario trionfatore delle primarie del Grand Old Party in South Carolina. Man mano che il tempo passa il suo vantaggio si conferma e alla fine i numeri sono chiari: Donald Trump si prende il 32,8 per cento, Marco Rubio e Ted Cruz se la battono per il secondo posto, con il primo che vince di un soffio (22,4 contro 22,1. Jeb Bush arriva solo all’8 (e annuncia il ritiro), John Kasich si ferma al 7,6, il chirurgo afro-americano Ben Carson si deve accontentare del 7 per cento.
Donald Trump batte Ted Cruz - il candidato amato dalla destra religiosa e dal Tea Party che dopo la vittoria in Iowa aveva puntato tutto sulla South Carolina - su tutta la linea e la cosa che colpisce di più è che lo supera anche nell’elettorato cristiano evangelico. Tiene a distanza di sicurezza il giovane senatore della Florida Marco Rubio, che con il ritiro dell’ultimo dei Bush diventa automaticamente il candidato su cui punta adesso l’establishment del partito repubblicano, con il convinto appoggio dei maggiori finanziatori del Grand Old Party (ad iniziare dai famosi fratelli Koch).
I RISULTATI / REPUBBLICANI Le primarie del Sud Carolina e il totale dei delegati
“Siete uno Stato speciale, siete della gente incredibile”. Il candidato miliardario (e provocatore) si gode la sua vittoria, accompagnato sul palco - come ormai da tradizione - dall’intera famiglia. “We love you” urla la moglie Melania alla folla, “mio padre renderà l’America di nuovo grande” le fa eco la figlia Ivanka riprendendo uno dei più azzeccati slogan del padre. Lui scherza sulla gravidanza della figlia (“potrebbe partorire in ogni momento, anche prima che io finisca questo discorso, nel caso abbiamo l’ospedale pronto e un nipote nato in South Carolina mi andrebbe benissimo”), si congratula sorridendo con gli sconfitti Rubio e Cruz e poi rilancia il suo cavallo di battaglia, incurante della recente polemica con il papa: “Costruiremo il muro al confine con il Messico e chi lo pagherà? Il Messico!”. Quanto al nemico Jeb Bush - con cui ha avuto scambi decisamente sotto la cintura - si dice convinti di potersi prendere anche i suoi voti: “Ne prenderò un sacco, è duro, è odioso, è squallido, è crudele. È soprattutto meraviglioso”.
Nonostante la terza sconfitta in tre gare Rubio si è presentato davanti ai suoi sostenitori con l’aria del vincitore. Ha fatto i complimenti a Donald Trump per la vittoria ma si è detto certo di vincere la nomination in una corsa in cui di fatto sono rimasti in gara solo in tre. Si è rivolto agli elettori di Jeb Bush, ha manifestato “tutto il rispetto” (al contrario di Trump) per la dinastia che ha dato agli Stati Uniti due presidenti. Se fossero primarie normali (e con i vertici repubblicani di un tempo) anche gli altri due candidati più deboli a questo punto abbandonerebbero la corsa, non avendo più alcuna chance di rimonta. Non è detto che lo facciano, ma anche dovessero resistere fino al Super Tuesday del primo marzo - quando andranno alle urne una dozzina di Stati (tra cui Texas, Colorado, Georgia, Massachusetts e Virginia) - la loro campagna è bella e finita.
Per chi ama la cabala, un’ultima annotazione: qualsiasi candidato repubblicano che ha vinto in questo Stato del sud dopo aver vinto in New Hampshire ha poi conquistato la nomination. Trump ha vinto entrambe le primarie, adesso può guardare al Super Tuesday del primo marzo con grande ottimismo (che non gli è del resto mai mancato).

BUSH SI RITIRA
NEW YORK - "La gente dell’Iowa, del New Hampshire e della South Carolina ha parlato. Ho un grande rispetto per le loro scelte, per questo stasera ho deciso di sospendere la mia campagna". L’annuncio era nell’aria, Jeb Bush - ex Governatore della Florida, fratello minore di George W. Bush e figlio di George H. Bush - ha abbandonato la corsa per la Casa Bianca iniziata (con grandi speranze) in una sera della primavera 2015.

Ha provato fino all’ultimo a restare in lizza, per aiutarlo a superare indenne le primarie della South Carolina, George W. aveva per la prima volta partecipato al suo fianco ai comizi, insieme alla vecchia matriarca della dinastia Barbara. È stato inutile, dopo le brutte prove in Iowa e New Hampshire il partito (che inizialmente aveva puntato forte su di lui) lo ha lasciato solo, soprattutto lo hanno abbandonato i grandi finanziatori che fin qui lo avevano sostenuto e che si sono resi conto che ormai erano soldi buttati.

Non gli è riuscito di accreditarsi come il candidato dell’establishment, travolto da un’ondata di anti-politica e odio per i Palazzi di Washington che hanno cambiato il volto all’elettorato del Grand Old Party. I ’moderati’ hanno preferito dare il voto a quello che era un tempo un suo protetto, il giovane senatore della Florida Marco Rubio, che lo ha pubblicamente (e un po’ ipocritamente) ringraziato e che spera di fare il pieno dei voti che Jeb lascia per strada.
Usa 2016, Jeb Bush commosso: "La gente si è espressa, mi ritiro"
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Non vedremo dunque quella sfida dinastica tra le due ultime ’monarchie’ degli Stati Uniti, non vedremo lo scontro Bush Family versus Clinton Machine su cui l’estate scorsa tutti erano stati pronti a scommettere. Jeb, figlio e fratello degli ultimi due presidenti repubblicani, non è stato all’altezza, su di lui ha pesato ancora come un macigno quella guerra in Iraq voluta da George W., guerra contro la quale Donald Trump (il trionfatore di ieri sera) si è scagliato (facendo un po’ il maramaldo) negli ultimi dibattiti dove ha accomunato i due fratelli per la "disfatta". E soprattutto Jeb non è Hillary, ex First Lady, ex senatrice, ex Segretario di Stato e tuttora moglie di Bill, uno dei presidenti più amati dell’ultimo mezzo secolo.

Quando con le urne chiuse da poco si è capito che Bush Jr. non avrebbe raggiunto la doppia cifra, è divenuto chiaro anche ai suoi più irriducibili tifosi quello che l’America già sapeva: che la più importante dinastia del Grand Old Party era (almeno per questa generazione) finita.


Trump: "il generale Pershing sparò sangue di maiale contro i musulmani"

Nuova bordata anti Islam di Donald Trump, che a poche ore dal voto nelle primarie repubblicane in South Carolina ha raccontato una storia mai provata: il generale Usa John Pershing avrebbe fermato gli attacchi dei musulmani nelle Filippine all’inizio del Novecento sparando contro di loro proiettili immersi nel sangue dei maiali, animale che i musulmani e altri gruppi religiosi considerano impuro

RAMPINI
LAS VEGAS – C’è più rabbia a destra che a sinistra? E’ questo il verdetto che sembra emergere dalla terza tappa delle primarie Usa. Una tappa “spaccata”, anzitutto perché il calendario dei due partiti stasera diverge. I democratici votavano al caucus del Nevada, i repubblicani invece nel South Carolina. Uno Stato dell’Ovest per i democratici, uno del Sud per i repubblicani. Ma la divergenza c’è anche nel verdetto degli elettori.

Per il partito democratico il Nevada segna una piccola rivincita dei centristi e dei moderati. Piccola, perché lo scarto Clinton-Sanders è modesto; e perché il senatore del Vermont ha comunque rimontato in pochi mesi uno svantaggio che pareva abissale. Però venendo subito dopo la batosta del New Hampshire per Hillary, il Nevada sembra dire che l’ex segretario di Stato ha colto nel segno coi suoi messaggi sul “riformismo realista”. La sua campagna non fa sognare come quella del socialista Sanders, non accende l’entusiasmo giovanile, non trascina, però parla a un bel pezzo di base democratica che sente l’attrazione della competenza, e del pragmatismo.

RISULTATI / DEMOCRATICI I caucus del Nevada e il totale dei delegati

A destra è l’esatto contrario. Nel South Carolina vince Donald Trump col 33% seguito dalla coppia d’inseguitori Marco Rubio e Ted Cruz affiancati sul 22%. Insomma Trump si prende un terzo della base repubblicana, i due senatori di origini cubane acchiappano più di un quinto a testa. Nessuno di questi tre personaggi rappresenta la continuità col partito repubblicano di George W. Bush, che infatti è sceso in campo solo per assistere alla ritirata di suo fratello Jeb, costretto ad abbandonare la gara.
Usa 2016, Jeb Bush commosso: "La gente si è espressa, mi ritiro"
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Insomma George W. che ai suoi tempi poteva sembrare un falco di destra, in realtà lo fu solo in politica estera con l’invasione dell’Iraq. Sugli altri temi, vedi l’immigrazione, le posizioni di George W. e del fratello Jeb oggi sono emarginate, troppo moderate. Non le condividono né Trump né Rubio né Cruz. La destra di oggi è sempre più radicale. Impossibile parlare di continuità con altri capitoli della storia repubblicana: Ronald Reagan o Richard Nixon; ancora meno con il repubblicanesimo laico, secolare e progressista di Abraham Lincoln, in parte pure di Dwight Eisenhower.

RISULTATI / REPUBBLICANI Le primarie in S. Carolina e il totale dei delegati

Se dovesse prolungarsi il trend accennato stasera in Nevada per i democratici e in South Carolina per i repubblicani, lo scenario sarebbe quello di una sfida finale tra Hillary Clinton e un repubblicano estremista. La logica dice che questo è lo scenario sognato da Hillary.

CORRIERE DELLA SERA
SARCINA STAMATTINA
DAL NOSTRO INVIATO
LAS VEGAS Hillary Clinton riprende la testa nella corsa alla Casa Bianca. Ieri ha vinto i «caucus» nel Nevada, battendo Bernie Sanders e in un certo senso anche i sondaggi. Nella notte, quando sono stati conteggiati l’80% dei seggi, il margine è un po’ più ampio di quello previsto alla vigilia: Hillary 52,2%, Bernie, 47,8%. Un risultato che rinfranca l’ex segretario di Stato, che le restituisce il ruolo di favorita, appannato dalla risicata vittoria nell’Iowa e dalla sconfitta nell’Hampshire. Ma il passaggio in Nevada non distrugge l’offerta politica di Sanders.
La macchina organizzativa di Clinton ha prodotto uno sforzo aggiuntivo per portare al voto innanzitutto i cittadini di Las Vegas, l’area più popolata dello Stato. L’ex first lady puntava sul pieno sostegno del sindacato più importante del territorio, la «Culinary Union», 57 mila affiliati, tra cui circa 25 mila latinos e oltre 5 mila afroamericani. Un’organizzazione chiave per l’economia, con un grande peso anche nella politica locale. Nel 2008 la «Culinary Union», e i suoi dirigenti se ne vantano ancora oggi, era stato il primo network sindacale a concedere l’«endorsement», l’appoggio ufficiale al semisconosciuto Barack Obama, fin dalle primarie. Questa volta, invece, aveva preferito non prendere posizione. Ma i quadri sindacali fedeli al partito democratico sono riusciti a portare al voto, talvolta quasi a intruppare, folti gruppi di elettori, soprattutto le donne che lavorano negli alberghi, nei casinò di Las Vegas.
Nelle ultime settimane si era discusso molto del cosiddetto «firewall», il muro di protezione costruito da Hillary Clinton con il consenso delle minoranze d’America, in particolare con gli ispanici che in Nevada rappresentano il 28% della popolazione. Bernie Sanders non ha vinto, ma ha dimostrato di poter fare breccia nel «firewall clintoniano». Nel suo discorso finale, dopo essersi congratulato con Hillary, il settantaquattrenne senatore del Vermont ha ricordato che «solo cinque settimane fa, qui nel Nevada eravamo indietro di 25 punti percentuali. Eravamo indietro anche nell’Iowa e nel New Hampshire». Sanders ha dimostrato di essere capace di montare una rete elettorale con velocità ed efficacia, un po’ ovunque. E scommettendo su un concetto semplice: per quale motivo il suo messaggio radicale, ma lineare, non dovrebbe attirare anche le minoranze? Nel Nevada la recessione del 2008 è stata durissima e ha lasciato dietro di sé un quadro economico ancora fragile. Il numero dei disoccupati è più alto che nel resto del Paese. I giovani non riescono a ottenere un mutuo da banche sempre iper prudenti. Il turismo ha ripreso a tirare, ma sui gradini più bassi i lavoratori portano a casa salari piuttosto esili: 7-8 dollari che diventano 12 per le posizioni più qualificate. In effetti, perché molte di queste persone, quasi la metà del corpo elettorale alla fine, non si sarebbero dovute avvicinare alle idee «socialiste» di Bernie Sanders? Solo perché sono di origine ispanica o afroamericana? Il senatore non è riuscito a completare la rimonta, ma sarà difficile sostenere ancora che Sanders sia solo il candidato dei bianchi, dei giovani studenti, dei militanti reduci da «Occupy Wall Street».
Hillary Clinton lascia il Nevada sollevata. Già in serata era in volo per Houston, Texas, uno dei 15 Stati in cui si andrà alle urne il 1° marzo, il Supermartedì che diventa ancora più avvincente e forse decisivo. Anche Sanders si prepara all’appuntamento chiave. Ma prima, sabato prossimo, altro interessante test di avvicinamento. Si vota nel South Carolina, Stato con forte presidenza di afroamericani.

GAGGI
«Un vero calcio nelle palle»: così uno dei finanziatori della campagna elettorale di Jeb Bush ha definito, in una conversazione col sito Politico.com , la decisione della popolarissima governatrice del South Carolina, Nikki Haley, di appoggiare Marco Rubio e non il figlio e fratello di presidenti, nelle primarie repubblicane di questo Stato-chiave che ha votato nella notte italiana.
Sconfitto pesantemente in Iowa e in New Hampshire ma deciso a risalire la china, l’ex governatore della Florida aveva puntato tutto sul South Carolina, Stato del Sud in passato generoso con i Bush dove il fratello George è ancora popolare. Confortato sabato scorso da un dibattito televisivo nel quale per la prima volta era stato incisivo e determinato, Jeb ha iniziato la settimana al galoppo, affiancato da George, arrivato a sostenerlo. Ma già martedì nuovi sondaggi deludenti hanno spinto molto finanziatori della campagna di Jeb a consultarsi per definire una linea comunque: se non arriva almeno terzo dietro ai due «radical-populisti», Trump e Cruz, Bush verrà invitato a farsi da parte per lasciare spazio a un unico candidato dell’establishment repubblicano: il più giovane e brillante Rubio.
Bush sta tentando di resistere (come Kasich), sperando che le cose vadano meglio martedì in Nevada e poi, tra 9 giorni, nel Super Tuesday (13 Stati al voto). Ma i finanziatori e i vecchi leader del partito temono che, aspettando ancora, Trump diventi irraggiungibile.
Nel gioco delle primarie il South Carolina, decisivo nel 1980 (quando aprì la strada a Reagan che qui superò Bush padre) e nel 2000 (vinse George Bush e finì la corsa da battistrada di McCain), nel 2016 può segnare la fine della dinastia politica più importante d’America .

BERNIE DI RODOTA’
I l quartier generale del Nevada di Walter White, pardon, di Bernie Sanders, è in un centro commerciale per il ceto medio-basso in uno stradone che esce da Las Vegas. Case unifamiliari sgarrupate nelle traverse, montagne glabre da Far West sullo sfondo. Uno sfondo da Breaking Bad, in effetti, White-Bryan Cranston, il professore di chimica che si mette a cucinare metanfetamine non sarebbe fuori posto in questa campagna elettorale. Il bianco mite che alla fine si arrabbia non pare così lontano dall’onesto ma irascibile Bernie, in effetti. I suoi attivisti, a incontrarli, non sono come li disegnano.
Gli unici classificabili come Bernie Bros, giovani e aggressivi, sono Seth e Josh, atletici, fisioterapisti. L’unico incasellabile è il capo, John. È nello staff di Sanders, è trentenne, biondo, ben portante. Quasi uguale al Philip Seymour Hoffman sottopancia di George Clooney ne Le idi di marzo .
Ma non siamo in un film. Non ci sono dei Ryan Gosling. Ci sono ragazzi e ragazze con magliette di Bernie che combattono pazientemente con latinos anziani e assertivi.
Perché gli anziani vogliono essere accompagnati in auto ai caucus, e ognuno di loro — a origliare le conversazioni — ha circa 300 parenti da scarrozzare. I volontari promettono.
John marca la cronista con grinta da portavoce di Renzi. Ma molti, a domanda, ammettono: tanti elettori di Sanders, potenzialmente, sarebbero fan di Donald Trump. «È per via dello sconforto», motivano i volontari. Poi — Trump non li vede, John sì — recitano: «Quello di Trump è un messaggio di rabbia. Quello di Bernie, di speranza».
Di speranza e d’azzardo. Il sistema dei caucus è complicatissimo. In caso di pareggio di fatto, nello stato dove il gioco d’azzardo è legale si prende un mazzo di carte, si estraggono due carte, e il candidato che estrae la carta più alta vince. Va così. O andrà così. Per ora, il momentum è di Sanders; per ora, il ground game sottotraccia, il porta a porta, le telefonate registrate, sono l’ultimo sforzo di Hillary, se perde qui la sua candidatura è a rischio (Clinton, a Las Vegas, ha rivendicato l’endorsement di Britney Spears, ma non si sa se sia un bene).
@marilur1

Jeb respinto da due Americhe

In un anno elettorale nel quale gli americani, per ora, premiano un Donald Trump sempre più simile allo spietato Robert Duvall nel Vietnam di Apocalypse Now («Mi piace il profumo del kerosene la mattina: odore di napalm, odore di vittoria») Jeb è stato respinto da due Americhe: quella che vede in lui il figlio e fratello di presidenti che non hanno lasciato un buon ricordo e quella che lo percepisce come una specie di cartone animato, un Heidi della politica.
Il più giovane dei Bush, incapace di recuperare consensi con i suoi modi parroco di campagna in un anno i cui gli elettori della destra Usa vogliono gladiatori, è riuscito a fondere queste due Americhe commettendo un errore magistrale: ha chiamato ad aiutarlo, in New Hampshire, la novantenne madre Barbara.

Il soccorso boomerang della madre

Il personaggio del clan Bush più amato dalla gente, ma anche una donna abituata a parlare in modo molto diretto e senza fare tanti calcoli politici, Barbara ha involontariamente dato il colpo di grazia al figlio definendolo «troppo garbato» davanti agli attacchi ricevuti. Per Jeb è stato l’inizio della fine: un’altra sconfitta bruciante in New Hampshire, la fuga dei finanziatori della sua campagna, ormai alla ricerca di un altro repubblicano più tosto, capace di fermare gli estremisti Trump e Cruz, e i suoi stessi supporter che, durante i comizi nei quali illustrava i suoi programmi, anziché sostenerlo, rispondevano spazientiti con l’invito a picchiare duro anche lui, a entrare a gamba tesa su Trump, Rubio e Cruz.

Il vero erede di George W

Jeb non lo ha fatto: per fedeltà alla sua promessa di cercare di fare una campagna in positivo, ma soprattutto perché incapace di mosse spregiudicate (i colpi bassi li ha lasciate alla SuperPac, l’organizzazione ufficiosa dei fiancheggiatori della sua campagna). L’ultima carta che ha giocato è stata quella del fratello George. Il 43esimo presidente Usa è arrivato in South Carolina per sostenerlo, lodando il suo buon senso e la sua competenza. Non ha funzionato nemmeno questo. Forse perchè, come ha sostenuto lo scrittore Matthew Yglesias, per molti americani il vero erede ideologico di George Bush non è Jeb ma proprio Donald Trump. Che, certo, ha condannato la guerra contro l’Iraq da lui scatenata 13 anni fa, ma quanto a populismo, determinazione e sfrontatezza somiglia a George molto più del fratello.

MARIA LAURA
[Esplora il significato del termine: Corriere della Sera / blog Underwood Underwood di Maria Laura Rodotà - @marilur1 Las Vegas dopo i caucus, e gli occhi del croupier triste 21 FEBBRAIO 2016 | di Maria Laura Rodotà shadow image image image image image image image image La mattina dopo, dopo molto moderati stravizi, Underwood non intende infliggere analisi politiche rimasticate dai colleghi americani. In caso, per dire, ecco due-tre cose che colpiscono le ingenue croniste. -La faccia del giovane croupier tifoso di Bernie Sanders al caucus del Ceasars Palace. Arrabbiato per il risultato, 191 a 80, vittoria di Hillary. E con una storia in cui c’è tutta l’arrabbiatura dei giovani bianchi liberal che si aggrappano a Sanders: una famiglia del ceto medio via via sempre meno economicamente sicura, quattro anni di college e di libri letti e di film visti serviti a poco, un lavoro a Las Vegas, ore su ore a far perdere soldi a turisti sbronzi e rumorosi. E nessun miglioramento in vista. E le sue considerazione amare, all’uscita, sui poveri che vengono strumentalizzati. Che lo guardano come un “anglo” molesto, magari. -Il tifo delle latinas per Hillary. Non del tutto spontaneo, stavolta. La macchina democratico-sindacale del Nevada si è mossa senza troppo apparire (il leader dei democratici al Senato, il quieto è potente Harry Reid, che è di qui, non ha fatto endorsement ma ha agito). Ha radunato legioni di cameriere al piano, cuoche, donne che si ammazzano variamente di fatica, le ha abbigliate con magliette azzurre con su scritto in spagnolo “sono con lei”, le ha portate nei caucus degli albergoni. I caucus sono per natura tribali. Ognuno va fisicamente nel lato della sala dove sono i sostenitori di un candidato. La pressione sociale conta; le latinas, inmagliettate e compatte, al Ceasars non hanno contato defezioni e hanno scandito slogan come una curva di ultras. Neanche troppo ultras, stavolta. -Las Vegas come metafora. Lo è da sempre. E’ l’unica città al mondo ufficialmente, pressoché orgogliosamente, fondata da gangster. E’ la dimostrazione di come il crimine organizzato non possa governare. Per motivi etici, e, molto, per motivi estetici. Las Vegas è scintillante di notte come in una buona puntata di CSI; e orrenda di giorno, finta, sudaticcia, piena di trappole per polli, dal gioco d’azzardo allo shopping compulsivo alla prostituzione legale praticata da ragazze attraenti che vestono come deputate berlusconiane d’antan. Fuori dal centro e dalla Strip,, si incontrano infiniti quartieri di brutte case invendute, semivuoti, surreali anche nei nomi (costruttori italoamericani hanno dato allo stato del Nevada l’Avellino Village e i Terracina Apartments,anche). “Il mio piano è stare qui qualche altro anno, mettere da parte abbastanza soldi, e tornarmene finalmente a Pisa”, racconta un giovane cameriere del Bellagio. Lui ha una Pisa dove tornare, altri, qui, no. Ps. Chi è affascinato da Vegas e legge l’inglese può scaricare The Money And The Power di Sally Denton. E’ una storia della città e una ricostruzione di come la “Strip Ethics” e la “Strip Politics” siano e siano diventati un prototipo planetario di collusione/coabitazione tra crimine organizzato, governi, forze dell’ordine, mondo della finanza e del riciclaggio. Las Vegas è da sempre Sin City, la città del peccato, ma il resto del mondo, oggi come oggi, non scherza.]

Corriere della Sera
/ blog

Underwood
Underwood
di Maria Laura Rodotà - @marilur1
Las Vegas dopo i caucus, e gli occhi del croupier triste

21 FEBBRAIO 2016 | di Maria Laura Rodotà
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La mattina dopo, dopo molto moderati stravizi, Underwood non intende infliggere analisi politiche rimasticate dai colleghi americani. In caso, per dire, ecco due-tre cose che colpiscono le ingenue croniste.



-La faccia del giovane croupier tifoso di Bernie Sanders al caucus del Ceasars Palace. Arrabbiato per il risultato, 191 a 80, vittoria di Hillary. E con una storia in cui c’è tutta l’arrabbiatura dei giovani bianchi liberal che si aggrappano a Sanders: una famiglia del ceto medio via via sempre meno economicamente sicura, quattro anni di college e di libri letti e di film visti serviti a poco, un lavoro a Las Vegas, ore su ore a far perdere soldi a turisti sbronzi e rumorosi. E nessun miglioramento in vista. E le sue considerazione amare, all’uscita, sui poveri che vengono strumentalizzati. Che lo guardano come un “anglo” molesto, magari.



-Il tifo delle latinas per Hillary. Non del tutto spontaneo, stavolta. La macchina democratico-sindacale del Nevada si è mossa senza troppo apparire (il leader dei democratici al Senato, il quieto è potente Harry Reid, che è di qui, non ha fatto endorsement ma ha agito). Ha radunato legioni di cameriere al piano, cuoche, donne che si ammazzano variamente di fatica, le ha abbigliate con magliette azzurre con su scritto in spagnolo “sono con lei”, le ha portate nei caucus degli albergoni. I caucus sono per natura tribali. Ognuno va fisicamente nel lato della sala dove sono i sostenitori di un candidato. La pressione sociale conta; le latinas, inmagliettate e compatte, al Ceasars non hanno contato defezioni e hanno scandito slogan come una curva di ultras. Neanche troppo ultras, stavolta.



-Las Vegas come metafora. Lo è da sempre. E’ l’unica città al mondo ufficialmente, pressoché orgogliosamente, fondata da gangster. E’ la dimostrazione di come il crimine organizzato non possa governare. Per motivi etici, e, molto, per motivi estetici. Las Vegas è scintillante di notte come in una buona puntata di CSI; e orrenda di giorno, finta, sudaticcia, piena di trappole per polli, dal gioco d’azzardo allo shopping compulsivo alla prostituzione legale praticata da ragazze attraenti che vestono come deputate berlusconiane d’antan. Fuori dal centro e dalla Strip,, si incontrano infiniti quartieri di brutte case invendute, semivuoti, surreali anche nei nomi (costruttori italoamericani hanno dato allo stato del Nevada l’Avellino Village e i Terracina Apartments,anche). “Il mio piano è stare qui qualche altro anno, mettere da parte abbastanza soldi, e tornarmene finalmente a Pisa”, racconta un giovane cameriere del Bellagio. Lui ha una Pisa dove tornare, altri, qui, no.

Ps. Chi è affascinato da Vegas e legge l’inglese può scaricare The Money And The Power di Sally Denton. E’ una storia della città e una ricostruzione di come la “Strip Ethics” e la “Strip Politics” siano e siano diventati un prototipo planetario di collusione/coabitazione tra crimine organizzato, governi, forze dell’ordine, mondo della finanza e del riciclaggio. Las Vegas è da sempre Sin City, la città del peccato, ma il resto del mondo, oggi come oggi, non scherza.


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Hillary Clinton ha ottenuto in Nevada la rivincita di cui aveva bisogno, per bloccare la corsa di Bernie Sanders e rilanciare la propria leadership nella campagna per la nomination democratica alle presidenziali. Il distacco in termini di voti non è stato enorme, ma i circa sei punti di percentuale di differenza le consentono di esorcizzare il fantasma di un altro pareggio, come quello avvenuto in Iowa. Sommata al successo di Donald Trump in South Carolina fra i repubblicani, la vittoria di Hillary apre la porta ad una possibile sfida a novembre contro il costruttore miliardario, che continua a vincere perché i suoi avversari sono divisi. Sanders però non molla, ricorda che solo qualche settimana fa era indietro di oltre venti punti in questo stato, e forte del successo ottenuto fra gli ispanici punta a continuare la campagna fino alla Convention democratica di luglio.



Alla vigilia del voto in Nevada, la campagna di Hillary aveva detto che questo stato doveva rappresentare il suo primo “firewall”, il muro per bloccare la candidatura insurrezionale di Sanders. La versione dei suoi consiglieri era che il senatore del Vermont aveva fatto bene in Iowa perché quello stato ha una popolazione in maggioranza bianca, mentre nel New Hampshire aveva vinto perché è la regione confinante con quella in cui ha svolto tutta la sua carriera politica. Quando le primarie si sarebbero trasferite al sud, il voto ispanico in Nevada e quello afro americano in South Carolina avrebbero cambiato radicalmente la situazione, avviando Hillary verso la nomination.



Sanders aveva risposto sostenendo che la sua campagna ormai ha creato un movimento nazionale, e quindi queste logiche non avevano più senso. In particolare lui puntava sui giovani, anche quelli ispanici, per ribaltare il pronostico.



Negli ultimi giorni, la profezia di Bernie sembrava destinata a realizzarsi. L’entusiamo ai suoi comizi cresceva, e i sondaggi lo davano in costante recupero, tanto in Nevada, quanto a livello nazionale, dove la Fox le vedeva avanti di tre punti. Alla fine però la macchina organizzativa dei Clinton, e il sostegno che sono riusciti a costruire soprattutto fra i dipendenti del casinò di Las Vegas e gli afro americani, hanno prevalso. «Questa - ha detto Hillary ai suoi sostenitori - è stata la vostra vittoria».



Sanders però ha risposto che non ha alcuna intenzione di farsi da parte: «All’inizio della campagna eravamo sotto di cinquanta punti contro Hillary, mentre ora sia testa a testa. Se andate a guardare bene, abbiamo preso pochi delegati in meno di Clinton. Andremo avanti». Bernie ha ottenuto un successo imprevisto fra gli ispanici, che hanno preferito lui a Hillary, e questo potrebbe aprirgli spazi finora impensati in diversi stati. Poi resta convinto che l’inerzia della campagna sia a suo favore, perché anche se ha perso, ha fatto molto meglio delle aspettative di poche settimane fa.



Ora i democratici passano alla South Carolina, dove i repubblicani hanno appena votato. Qui si andrà alle urne il 27. In questo stato Hillary spera di chiudere i conti, ottenendo una vittoria netta grazie al voto dei neri. Sanders però punta a sopravvivere, per poi tornare a vincere nel “supermartedì” del primo marzo.

SEMPRINI SULLA STAMPA.IT
«It’s a movement», è un movimento. E’ questo il verdetto che emerge a chiare lettere dalle primarie repubblicane della Carolina del sud. Il movimento è quello di Donald Trump, vincitore della terza tornata elettorale che lo incorona «front runner» assoluto del Gran Old Party. Il re del mattone chiude con oltre il 33% dei voti (e si assicura la maggioranza dei 50 delegati in palio per la convention di luglio a Cleveland) distanziando di due cifre il secondo classificato Marco Rubio, abile nello scalzare di una manciata di voti l’avversario ultraconservatore Ted Cruz, costretto poco sopra quota 22%. Trump fa il pieno di consensi, il suo è un quorum trasversale, che arriva da ogni dove: moderati ed evangelici, classe media e blue collar, piccoli e medi imprenditori, liberi professionisti e militari. Ed è a loro che riserva una dedica particolare dal palco del Marriott Hotel di Spartanburg, cittadina di 37 mila abitanti nel cuore dell’enclave evangelica del «Palmetto State». «I nostri militari sono il nostro orgoglio, li ringrazio e prometto loro che avranno tutta l’attenzione e la dignità che meritano e che ora non hanno. - sferza il vincitore della primaria Gop - Prometto loro che ricostruiremo forze armate che consentiranno al nostro Paese di tornare ad essere inattaccabile e sicuro». Il pensiero di Trump va anche ad altri uomini e donne in divisa: le forze dell’ordine: «A loro sono profondamente grato».



Il tono è quello del «commander in chief»: Trump del resto entra nella parte e nella migliore tradizione americana sale sul palco con la famiglia al completo, accanto al vice governatore della Carolina del sud, Henry McMaster (e signora) che gli ha concesso il suo endorsement. Per la prima volta cede la parola ai suoi cari. La moglie Melania ringrazia il Palmetto State: «E’ un posto incredibile e Donald sarà il miglior presidente per il nostro Paese». La figlia Ivanka, prossima a diventare mamma, tesse le lodi del genitore definendolo «un infaticabile lavoratore pronto a mettersi al servizio di tutti gli americani». «E’ voluta esserci a tutti i costi, col rischio di partorire su questo palco - fa sponda Trump - Io le ho detto, vuoi far nascere mio nipote in Carolina? Quale migliore occasione». Un copione già visto in Iowa per la verità, ma che ha sempre presa sul pubblico, lo stesso che urla «the wall, the wall».



Il tycoon risponde: «Tranquilli quel muro lo costruiremo e sarà anche più alto». Il riferimento è al muro della discordia, quello che Trump vuole erigere al confine col Messico in funzione anti immigrazione clandestina, quello che ha creato il diverbio a distanza con Papa Francesco. Trump tira dritto, anzi sottolinea che quel muro lo pagheranno le autorità messicane: «Lo scaleremo dal deficit commerciale». Quindi l’affondo alla Cina: «Nulla di personale ma sono gli autori della più grande truffa nei nostri confronti, complice la nostra classe dirigente: riporteremo a casa i posti di lavoro che gli abbiamo regalato». Poi la cerimonia di battesimo del movimento: «Il Time ci ha definito un movimento: ebbene è così noi siamo un movimento, e questa serata, con questo voto, tutti voi lo state dimostrando».



Il tripudio di Spartanburg stride con i toni sommessi di Columbia, dove Ted Cruz non può far altro che prendere atto di un terzo posto davvero inatteso. Sembra lontana anni luce la serata di Des Moines, in Iowa, dove con la vittoria a sorpresa del senatore texano sembrava essere sbocciata la nuova primavera della destra ultraconservatrice. Serata di festa invece nell’altra Columbia, quella di Rubio protagonista di un secondo posto assai prezioso con cui replica la notte magica nel Granaio d’America. Con lui la moglie i quattro figli, il governatore Nikki Haley, e il senatore Tim Scott, leader dei «black conservative», gli afro-americani che votano Gop. Il senatore della Florida concede gli onori delle armi al vincitore Trump, ma poi precisa: «Il voto di oggi decreta una corse a tre: ma saremo noi a vincere». Per il resto non c’è storia, Jeb Bush annuncia il ritiro dopo un deludente 8%, John Kasic e Ben Carson ristagnano intorno al 7%.



Ed ecco che inizia la caccia ai voti del fuoriuscito rampollo della dinastia repubblicana, ovviamente con toni opposti. Nessuna Trumplomazia, solo cinismo da parte del re della Carolina del sud: «Bush si ritira, ci fa solo piacere, i suoi voti saranno nostri». Rubio elogia invece l’impegno di Jeb e di tutta la famiglia Bush per la politica americana, e promette che pregherà per loro. Cruz la prende larga, rendendo omaggio al giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia, e assicura che la sua eredità sarà quella di chi permetterà ai veri conservatori di guidare gli Stati Uniti d’America. Solo parole per SuperTrump, che cavalca il momentum: «Ora andiamoci a prendere il Nevada».