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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI DEL 22 FEBBRAIO 2016

«Il mio modello è Alfred Jarry che nel momento di morire chiede uno stuzzicadenti. Quell’attimo è semplicemente sublime» (Umberto Eco) [1].

Venerdì scorso alle 22.30, nella sua casa in piazza Castello a Milano, è morto Umberto Eco. Aveva 84 anni [2].

«Due o tre cose venivano in mente incontrando Umberto Eco: il whisky, i calembour e il Medioevo» (Antonio Gnoli) [3].

Semiologo, scrittore, filosofo e molto altro, Umberto Eco era nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932 da Giulio – contabile in una ferramenta – e Giovanna Bisio [4].

«C’è della gente che è appassionata di alpinismo, altri di corse di cani, e io sono appassionato del Medioevo. La verità è che ho avuto un meraviglioso professore di filosofia al Liceo, Giacomo Marino, che aveva fatto una splendida lezione su san Tommaso, e san Tommaso mi era così rimasto impresso nella mente quando sono andato all’università» [5].

«E poi all’università il rapporto con Luigi Pareyson: fondamentale anche se tormentato. Se ci si fa caso, tutti i miei romanzi sono come un Bildungsroman: c’è un giovane che apprende da un legame formativo con un anziano. È la ragione per cui ho fatto il professore» (ad Antonio Gnoli) [1].

La laurea, in Filosofia, la prese nel 1954 all’Università di Torino. Nel 1961 fu tra i fondatori della rivista Marcatré, nel 1967 della rivista Quindici. Fu membro del Gruppo 63 (movimento d’avanguardia che voleva riformare i criteri espressivi del romanzo) [4].

Era nel gruppo dirigente della Gioventù Cattolica. «Poi ci fu il famoso caso di Mario Rossi, il presidente dell’associazione giovanile dimessosi in contrasto con Luigi Gedda. Gedda era il presidente di tutta l’Azione Cattolica e pretendeva che il movimento si schierasse elettoralmente con la Dc, il Msi e i monarchici. Fu rottura. Arrivarono i provvedimenti disciplinari. L’Osservatore Romano ci definì comunisti. Mentre, in realtà, noi leggevamo Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier» [1].

Entrò in Rai nel 1954, «per caso: durante l’estate avevo finito la tesi, ma non mi ero ancora laureato perché era settembre, troppo presto per la sessione di laurea. Era ancora aperto il bando di un concorso per telecronisti e un tale della radio lo segnalò a me, a Furio Colombo, a Gianni Vattimo e a Michele Straniero. Ricordo che tutti rispondemmo che non ce ne importava nulla di diventare telecronisti, ma ci fu fatto osservare che era un modo per entrare in Rai. Ci presentammo. Prova scritta di un articolo giornalistico, e poi mi trovo in uno studio buio con una sola piccola luce, e voci misteriose che venivano dall’alto (una era quella di Vittorio Veltroni, il padre di Walter, che allora dirigeva il telegiornale). Mi chiesero come avrei organizzato una trasmissione televisiva di poesia. Io di televisione non ne avevo quasi mai vista, salvo un dieci minuti in qualche bar, quindi lavorai di fantasia. Dissi che avrei fatto recitare versi di Montale, quelli con la muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglie, e sullo schermo avrei fatto carrellare la camera per certi sentieri della Liguria, dove ci sono la muraglia e i cocci sotto il sole che abbaglia. Fui ammesso, e con me Colombo e Vattimo, che aveva appena dato la maturità [6].

«Io non ho fatto un tubo di tutto quello che mi hanno attribuito. Hanno detto che scrivevo le domande per Lascia o raddoppia?. Falso. Ero un giovane di 22 anni, un piccolo funzionario che guadagnava sessantamila lire al mese. Immagini se la Rai dava a un ragazzino un incarico per un posto in cui giravano i milioni» [1].

«Correggevo testi immondi di collaboratori democristiani, mettendoli in buon italiano. Mi occupavo di provini, di una trasmissione religiosa e di Topo Gigio» [1].

Dino Messina: «L’esperienza in Rai diede a Eco l’ispirazione per uno degli articoli culturali più significativi del secondo Novecento, Fenomenologia di Mike Bongiorno. Era il 1961, l’inizio di un’analisi con gli strumenti della filosofia e della semiologia della cultura di massa: tra i titoli più famosi, che ebbero un successo internazionale, Diario minimo, tradotto in inglese con il titolo How to Travel with a Salmon e Apocalittici e integrati» [7].

«Poi arrivò il servizio militare e in quel periodo, grazie a Ottiero Ottieri, ho saputo che la Bompiani cercava qualcuno che sostituisse Celestino Capasso, morto nel frattempo. Ottiero mi segnalò a Valentino Bompiani. Avevo 28 anni. Fui assunto. E quasi subito Valentino mi affidò la direzione della collana di filosofia Idee nuove. Fu un periodo bellissimo, durato diciotto anni» [1].

«Valentino Bompiani l’ho abbondantemente odiato come padre e, per lo stesso motivo, molto amato» [1].

«Da piccolo volevo anche scrivere romanzi. Ho iniziato così. Prendevo un quaderno, e scrivevo il frontespizio. Il titolo era di tipo salgariano, come I corridori del Labrador o Lo sciabecco fantasma. Poi scrivevo in basso il nome dell’editore, Tipografia Matenna (audace sintesi di “matita e penna”). Quindi procedevo a collocare ogni dieci pagine una illustrazione sul tipo di quelle di Della Valle o Amato per le edizioni di Salgari. La scelta delle illustrazioni determinava la storia che avrei dovuto poi costruire. Di questa scrivevo alcune pagine del primo capitolo. Ma per fare qualcosa di editorialmente corretto, scrivevo a stampatello, senza potermi consentire correzioni. Ovvio che dopo alcune pagine abbandonassi l’impresa. Così sono stato, a quell’epoca, solo l’autore di alcuni romanzi incompiuti» [6].

Iniziò a insegnare semiotica all’università di Bologna a partire dal 1965. «La semiotica studia i modi in cui funzionano i segni e i modi in cui le persone comunicano fra loro. E per una serie di ragioni anche generazionali, alla fine degli anni Cinquanta Eco si è trovato nella posizione migliore per capire che al dibattito italiano mancavano gli strumenti analitici per cogliere gli effetti culturali e sociali del boom economico imminente. Con un lavoro su più piani ha portato in Italia quel che in Italia non c’era ancora: i primi vagiti dello strutturalismo e poi i fondamenti della nuova scienza semiologica, fino a imporre la significazione e la comunicazione come gli argomenti centrali della fine del Novecento» [8].

«Che io abbia creato il Dams appartiene alle leggende. Il Dams è stato fondato da Anceschi, Raimondi e Marzullo. Quest’ultimo l’ha preso in mano e mi ha chiamato a insegnare. Una decina di anni dopo sono passato alla facoltà di comunicazione. Ma un’altra leggenda vuole che io sia stato preside del Dams. Falso. Il Dams, in quanto corso di laurea e non facoltà, non può avere un preside» [1].

Il suo Trattato di semiotica generale (Bompiani, 1975) è considerato un testo classico nelle università di mezzo mondo [7].

Per Stefano Bartezzaghi «nella sua bibliografia, fatta di titoli passati in proverbio, il più umile e il più autobiografico (ma anche uno dei più preziosi) è certamente il Come si fa una tesi di laurea, del 1975» [9].

«E poi Umberto mi ha detto che non ho la libido docendi». Così suona la battuta con cui il protagonista dei Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino illustra i propri rapporti, catastrofici, con il mondo dell’università. Quell’Umberto era sicuramente Umberto Eco [9].

Diventò famoso in tutto il mondo nel 1980 grazie al romanzo Il nome della Rosa [4].

«Come mai a un certo punto, improvvisamente, ho scritto il mio primo romanzo? Sono stufo di sentirmelo domandare e ogni volta ho dato una risposta diversa (tutte ovviamente false). Diciamo che l’ho fatto perché me ne era venuta la voglia, e se questa non le pare una buona ragione, allora non capisce niente di letteratura. Insomma, l’ho scritto e basta. E quindi ho vendicato la mia infanzia di romanziere incompiuto» (a Laura Lilli, nel 2012) [6].

«Sono stato il primo a scrivere seriamente di fumetti. Ma che i miei romanzi dovessero diventare prodotti accessibili alle masse non mi era mai passato per la testa. Tanto è vero che quando finii Il nome della rosa pensavo di darlo alla Biblioteca Blu, una collana di Franco Maria Ricci che tirava tremila copie» [1]

Seguirono nel 1988 Il Pendolo di Foucault, sui Templari e la sindrome del complotto, L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina LOana, Il cimitero di Praga (2010), in cui affrontò il tema dell’antisemitismo e Numero zero, l’ultimo romanzo, uscito a gennaio 2015 [7].

Aveva scritto per Il Giorno, La Stampa, era stato tra le firme della terza pagina del Corriere della Sera e da anni collaborava con la Repubblica. Negli ultimi trent’anni ha tenuto la rubrica La bustina di Minerva sull’ultima pagina dell’Espresso, alternandosi con Eugenio Scalfari [7].

«Sono disperato per il fatto che ho ancora una posizione di rilievo all’Università, dirigo due collane editoriali, ho una rubrica su un settimanale e cose del genere. Perché qualcuno non mi ha ancora fatto fuori? Dove sono quelli che dovevano uccidermi almeno vent’anni fa come abbiamo fatto noi con i nostri padri? Che pena, che vergogna...» [4].

Nell’ottobre scorso – investendo personalmente due milioni di euro – era stato tra i fondatori della Nave di Teseo, la casa editrice diretta da Elisabetta Sgarbi e nata in seguito alla cessione di Bompiani, insieme a tutto il gruppo Rcs Libri, da parte di Mondadori. L’ultimo libro Eco, Pape Satàn aleppe, dovrebbe uscire in primavera nella collana Fari [10].

Francesco Merlo: «A 83 anni Umberto Eco fa progetti con l’entusiasmo e i rischi di un ragazzo: “Perché il progetto è l’unica alternativa alla Settimana Enigmistica, il vero rimedio contro l’Alzheimer”. Velleitari? “Peggio, siamo pazzi”» [11].

«La barba l’ho tolta nel 1990, quando andai alle isole Fiji per scrivere L’isola del giorno prima. Volevo vedere i coralli marini e la barba non mi permetteva di tenere aderente al viso la maschera. Poi me la sono fatta ricrescere per colpa di Moravia. Durante la sua commemorazione tutti i fotografi m’inseguivano per farmi le foto senza barba. E allora l’ho fatta ricrescere. Adesso me la sono tolta nuovamente, perché ho la barba tutta bianca e i baffi neri e nelle foto sembravo Gengis Kahn incazzato» [1].

Nel settembre 1962 sposò la tedesca Renate Ramge, insegnante d’arte. Due figli, Stefano e Carlotta [4].

Nel 1976 comprò e ristrutturò un ex convento a Monte Cerignone, vicino Montefeltro, dove passa le sue estati [4].

Flautista. Lettore di Dylan Dog. Collezionava libri antichi e bastoni da passeggio [4].

«Lei ha spesso rivendicato l’idea che si scrive soprattutto per i lettori e non per se stessi. “Sì, ma per i lettori dei prossimi duemila anni. Io scrivo per il periodo in cui il mio stroncatore è già defunto”» [1].

Gianni Cosca, avvocato e vecchio amico di Eco: «Sapevo che Umberto era malato da due anni di tumore, ma nessuno pensava che la sua fine sarebbe stata così imminente. Era uscito di casa per l’ultima volta a metà gennaio» [12].

«Sono un fallito. Da piccolo, prima volevo fare il bigliettaio del tram, perché avevano delle bellissime borse a dieci scomparti con mazzetti di biglietti di vario colore. Un po’ più tardi avrei voluto diventare generale (sotto il fascismo, il modello era il guerriero) e invece, fatto il servizio militare, sono andato in congedo col grado di caporale maggiore di fanteria distrettuale. Come se non bastasse, negli anni Sessanta ho collaborato a fondare il Comitato per il Disarmo atomico. Ma so che la mia vera ambizione sarebbe stata quella di fare il pianista di pianobar. Sino alle due o tre di notte, la sigaretta all’angolo delle labbra, un whisky, e via a suonare Smoke gets in your eyes e Time passing by. È andata proprio male. Beh, pazienza» [6].

Note: [1] Antonio Gnoli, la Repubblica 3/1/2012; [2] Claudio Gerino, repubblica.it 19/2; [3] Antonio Gnoli, la Repubblica 20/2; [4] Catalogo dei Viventi 2009, Marsilio 2008; [5] Alessandro Zaccuri, Avvenire 21/12/2012; [6] Laura Lilli, la Repubblica 3/1/2002; [7] Dino Messina, Corriere della Sera 20/2; [8] Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 4/1/2002; [9] Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 20/2; [10] Marco A. Capisani, ItaliaOggi 19/2; [11] Francesco Merlo, la Repubblica 24/11/2015; [12] Emma Camagna, lastampa.it 20/2.