Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

CONFESSIONI DI UNO SPETTATORE


A gennaio sono andato a vedere Revenant – Redivivo in un cinema del centro di Roma. Una di quelle sale storiche con i sedili scomodi e senza porta bibite, né il bar dove comprarle. Quelle sale dove i blockbuster non possono entrare, con «la programmazione di qualità», le versione in lingua originale, l’audio così-così, le pareti ammuffite e il pubblico che rimane sino all’ultimo dei credits lanciandoti un’occhiataccia se ti alzi prima. In più non c’era il riscaldamento. Qualcuno timidamente andava a chiedere spiegazioni alla cassa, ma la maggior parte di noi accettava con rassegnazione il proprio destino. Le signore anziane mugugnavano e si accoccolavano nelle pellicce come gli esploratori del film.
Eravamo lì, tra i ghiacci del North Dakota. Pativamo la fame, la sete e il freddo con Leonardo DiCaprio. Saremmo entrati anche noi a dormire nella carcassa del cavallo. Meglio del 3D, del 4K, dell’IMAX. D’altronde, il manifesto nell’atrio ci aveva messo in guardia: «Revenant è un’esperienza cinematografica totale». Tutto vero. Cercherò di ricordarmene quando mi sarà chiesto di sottoscrivere un appello, organizzare un presidio o un’occupazione permanente per non far chiudere la sala del centro destinata a uso garage, supermercato o orrendo multiplex. Cercherò di ricordarmene quando il regista italiano chiederà la mia indignazione per le colpe della politica, del ministro, dell’assessore, di Hollywood, dello streaming, della scuola che non educa al fascino del cinema d’essai. «Si deve stringere un’alleanza con il mondo della scuola», dicono le associazioni di categoria, perché «l’esercizio cinematografico d’essai è indispensabile al successo del cinema italiano di qualità e il sostegno pubblico alle piccole sale è uno strumento essenziale per l’efficace funzionamento dell’intero sistema cinema». Va bene. Purché si stringa anche un’alleanza con l’Acea. Arte e riscaldamento. Ai pop corn ci ho rinunciato, perché nelle sale d’essai non sta bene mangiare.
A oltre vent’anni dall’arrivo dei multiplex in Italia, con usuale ritardo rispetto agli altri, la nostra «difesa del modello cinematografico tradizionale» (copyright Agis e Anec) è ancora ferma, decisa, immutabile, scolpita nei decreti legge sul cinema. Qualunque cosa possa voler dire nell’era di Netflix, il «modello cinematografico tradizionale» è ricalcato sulle abitudini di un pubblico anziano e di una cinefilia vintage. La famiglia tradizionale non esiste, ma il «modello cinematografico tradizionale» sì.
Lì dove la maggior parte del pubblico vede scarsa scelta, scomodità, disservizi, impianti vecchi, altri continuano a vedere resistenza culturale, identità del territorio, valore distintivo. Quelle cose che trasformano l’assenza del garage sotto al cinema o del menu tex-mex al bar nella garanzia di un amore incondizionato per i film. Vabbè ma è un altro target, direte voi. Ovvio. Se non fosse che quel target sta scomparendo alla stessa velocità con cui chiudono le piccole sale (1.200 circa negli ultimi dieci anni). Se non fosse che secondo il Rapporto giovani del 2015 commissionato dall’Ente dello Spettacolo, «il 75 per cento dei nati negli anni Novanta preferisce vedere un film in un multiplex ricco di servizi piuttosto che in una piccola sala» (bisognerà raddrizzarli finché si è in tempo con visite guidate al Cinema America Occupato di Roma).
Se non fosse che Jurassic World all’Anteo o al Kino del Pigneto non ce lo vediamo perché il film ci perde, Francofonia in un multiplex sarebbe anche più bello. Solo che nel centro commerciale ci si guasta l’accesso al sublime e s’inceppa la «sospensione dell’incredulità» per catapultarci nella memoria dell’arte e nel Louvre visto con gli occhi di Aleksandr Sokurov. La sala d’essai è la continuazione dell’interesse culturale con altri mezzi.
Anche se il sostegno statale agli «schermi di qualità» viene dato in base al tipo di programmazione, di fatto un certo di programmazione coincide con un certo tipo di sale e di esperienza. Da noi vedere l’ultimo dei fratelli Dardenne in un multiplex è ancora un tabù culturale. Mangiargli i pop corn davanti, un’eresia; al massimo una bottiglietta d’acqua per prendere lo Xanax. Siamo cresciuti dentro queste contrapposizioni che, come la maggior parte delle contrapposizioni, sono false e in più ci hanno fatto perdere tempo e biglietti. False qui non significa che non abbiano un’irrinunciabile funzione simbolica, com’è facile intuire.
Quando alla fine degli anni Novanta arrivarono in Italia i multiplex tirammo subito fuori i grandi classici dell’indignazione. «È un astronave del cinema, un sinistro parallelepido squadrato, si chiama multiplex, è lì che ci ritroveremo a ingurgitare vagonate di Mars e gelatoni industriali», scriveva l’Unità raccontando l’apertura dei primi Warner-Village. E via con i «massimo esempio di non luogo», «tempio del consumo per il consumo», «ipermercato del cinema» e «così si uccidono le città». Multiplex, il villaggio dei cinedannati resta uno dei titoli più belli apparsi sui giornali alla fine degli anni Novanta. Di là, fuori le mura, le grandi cattedrali che celebrano la prosa industriale del blockbuster, il dispendio di capitali, la catena di consumi. Di qua, il cinema di quartiere, l’autorialità, la messa laica, la sala vuota e gli stucchi sporchi alle pareti.
Nel frattempo, il multiplex rovesciava anche la retorica dell’inclusione sociale e della cultura in periferia. «Con i multiplex si desertificano e uccidono i centri storici. È grave che si continuino a prendere iniziative che spostano sempre più le attività di richiamo per i cittadini in periferia» (l’Unità, 1998). Ma come? E quegli Hamlet a Tor Bella e i Peter Weiss a Corvetto e il laboratorio di teatro-danza a Scampia? Adesso arrivavano le multinazionali e in una botta sola piazzavano cinema, ristorante, libreria, garage, negozi. Pareva incredibile, ma fuori le mura preferivano Die Hard a Shakespeare.
Immancabile arrivava la bocciatura di Nanni Moretti, il cui Nuovo Sacher era la prova provata dell’intercambiabilità tra la messa e il film, tra l’austerità dell’arredamento ecclesiale e quello della sala cinematografica: «Spero di non vedere mai uno dei miei film in programmazione in uno di questi mostri dell’usa e getta». Certo, ci spieghi meglio. «Perché questo non è più cinema, chi frequenta i multiplex non sceglie il cinema ma la sala. Non gli interessa il titolo della pellicola o il prestigio del regista, ma semplicemente l’idea di uscire di casa. Niente a che fare con la magia di questa forma d’arte». Cioè, seguono lo stesso principio degli spettatori degli anni Cinquanta; quando il cinema era come il pane, l’Italia al secondo posto nel mondo per numero di sale e la nostra frequenza la più alta d’Europa. Quando non si sceglieva il film da vedere ma la sala dove passare il tempo, come oggi quando si va nei centri commerciali senza avere un’idea chiara di cosa comprare (un’inchiesta Doxa del 1955 confermava che per gli spettatori la scelta del giorno era prioritaria su quella del film, che in pochi erano in grado di dire il titolo della pellicola che andavano a vedere, oltre al fatto che si entrava e usciva continuamente dalla sala, che succedevano cose che oggi vi arresterebbero e che il prestigio del regista dovevano ancora inventarlo).
Nel frattempo la contrapposizione sfumava. La necessità di uno standard tecnologico all’altezza del prezzo del biglietto appianava le diffidenze e accorciava le distanze tra il centro e la periferia. Ora c’era il multiplex (fuori le mura), il cityplex (dentro le mura), il multisala. Qualcuno iniziava a rendersi conto che l’aumento della scelta in un unico spazio favoriva anche la nicchia. Una volta lì, finiti i biglietti del blockbuster, ormai si è parcheggiato e se Moretti è d’accordo magari ci vediamo il filmetto italiano che comincia tra cinque minuti, anche se non eravamo usciti di casa per lui. In linea di principio, poter scegliere dovrebbe essere sempre meglio del contrario. Tanti schermi, servizi e comodità. Che c’è che non va?
A lungo l’indice indignato è stato puntato sulla programmazione. Le multinazionali ci invadono con i loro ipermercati del cinema, piazzano i blockbuster e non si può vedere nient’altro. Da tempo però non è più così e nei multiplex fanno anche l’opera dal Metropolitan. Semmai il problema è la perdita dell’effetto di comunità. Il fascino vintage della sala d’essai. «Non c’è più bisogno di stare attenti, in silenzio di fronte alle immagini, non ci sono più mistero, poesia, il bianco e nero, la pellicola» eccetera, diceva Susan Sontag nel 1996 annunciando la morte del cinema, della cinefilia, della sala, uccisi dalla tv, dai multiplex e dal blockbuster. Sarà. Ma lo scarto tra la generazione che ha scoperto la Nouvelle Vague nelle salette del Greenwich Village e quella che incontra un pezzo del cinema di Bergman su YouTube mentre parla in chat serve anche a ricordarci quanto sia difficile trasferire al cinema i valori imperituri dell’Opera con la O maiuscola, della contemplazione, dello sconfinamento nella religione dell’arte.
Resta la battaglia del gusto. Tic culturali più che considerazioni di mercato o salvaguardia del film d’autore. Non ce n’era bisogno, ma l’ho capito ancora meglio quando sono andato a vedere Youth di Sorrentino nel più grande multiplex d’Italia, l’Uci Cinemas di Parco Leonardo, zona aeroporto di Fiumicino. Insieme ai due biglietti che chiedo alla cassa mi dicono che c’è un omaggio: «Due flute di prosecco e delle patatine». Scusi, perché? «Perché è un film d’essai», risponde la cassiera. Vabbè. Veramente volevo i pop corn ma mi adeguo. Così ci sediamo nella sala d’attesa, coi nostri flute di plastica e le patatine in un cestino di vimini, circondati da gente coi pop corn big size e litri di Coca-Cola sulle ginocchia che aspettava di vedere Mad Max. L’unicità autoriale del mio film d’essai si specchiava negli unici due flute di prosecco della sala. Ma avevano trovato il modo di farci stare insieme. Il multiplex non era più un luogo di costrizione, ma uno spazio di elaborazione del dialogo tra identità culturali, nel rispetto delle diversità e del film d’autore.