Federica Bianchi e Francesca Sironi, l’Espresso 19/2/2016, 19 febbraio 2016
SVENTOLA BANDIERA GIALLA
L’attore preferito è Checco Zalone. Il sapore della sua infanzia le tagliatelle al ragù di Bologna. Non va in vacanza da tre anni, ma la domenica, giura, non lavora, a differenza dei suoi genitori, perché la moglie, anche lei di origine cinese ma con cui parla in italiano, vuole dedicare la giornata alla famiglia. «Per i miei sarebbe stato impensabile: il tempo era tutto per l’impresa».
Daniele Rongfeng Wu ha 32 anni e due volti: uno cinese, come la cittadinanza, l’altro italiano, come il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Immigrato di seconda generazione, non si accontenta di accumulare risparmi: vuole costruire qui in Italia basi più solide per il suo futuro. «Faccio parte dell’Unione imprenditori Italia-Cina», racconta nella sua agenzia di viaggi Ruifeng a Milano: «Seguiamo gli interessi legali della comunità ma ci muoviamo anche per combattere le realtà di sfruttamento che ancora ci sono. Una maggiore trasparenza farà bene a tutti».
È questo il nuovo spirito delle seconde e terze generazioni dei cinesi in Italia. Di quei ragazzi "banana", gialli fuori e bianchi dentro, come si definiscono con autoironia, che in Italia sono nati o si sono trasferiti da bambini. Che di Milano, Roma, Firenze o Napoli hanno assorbito la cadenza e l’amore per le spiagge. Ventenni e trentenni che dai genitori hanno imparato un dialetto cinese e l’etica del lavoro, ma di cui non vogliono pedissequamente seguire le orme. In un laboratorio tessile o dietro il bancone di un negozio all’ingrosso. Che vogliono studiare, viaggiare, sposarsi al di fuori della comunità e, soprattutto, sentirsi davvero parte di questa Italia azzoppata, pur crescendo orgogliosi della Patria d’origine e dei suoi miracoli economici, a differenza dei genitori, scappati dalla miseria.
«Tutti vogliono entrare nel mercato cinese ora che la popolazione si è arricchita», spiega Jacopo Hu, stilista in erba dalle spalle larghe e dalla camminata da pugile: «I vicini di casa mi fermano sul pianerottolo per chiedermi come fare. È un momento fantastico per noi sino-italiani».
Di questa "primavera cinese" l’Italia se n’è accorta solo qualche settimana fa quando, per la prima volta nella loro storia, le associazioni cinesi presenti sul territorio milanese hanno trovato la quadra e sono andate a votare compatte per il "loro" candidato sindaco, l’uomo che conoscevano e con il quale hanno discusso il voto in una limpida serata autunnale al circolo del Pd di Porta romana. Facendo la differenza. A centinaia sono usciti dai sottoscala che sanno di aglio, dai retrobottega invasi dai cartoni e dai negozi dalle vetrine oscurate dai caratteri rossi. E non importa che non tutti parlassero l’italiano. Che non tutti avessero la cittadinanza. Alle primarie del partito democratico hanno potuto e, finalmente, voluto dire la loro.
«Devono capire tutti che noi siamo qui per restare», spiega Francesco Wu, imprenditore di successo, grande comunicatore e volto delle comunità cinesi a Milano: «Che abbiamo diritti e doveri. Sono anni che mi batto per convincere la mia comunità a votare alle elezioni comunali e nazionali. Ora, grazie anche al ricambio generazionale, sta cominciando a succedere».
Anche a Roma, dove i cinesi sono un numero più contenuto e meno presente nel tessuto sociale, qualcosa si muove. Un paio di settimane prima delle primarie milanesi, dopo l’ennesimo capannone messo a fuoco in periferia, con tanto di vittima, le associazioni locali hanno organizzato con cura una manifestazione nel cuore dell’Esquilino, il loro quartiere centrale di riferimento, per chiedere alle forze dell’ordine italiane maggiore tutela. «Sicurezza, pace e solidarietà», gridavano gli striscioni in cinese e in italiano.
«La manifestazione di gennaio è stata la dimostrazione che anche i cinesi vogliono sentirsi parte integrante della comunità romana», spiega Mary Pan, cresciuta tra la Tiburtina e l’Esquilino, dove è stata tra i primi studenti a frequentare il doposcuola per bambini di origine cinese organizzato all’interno della Chiesa evangelica, quella accanto alla storica gelateria Fassi. «All’Esquilino ci sono da anni scippi e furti. Sempre più di frequente le vittime sono cinesi perché si è sparsa la voce che girano con borse piene di contanti anche se non è più il caso», denuncia.
Dopo la partecipazione come giornalista ad un talk show nazionale, è Pan per tanti italiani il volto femminile delle seconde generazioni. Una laurea in marketing in un ateneo privato della Capitale, due anni come giornalista nella piccola emittente Babel, a raccontare storie di normale immigrazione, è orgogliosa di essere diventata la dimostrazione che anche per i cinesi è possibile una carriera al di fuori dell’imprenditorialità e «che studiare può servire a qualcosa, un concetto non molto diffuso nella nostra comunità, dove si comincia a lavorare prestissimo». La speranza è che manifestazioni come quella di Roma, soprattutto nel centro-sud, non siano eventi isolati ma segnino l’inizio di un cambio di atteggiamento generale. «Che forse potrebbe essere incoraggiato dalle istituzioni. A partire dalla scuola», sottolinea Pan: «Non è accettabile che a troppi professori non interessi il futuro dei loro ragazzi, che ci siano tanti scioperi e tanto assenteismo». E poi la storia: «Perché i programmi si fermano alla Seconda guerra mondiale? Così non sono interessanti e non aiutano i ragazzi a capire meglio la loro realtà quotidiana».
Tra i problemi più sentiti di questa seconda generazione di immigrati, il principale - giustificata ossessione - è la difficoltà di acquisizione della cittadinanza, soprattutto per quei bambini che in Italia sono nati. «Difficile sentirsi italiani quando gli altri ti indicano come straniera e il tuo passaporto lo conferma», esclama al telefono Xixi Donadoni ye, una ex buyer di intimo a Busto Arsizio, in provincia di Varese, che oggi gestisce una catena di abbigliamento intimo a Milano: «Sono cresciuta sentendomi fare il verso con "Cing, ciung, ciang" a scuola anche se non mi sono mai considerata cinese».
Sbarcata nello Stivale con i genitori, Xixi, oggi sposata con un italiano e madre di due figli, è stata abbandonata dal padre naturale che è rientrato in Cina, e ha seguito la madre nei suoi pellegrinaggi da Sud a Nord, alla ricerca di un lavoro e una sistemazione stabile. A farle stabilire definitivamente in Lombardia è stato Giuliano Donadoni, che dopo averne sposato, innamorato, la madre, ha prima cresciuto e poi adottato la figlia. «Così a dispetto della mia pelle gialla sono italiana a tutti gli effetti», spiega lei: «Ho frequentato il liceo linguistico, e non un istituto tecnico, come facevano i cinesi coetanei, e mi sono laureata in Bocconi», come quei pochi cinesi che a quel tempo volevano continuare a studiare.
Bocconiana è anche Jiajia Tung, arrivata a Napoli a quattro anni. Come l’amica Xixi è oggi anche lei cittadina italiana. Ma ogni tanto ricordi grigi tornano a galla. «Durante gli anni del liceo non potei andare a fare un anno di scuola in Canada perché non ero italiana», racconta con un pizzico di rimpianto. Andare a studiare per qualche mese oltreoceano le sarebbe costato cinque volte tanto che a uno studente italiano. Un’impresa impossibile per i suoi genitori. «Per non parlare dei viaggi di lavoro a Londra a cui ho dovuto rinunciare perché in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno», aggiunge con un marcato accento milanese al telefono da Milano dove vive col marito, incontrato all’università: «Diventata maggiorenne ci sono poi voluti quattro anni dal momento della richiesta per ottenere la cittadinanza: nulla di automatico».
Oggi Tung è fiscalista presso una grande banca americana, «con la mia cinesità il lavoro che faccio non c’entra nulla», spiega. E aggiunge: «Alla fine il cinese lo parlo poco e male perché dai tempi dell’università in poi ho sempre frequentato italiani». Certo ci sono state volte in cui si è sentita dare della traditrice da sino-cinesi perché anziché tornare d’estate in Cina andava magari ad abbronzarsi sulle spiagge della Puglia, regione di origine del marito. Ma i tempi in cui aiutava i genitori a cucire vestiti negli scantinati del sud Italia sono lontani. Invece, insiste, «dovrebbero essere molto più vicini quelli in cui il diritto alla cittadinanza per chi è nato in Italia diventi automatico, senza ricorso a carte bollate e attese di anni». Altrimenti il rischio concreto è quello di allontanare da un’Italia bisognosa di giovani professionisti carichi di entusiasmo e affamati di successo, giovani come Sun Wen Long.
Capelli lunghi, nemmeno un’ombra di barba, dimostra meno dei suoi 27 anni. Liceo scientifico al Copernico, «uno dei più tosti di Bologna», poi una laurea in Ingegneria informatica che gli è costata fatica e sudore. «Troppa teoria», lamenta: «E le relazioni sociali erano difficili». Gli anni di ateneo gli sono pesati parecchio, non solo per la mole di studio ma anche perché è rimasto a carico dei genitori, come non succede spesso, almeno non ancora, tra i cinesi. «Ma sono felice di avere una laurea: la formazione italiana mi ha reso più autonomo nel risolvere i problemi e per lavorare in Cina il titolo è una marcia in più».
In Cina, già.
La fuga dei cervelli vale infatti anche per i giovani di seconda generazione che vivono nell’Italia delle aspirazioni dimezzate. Una sua amica, laurea in Medicina in Bicocca, è andata a Monaco per fare un dottorato. Un’altra sta pensando di trasferirsi a Londra. «Io lavoro per una grande azienda di Shanghai che ora mi vuole in Italia. Ma tornerei volentieri in Cina, ho vissuto lì per sei mesi e mi è piaciuto moltissimo».
Per questi ventenni, tanti anche di terza generazione, le lusinghe del loro Paese di origine che, da lontano, sembra ribollire di opportunità, sono molto forti. Soprattutto quando la Cina è messa a confronto con un’Italia che non permette la realizzazione dei loro sogni. «Ho tenuto la cittadinanza cinese, tanto votare non è fra le mie priorità ma tenere i rapporti con la Cina sì», confessa Jacopo Hu, lo stilista ventiduenne che ha lanciato la sua prima collezione - simboli della cultura Ming stampati su abiti tessuti in un’azienda del lodigiano da mani italiane - con i soldi di un’imprenditrice cinese. E che ora sta lavorando ad un altro marchio prodotto da un’impresa della Bovisa che, dopo 20 anni di attività, è passata in mano cinese.
Anche Pan, la giornalista, presto dirà addio al Paese che le ha dato i natali: «Sto per emigrare a Philadelphia, dal mio fidanzato. Non mi hanno rinnovato il contratto in televisione e ora sono pronta per una nuova vita, magari anche per il matrimonio». A dire la verità a realizzare un suo personalissimo sogno, Mary, aveva provato. Voleva aprire una scuola cristiana bilingue, italiano-cinese, per bambini di origine cinese e italiana. Un nido di multiculturalismo. «Ero andata anche a Taiwan per studiare il modello e la sua realizzazione ma alla fine è stato burocraticamente impossibile».
C’è anche chi in Italia è rientrato dopo aver fatto la tanto agognata esperienza cinese. Come Sabrina Hu, 29 anni, diventata stilista di moda dopo avere aiutato i genitori per anni nel taglia e cuci in un laboratorio del veronese. «Mi sono resa conto di essere meno cinese di quanto pensassi. Una cinese non cinese. Mi mancava troppo lo stile di vita italiano: meno soldi ma una vita più rilassata, con il tempo anche per le passeggiate in montagna».
Tra chi dall’Italia non ha nessuna intenzione di andarsene c’è invece Alessandro Quattrini Li, classe 1980. Qui ha realizzato il suo sogno. È diventato chirurgo estetico a Pistoia, la sua città, coronando anni di studio e rispedendo al mittente tonnellate di pregiudizi.
A dire la verità il padre, che aveva uno studio di ragioneria in cui, dopo l’istituto tecnico, durante gli anni dell’università, Li era obbligato a dare una mano, lo avrebbe voluto commercialista: gli avrebbe voluto lasciare lo studio di famiglia, come da tradizione. E invece no: Li voleva diventare un dottore. E non studiare medicina cinese, come aveva fatto sempre il padre, abile agopunturista oltre che ragioniere, ma un chirurgo a tutti gli effetti.
Non è stato facile. Introverso, due occhialetti tondi sul naso, Alessandro confessa che per lui, fisicamente cinese, nonostante tutta la sua famiglia viva in Italia e abbia la cittadinanza italiana (ricevuta dal padre, adottato da adulto da una famiglia italiana), è più difficile conquistare la fiducia dei pazienti. «Ai loro occhi sono sempre un cinese». E forse lo era anche agli occhi di colei che è oggi sua moglie: un’italiana conosciuta a New York e conquistata solo dopo un lungo corteggiamento.«Avevo più cose in comune con lei che con le mie coetanee di origine cinese». Un sentimento condiviso da una buona fetta di quegli under 40 che dopo avere raggiunto il successo economico, adesso reclamano anche il riconoscimento sociale e politico. E magari maggiore rappresentazione sui giornali e in televisione: «A quando conduttori cinesi, o cantanti, o anche solo invitati interessanti di origine italo-cinese?».