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 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

CHI È IL SIGNOR PUTIN


«Who is Mr. Putin?». Questa domanda, apparentemente innocente, mandò in tilt i ministri russi a Davos nell’inverno del 2000: invece di rispondere, si scambiarono occhiate imbarazzate. Vladimir Putin si era insediato al Cremlino da pochi giorni ed era un oggetto non identificato, uscito fuori dal nulla e diretto verso una destinazione ignota. Oggi in Rete gira Whoismisterputin, un documentario di Valery Balayan che denuncia, con testimonianze e documenti, il legame che il vicesindaco di Pietroburgo Putin aveva con cosche mafiose di Tambov. La stessa accusa ripresa dal ministero del Tesoro degli Stati Uniti, che sospetta Putin di aver «accumulato ricchezze immense», e da Sir Robert Owen, coroner di Sua Maestà che nel rapporto sull’omicidio di Alexandr Litvinenko individua legami tra l’entourage di Putin e la criminalità organizzata.
Sedici anni dopo l’arrivo di zar Vladimir alla guida della Russia la domanda «Who is Mr. Putin?» resta ancora attuale, e le risposte sono tante, e diametralmente opposte. Per alcuni è la fonte di ogni male, l’uomo del Kgb che tira le fila di trame oscure, il mandante di omicidi in mezzo mondo, il padrino di una rete di crimine e corruzione, il difensore di dittatori, il manipolatore di terroristi e il repressore delle libertà. Per altri è un eroe del mondo oppresso dal capitalismo americano, l’ultimo baluardo dei valori tradizionali, il leader decisionista, lo stratega e tattico imbattibile. È un’icona pop, che ha ispirato quadri, monumenti, profumi, t-shirt, canzonette e torte di cioccolato, e la somiglianza non casuale dello 007 di Daniel Craig con il presidente russo è un sintomo di quanto il personaggio abbia colpito l’immaginario non soltanto dei russi. Eserciti di analisti cercano di decrittare i suoi moventi nascosti osservando il suo modo di camminare («da pistolero», è l’ultima diagnosi di un team olandese), di esercitarsi in palestra (un disastro, è stata la bocciatura delle riviste di fitness americane), e di usare le parole.
Una gloria quasi ingombrante per un uomo schivo e diffidente, che non ama vivere a Mosca e passa la parte migliore della sua giornata nella solitudine della palestra e della piscina nella dacia di Novo-Ogariovo. «Non parla, non sente la necessità di sorridere, non ha voglia nemmeno di bere qualcosa», racconta un suo stretto collaboratore a Ben Judah, autore di Fragile Empire: How Russia Fell In and Out of Love with Vladimir Putin. Il presidente russo è un uomo che è stato visto sorridere soltanto ai suoi cani, freddo e solo, con una moglie che l’ha lasciato dopo un esaurimento nervoso. Sembra non concedersi alcun vizio, anche se il gossip gli attribuisce ginnaste e campionesse di pugilato occasionali. Nel suo Fragile Empire Ben Judah ha raccolto decine di testimonianze sull’asettico mondo di Putin: non beve, mangia solo prodotti dietetici, solo made in Russia e solo degustati prima dagli assaggiatori, anche durante i ricevimenti all’estero, non usa internet e non si fida del telefono. Si appassiona soltanto alle partite di hockey sul ghiaccio, a cui invita i suoi collaboratori più intimi che fanno giocare le loro guardie del corpo: un mondo esclusivamente maschile, muscolare, cameratesco. Come quella «strada di Leningrado» che ha insegnato a Putin che «se una rissa è inevitabile bisogna picchiare per primo», come ha spiegato la decisione di mandare gli aerei russi a bombardare la Siria.
Stanislav Belkovsky, il politologo che ha dedicato gli ultimi anni allo studio del presidente russo, sospetta che Putin affronti la politica internazionale con rimpianto mentale e comportamentale plasmato «nell’ambiente dei teppisti di cortile», in cui la regola fondamentale è la forza, e per essere forti non bisogna mai farsi mettere in discussione. È questa visione della “verticale di potere” che l’ha spinto a circondarsi soltanto di fedelissimi legati da amicizie, parentele e affari, come Boris Glyzlov che, appena insediatosi come presidente della Duma, dichiarò: «Il Parlamento non è luogo di dibattito». Allevato da un sistema gerarchico come il Kgb, Putin fondamentalmente non si fida delle regole, ma soltanto dei rapporti personali, e si infuria con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan non tanto per avergli abbattuto un caccia, quando per «non essersi scusato: bastava alzare il telefono». Una dimostrazione di sottomissione, e infatti Putin non ha mai ammesso di avere torto: «Dio mi ha protetto dal fare errori», ha dichiarato in una recente intervista al Corriere della Sera.
È questa incapacità di fare marcia indietro che ha fatto infuriare Angela Merkel, quando in un momento di Realpolitik gli chiese cosa volesse “davvero” nel contenzioso sull’Ucraina, e il presidente russo – dopo aver fatto aspettare la cancelliera, come sua abitudine, per un paio d’ore – le rispose snocciolando tutte le solite accuse di complotto occidentale ai suoi danni, insistendo che prima di ogni discussione su un eventuale compromesso l’Occidente avrebbe dovuto riconoscergli che aveva ragione. È questa rigidità che gli sta facendo perdere anche vecchi amici come Vladimir Yakunin, per anni onnipotente capo delle ferrovie e componente della cerchia intima putiniana fin dai tempi della cooperativa “Laghetto”, dove negli anni Novanta un gruppo di funzionari pietroburghesi si fecero le dacie, frutto del primo benessere postcomunista. Un fedelissimo, dello stesso gruppo stretto dei fratelli Arkady e Boris Rotenberg, compagni di judo del giovane Putin e oggi principali vincitori delle gare d’appalto statali, dalle Olimpiadi di Sochi ai gasdotti di Gazprom, o di Ghennady Timchenko, diventato uno degli uomini più ricchi della Russia grazie al quasi monopolio sull’export di petrolio russo. Oggi si fanno tutti compagnia nelle liste delle sanzioni occidentali, ma a differenza dei vecchi oligarchi eltsiniani il loro potere e la loro ricchezza dipendono soltanto da Putin, e il calcolo che la perdita di ville e conti in Occidente li avrebbe costretti a fare pressioni sul loro illustre amico per ora non ha funzionato. Yakunin ha dato le dimissioni all’improvviso e dopo un paio di mesi ha rotto il silenzio per spiegare il motivo: suo figlio aveva chiesto la cittadinanza britannica. Un tradimento, benché il capo delle ferrovie fosse uno dei pilastri del regime, tanto da dichiarare che «il vero Califfato è la Santa Russia». Ma nella scelta tra il futuro occidentale di suo figlio e il potere in Russia non ha avuto esitazioni e, in un’inusuale intervista con Bloomberg, ha avvertito i non meglio identificati nuovi arrivati nella cerchia intima di Putin che «i loro privilegi e beni non sono inalienabili, dipendono dalla visione del bene del Paese che il presidente ha in questo momento».
Un sistema “putinocentrico”: ogni consenso, promozione e dibattito nascono e vertono intorno al presidente, unico motore e protagonista della politica nazionale. Un potere che è stato concentrato per anni, in una serie consecutiva di giri di vite, nazionalizzazioni e nomine. Ma che non sarebbe stato possibile accumulare senza una popolarità impressionante, quella che ha permesso a un uomo timido e senza alcun vezzo narcisista del dittatore carismatico di diventare un idolo in cui i russi non hanno mai smesso di credere, fino a raggiungere l’incredibile 89 per cento dei consensi dopo tre lustri, quando perfino i leader più brillanti cominciano a scontare la stanchezza. Una popolarità improvvisa che ha stupito perfino gli artefici dell’ascesa di Putin, come Serghey Pugaciov, l’“oligarca ortodosso” che lo ricorda oggi dal suo esilio europeo con disprezzo: «Rimase sconvolto davanti alla piscina olimpionica della sua nuova dacia. Non so se gli piacesse nuotare, prima al massimo avrà nuotato nella sua vasca da bagno». Sedici anni dopo lo scialbo funzionario messo al Cremlino dalla “famiglia” di Boris Eltsin proprio perché anonimo e inoffensivo festeggia il compleanno con spettacolari lanci di missili in Siria. E resta, nonostante le ovvie perplessità sull’affidabilità dei sondaggi in Russia (il 33 per cento degli interrogati confessa che non darebbe mai a un sondaggista una risposta che contraddice la linea ufficiale), il politico più popolare in Russia.
Un meccanismo le cui ragioni profonde vengono spiegate con la teoria del sociologo Simon Kordonsky, il quale sostiene che la Russia sia «il Paese dell’anomia». Nessuno degli studenti del professore è in grado di rispondere a domande semplici come: «In quale continente abitiamo?» (le risposte variano da «Europa» ad «Asia» passando per «Eurasia»), «A quale classe sociale appartiene?» (di solito l’interrogato riesce a identificarsi al massimo con un ceto, come i dipendenti pubblici o i militari) e «Quale sistema sociale abbiamo?» (capitalismo, socialismo, feudalesimo: la confusione è massima). Sintomi di un gigantesco shock post-traumatico, di una crisi identitaria in cui, con il crollo del comunismo, è cambiato tutto: il modo di fare carriera, di guadagnare soldi, simboli del prestigio sociale, i rapporti familiari, le aspirazioni, i sogni e le appartenenze. Putin, il «figlio di una donna delle pulizie e di un operaio» (frase per la quale il satirico Viktor Shenderovich è stato censurato perfino dalla radio liberale Eco di Mosca) che sognava una carriera nel Kgb come massima aspirazione e che, dopo la fine del sistema sul quale aveva scommesso, pensava di doversi ridurre a usare la sua Volga comprata con la missione nella Ddr per fare il tassista, è la vendetta di tutti, oligarchi e manovali, per il collasso di quel mondo. Condivide le loro frustrazioni, le paure e le delusioni, i traumi e i sogni. Come loro, non parla mai di futuro, ma dedica tanto spazio al passato, e considera l’evento più importante del 2015 la celebrazione del settant’anni della vittoria sul nazismo: scenografica, imponente, ma pur sempre una cerimonia di ricordo. La guerra in Ucraina non è stata lanciata su un futuro di mercati e strategie – lo stesso Putin, come sempre migliore fonte di informazioni sui suoi moventi, ha ammesso che «la Crimea non ha nessun valore militare» – ma su un passato che Kiev voleva rileggere in una chiave coloniale rifiutando le glorie sovietiche. E la parabola di Putin da quasi fan della Nato ai tempi degli accordi sponsorizzati da Silvio Berlusconi alla ferrea convinzione che l’Alleanza abbia come unico scopo demolire la Russia («Per dominare il mondo gli Stati Uniti non escludono di far collassare la Russia, ottenendo così accesso alle nostre risorse», ha appena dichiarato Nikolay Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza, successore di Putin alla guida dei servizi e fedelissimo del presidente) è la stessa del suo popolo. Un popolo che si sente respinto dall’Occidente nel quale sognava di occupare il posto che gli spetta invece di essere trattato da Paese del Terzo mondo.
L’Occidente quindi non può essere un modello e, in assenza di una proposta di futuro, l’autostima perduta con il franare dell’Unione Sovietica viene recuperata con un vittimismo nazionale e una ricostruzione eclettica della storia. Di recente Putin ha sconvolto i russi sbottando in pubblico e dicendo che Lenin «ha messo una bomba atomica sotto la Russia» concedendo autonomia alle nazioni che la componevano. Un ribaltamento totale del pantheon post-sovietico, che però trova riscontro nel terrore della rivoluzione che ha spinto anche molti intellettuali russi a schierarsi con Putin e contro la rivolta in piazza di Kiev e che, al contrario degli eroi della perestroika (Putin, secondo Judah, ha dichiarato Mikhail Gorbaciov «un traditore»), premia come fondatore dello Stato non Lenin ma Stalin, «manager efficiente» come lo ha definito il presidente. Dove la qualità principale da ricercare è la stabilità, perché gli orfani dell’Unione Sovietica più di ogni altra cosa temono il caos. È un Paese «dal passato imprevedibile», come dice una battuta russa, che con l’aiuto di Putin si sta ricostruendo una storia patchwork, che salva gli zar e Stalin, boccia Lenin e il 1917, va fiera degli zar ma anche di conquiste sovietiche come lo spazio e l’Armata Rossa, accusa l’Occidente anche dell’epidemia di influenza e sogna ville e passaporti europei, in una confusione di identità sociali, etniche, culturali e politiche. E così, secondo Kordonsky, la Crimea strappata all’Ucraina diventa un perno sul quale ricostruire la percezione di un’appartenenza territoriale. In altre parole, l’annessione della Crimea, per usare un’intuizione brillante del rettore di Economia dell’Università di Mosca, Alexandr Ausan, persegue quella «espansione nello spazio» che «ha sostituito il progresso temporale, con la modernizzazione negata» a chi era sceso in piazza nel 2011 per chiedere più democrazia.
Lo storico Vassily Zharkov sostiene dalle pagine di Gazeta.ru che Putin è un seguace inconsapevole di Thomas Hobbes, non a caso reduce anche lui dallo shock della rivoluzione di Oliver Cromwell, ed è una coincidenza curiosa che il disperato film di Alexandr Zviagintsev sulla provincia russa, praticamente censurato in patria, si intitoli proprio Leviatano. Per il leader russo, «lo Stato è la principale e unica garanzia di pace, stabilità e sicurezza, e anche di progresso, che non può venire da una rivoluzione», scrive Zharkov, notando come i principi di “guerra di tutti contro tutti” e homo homini lupus est siano fondanti per la visione putiniana e putinista.
Dalla fine della grande utopia comunista probabilmente i russi non potevano emergere se non come cinici disincantati, basta guardare l’espressione annoiata di Putin quando ascolta all’Onu Barack Obama parlare di valori e libertà globali. È uno dei motivi per cui il Cremlino è sinceramente convinto che il Maidan di Kiev sia opera della Cia: in un salotto moscovita l’idea che un milione di persone possa scendere in piazza per un ideale viene normalmente accolta con una risata e, non a caso, anche per organizzare i cortei filogovernativi le autorità ricorrono a manifestanti precettati e prezzolati, preferendo non fidarsi della spontanea adesione degli elettori, benché questi siano in stragrande maggioranza putiniani convinti. Dal basso non può venire nulla di buono e Putin, da conservatore in senso tecnico quale è, si ritiene l’unico argine al caos primordiale della «rivolta russa spietata e insensata» descritta da Alexandr Pushkin, un altro ex idealista giunto dopo l’incontro con lo zar alla conclusione che «in Russia l’unico liberale è il governo». Un modello che, in un mondo sempre più liquido e disintermediato, trasforma la Russia, secondo l’amara diagnosi dell’ex ministro dell’Economia Gherman Gref, in un «Paese downshifter (cioè in volontario ripiegamento, ndr), che ha perso la competizione tecnologica con il mondo sviluppato». Gli anni del barile a 100 dollari hanno finanziato l’edificazione di una piramide monolitica, con lo zar che incarna quasi misticamente le aspirazioni del suo popolo, senza corpi intermedi e check and balances, che sono visti anzi come un intralcio. L’unità nazionale diventa ideologica e lo Stato si identifica con il governo in un sistema in cui l’alternanza al potere è quasi un sacrilegio, il viceresponsabile dell’amministrazione presidenziale Vyacheslav Volodin arriva a coniare la formula granitica «Senza Putin non c’è la Russia» e la magistratura incrimina gli oppositori che, come Mikhail Khodorkovsky, chiedono un cambio al vertice. Un cambio che, secondo l’ex oligarca, a questo punto, e cioè «in assenza di elezioni oneste e altre istituzioni di potere, non può che avvenire attraverso una rivoluzione, inevitabile e necessaria». Esattamente l’incubo di Putin, perseguitato dalle immagini della morte di Muammar Gheddafi, un’ossessione sulla quale è tornato più volte. Per ora la crisi economica sembra non aver scalfito la sua popolarità. Ma il grido della signora in visone che insieme con altri sventurati stava assediando la banca alla quale deve pagare un mutuo in dollari ormai insostenibile – «Ridiamo indietro questa Crimea, non abbiamo più soldi per vivere» – è forse l’inizio della fine di un’epoca.