Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

INTERVISTA A BRUNO VESPA

Tutto cominciò con uno scioglilingua di Aldo Grasso, apparso sul Corriere della Sera dopo la prima puntata, trasmessa da Rai 1 il 22 gennaio 1996: «Porta aperta a chi porta, e chi non porta, parta. Questa l’ideologia di fondo di Porta a porta, programma per venditori di indulgenze, fumo e anime al diavolo». Da allora sono passati 20 anni (2.512 puntate al 16 febbraio), la tv ha seppellito decine di talk show (Tempo reale, Moby Dick, Circus, Sciuscià, Il raggio verde, Annozero, Servizio pubblico, Le invasioni barbariche, Niente di personale, Maurizio Costanzo show, solo per citare i più famosi) ma i venditori di indulgenze, fumo e anime si accalcano ancora alla porta del diabolico Bruno Vespa, in attesa di poter esporre la loro mercanzia nel suo salotto.
Che poi in realtà è una sala da pranzo, come ho scoperto l’unica volta in cui mi ci ha invitato contro la mia volontà. A digiuno da dieci ore, situazione di estrema sofferenza per chi pesa 116 chili, negli studi di via Teulada sono stato accolto da aromi di ristorante, come se fossi entrato dalla Sora Lella. Vespa stava finendo di registrare, anzi di spadellare, una puntata con gli ubiqui Joe Bastianich e Anna Moroni. Gli assistenti mi hanno spiegato che la massaia catodica dalla rovinosa voce chioccia, presenza fissa anche nella Prova del cuoco di Antonella Clerici, è sempre pronta, come le trippe: dirigendo una scuola di cucina a piazzale Clodio, 400 metri dalla sede Rai, non devono nemmeno pagarle il taxi, arriva in trasmissione a piedi, già con il grembiule sotto il cappotto, impasta e soffrigge, poi torna a bottega in attesa della successiva convocazione.
Il primo ospite di Porta a porta fu Romano Prodi. Esordì dicendo: «L’Italia sta soffrendo troppo». A distanza di quattro lustri potrebbe ripresentarsi nello stesso modo, nonostante nel frattempo abbia guidato due governi. Come ammaestrava Confucio, studia il passato se vuoi prevedere il futuro.
Aldo Grasso scrisse che «Prodi, incalzato dalla rabbiosa melensaggine del conduttore, pareva più cane bastonato del solito». Dunque saresti melenso, cioè, per stare allo Zingarelli, tardo di mente, goffo, ottuso, rimbambito, insulso, sciocco, banale, sdolcinato e lezioso.
È esattamente ciò che il critico pensa di me. Me ne sono fatto una ragione. In 20 anni sarà pure andata in onda almeno una puntata decente. Be’, Grasso non se n’è accorto. Pazienza.
«Con Vespa non solo lo spettatore rischia di fare una brutta fine ma anche gli ospiti». Sempre Grasso.
Non credo d’aver provocato vittime. Anzi, è voce comune che Porta a porta abbia portato fortuna a molti.
Eugenio Scalfari dopo 20 anni ha smesso, Ezio Mauro pure. Tu continui imperterrito. Cos’è? Testardaggine da abruzzese? «La coccia n’cim o’ cipp, viva Francisc!», anche sul patibolo, viva re Francesco, come gridavano nel 1861 i resistenti borbonici di Civitella del Tronto, gli ultimi a sottomettersi ai Savoia.
Scalfari e Mauro si sono ritirati dopo 20 anni di direzione. Io non sono direttore.
Dirigi te stesso.
È sicuramente più pericoloso. Vado avanti finché la Rai me lo concede. David Letterman, un grande, ha chiuso il suo Late show dopo 33 anni tra Nbc e Cbs perché ormai la concorrenza lo batteva. Le trasmissioni durano se funzionano. E la mia non ha antagonisti più forti in seconda serata.
A che cosa attribuisci questo record di longevità?
Alla capacità di rinnovarci giorno per giorno. Porta a porta è diversissima da 20 anni fa. Dalla mattina alla sera abbiamo deciso di ridurre la politica, che era il nostro cavallo di battaglia, a soli 40 minuti.
Da che dipende il vistoso calo di ascolti dei talk show?
Ce ne sono troppi, mandano in overdose il telespettatore. Vuoi l’elenco dei conduttori in onda negli orari più pregiati?
Sentiamo.
Nove in prima serata: lunedì Paolo Del Debbio e Riccardo Iacona; martedì Giovanni Floris e Massimo Giannini; giovedì Nicola Porro e Corrado Formigli; venerdì Gianluigi Paragone; sabato Fabio Fazio; domenica di nuovo Fazio, più Iacona o Milena Gabanelli. Due nel pomeriggio festivo: Massimo Giletti e Lucia Annunziata. Due ogni giorno nel prime time: Lilli Gruber e ancora Del Debbio. Totale 14. Quando arriva Vespa, è già passato di tutto.
Credevo che la crisi di audience dipendesse dalla politica.
La politica non è mai stata popolarissima. Nel 1996 ci aiutò l’ambizione di raccontare la Seconda Repubblica: Silvio Berlusconi e i suoi compagni di scuola, Romano Prodi e i suoi amici di biciclettate. Ma oggi, a parte Matteo Renzi, i leader ispirano meno curiosità.
Adesso che non c’è più la Dc, chi è il tuo «editore di riferimento», per usare l’espressione che ancora ti rinfacciano?
Quando dirigevo il Tg1, dissi che l’editore di Rai 1 era la Dc, di Rai 2 il Psi e di Rai 3 il Pci, con la differenza che Alberto La Volpe e Sandro Curzi, direttori del Tg2 e del Tg3, eccellenti colleghi, erano uomini di partito, mentre io non ho mai avuto tessere né ho mai partecipato a una riunione politica. Ma se la Dc avesse stabilito che Vespa non doveva dirigere il Tg1, quel ruolo non mi sarebbe stato affidato. Per cui, a costo di ripetermi, ribadisco che, siccome la Rai dipende dal Parlamento, chi ne decide le sorti è da sempre il partito di maggioranza. Il che naturalmente non deve impedire un giornalismo indipendente.
Il Pd è l’editore di riferimento.
Sai quanti big democristiani avrebbero fatto carte false per avere un loro Michele Santoro? Remo Gaspari gl’invidiava la capacità persuasiva. «Quello sa trasformare un’azza in un dirigibile» lo elogiava.
Un’azza?
Un coleottero verde rumoroso, in dialetto abruzzese. «Ma purtroppo» aggiungeva sconsolato Arnaldo Forlani «Vespa ha il vizio del pluralismo».
Vai d’accordo con il renziano Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale della Rai?
Ho avuto un solo colloquio, non l’avevo mai visto prima. Mi è sembrato molto motivato. È un innovatore, ma ci siamo trovati d’accordo su un punto: gli utenti ci giudicano ogni sera dal prodotto. La Rete 1 paga gli stipendi di tutta la Rai. Basta una sola sbandata e i contraccolpi sono pesantissimi.
È giusto che Campo Dall’Orto abbia pieni poteri nelle nomine giornalistiche e s’incontri ogni venerdì con Renzi?
Che s’incontri o no con Renzi, sono affari suoi. Una frequentazione così assidua mi sembra inverosimile. Lui l’ha smentita. Ho sempre detto e scritto che l’amministratore delegato della Rai deve comandare, come un normale manager d’industria. Vedo ogni tanto lord Tony Hall, direttore generale della Bbc. Prima stava alla Royal Opera House. Sapendo che sono appassionato di musica, un’amica di entrambi ha voluto invitarmi al Guglielmo Tell diretto da Antonio Pappano. Hall s’è presentato in ritardo, dicendo: «Scusate, ma oggi ho licenziato mille dipendenti». A differenza di lui, Campo Dall’Orto deve sottoporre le nomine editoriali al consiglio d’amministrazione.
Risulta anche a te che Prodi, insieme con Massimo D’Alema ed Enrico Letta, stia brigando con i boss europei per far fuori Renzi e mettere al suo posto Tito Boeri, presidente dell’Inps?
L’ho letto sul Foglio. Non so che dirti. Le dietrologie non mi appassionano. Certo D’Alema non fa mistero di lavorare a tempo pieno per la sua caduta.
Il tuo rapporto con il premier qual è? Ha tentato di addomesticarti?
Ma figurati! Lo conosco da quand’era presidente della Provincia di Firenze. Un’amica comune, un po’ sbadata, mi ha recapitato con anni di ritardo un suo libro intitolato Tra De Gasperi e gli U2. La dedica era datata 2 ottobre 2006: «Caro direttore, un tentativo di un trentenne di parlare di politica senza recriminare», con la parola «trentenne» sottolineata. Da sindaco m’invitava al Maggio fiorentino e io andavo volentieri. Intuivo che avrebbe fatto carriera, ma non così in fretta.
«Se il 21 settembre 2014, che è il giorno di San Matteo, noi abbiamo pagato tutti i debiti della pubblica amministrazione, lei Vespa andrà a piedi da Firenze al santuario di Monte Senario» ti ordinò in trasmissione. Ci sei andato?
Sto ancora aspettando che ci vada lui. Conterà sulla prescrizione.
Se tu fossi al posto di Renzi, che faresti?
Oh, Signore mio!
Bellissima risposta.
Ecco.
E al posto di Berlusconi?
Domanda di riserva?
Non ce l’ho.
Gestire un’eredità non è facile. Il Cavaliere fu geniale nell’entrata in campo, dev’esserlo anche...
Nell’uscita?
No, no, guarda, è presto per l’uscita, te l’assicuro. Deve cercare una nuova generazione di politici, come nel 1994. Lo sta facendo. Poi, come diceva Giulio Andreotti, quando passa l’ambulanza della Croce rossa c’è sempre qualche abusivo che s’intrufola dietro, è inevitabile.
E al posto di Beppe Grillo, che faresti?
Un magnifico show.
Pensi che Guido Bertolaso riesca a diventare sindaco di Roma?
Il centrodestra può vincere solo se resta unito.
Se Renzi perdesse le elezioni a Roma o a Milano, finirebbe per doversi dimettere?
No. Non a caso ha indicato come discrimine il referendum autunnale sulle riforme costituzionali.
E secondo te lo vincerà?
Allo stato, direi di sì. Perché se lo giocherà su un unico quesito: «O me o chi?». E in questo momento un chi non c’è. Non escludo che poi gli venga la tentazione di andare al voto anticipato nel 2017.
Il giorno della canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II partecipasti alla cerimonia con altri 150 vip sul terrazzo della Prefettura degli Affari economici, ospite di monsignor Lucio Ángel Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, oggi sotto processo in Vaticano. Pentito?
Manco sapevo chi fosse, questo prelato. Uno sponsor contattò una mia collega, ma ricevemmo l’invito dalla Prefettura degli Affari economici.
E Chaouqui la conoscevi?
La conobbi quel giorno.
Non t’inquietò vedere che fra gli ospiti c’era anche Roberto D’Agostino?
Restai molto sorpreso. Era la prima volta che incontravo Dagospia a una cerimonia pontificia. Le mie perplessità aumentarono quando cominciò a fotografare chi faceva la comunione, me compreso.
Il 13 ottobre 1998, nel ventesimo del suo pontificato, papa Wojtyła telefonò in diretta a Porta a porta. Papa Bergoglio si è fatto intervistare da tutti tranne che da te. Come lo spieghi?
Cambiano i papi, cambiano le abitudini.
Non dirmi che non hai tentato di strappargli un colloquio.
Come a ogni pontefice neoeletto, abbiamo presentato una formale richiesta.
E la risposta è stata un rispettoso silenzio.
L’hai detto.
Ti piace questo Papa?
È profetico. Guarda al mondo da uomo del Sud, quindi guarda soprattutto al Sud. La Chiesa deve fare anche questo. Però mi pare troppo severo con il nostro episcopato.
Che effetto ti ha fatto sentire Francesco citare «tra i grandi dell’Italia di oggi» Emma Bonino, che da deputata radicale praticava aborti con una pompa per bicicletta?
(Lungo silenzio). Emma Bonino ha fatto molto per il Sud del mondo. Per il Papa questa evidentemente è la cosa più importante.
Sei un buon cristiano?
Questo lo deciderà il mio vero editore di riferimento.
Delle unioni civili che cosa pensi?
Sono giustissime. Ma l’utero in affitto mi pare terribile. E non vorrei equivoci.
Dei tuoi concorrenti di tutte le reti chi ti piace di più?
Il più bravo era Michele Santoro.
Non ho usato un verbo all’imperfetto.
(Ride). Era Santoro.
Vedi all’orizzonte un erede?
Ce ne saranno a decine.
Ma non li vedi.
I programmi hanno la personalità di chi li fa.
Piero Angela ha imposto in Rai come suo erede il figlio Alberto. Perché tu non hai fatto lo stesso con tuo fratello Stefano o tuo figlio Federico?
A mio fratello la tv fa venire l’orticaria. Sarebbe stato un grandissimo radiocronista, molto più bravo di me. Nel 1982 seguì i Mondiali per Telemontecarlo. Nonostante il comitato di redazione della sede Rai di Pescara avesse dato parere favorevole alla sua assunzione, viale Mazzini non lo prese in quanto fratello di Bruno Vespa. Ha passato il testimone a mio figlio, che da anni è radiocronista a Rtl 102.5.
Tu entrasti in Rai per concorso nel 1968, se non ricordo male.
Di così duri non ne sono più stati fatti. Dopo la preselezione, rimanemmo in 650. Ci decimarono con prove di questo tipo: «Mi parli del suo primo amore in 60 secondi. Via al cronometro». Fui portato da Paolo Valenti in un palazzo nobiliare di corso Vittorio Emanuele, a Roma, dentro un salone vuoto. Mi disse: «Poniamo il caso che qui tra cinque minuti s’inauguri l’anno accademico di studi su Giambattista Vico. Mi faccia la telecronaca». Di un avvenimento immaginario, ti rendi conto?
Se il tuo accento fosse stato veneto, non ti promuovevano, sta’ sicuro.
Un collega riuscì a togliersi la erre moscia durante le vacanze di Natale. Eppure fu bocciato lo stesso.
Ma chi c’era in commissione?
Da Enzo Biagi a Umberto Eco, ci passarono al setaccio un po’ tutti. Io scrissi un tema sul Maggio francese. «Buono» commentò Alberto Ronchey «ma troppe citazioni». Non so se fosse un complimento, visto che nei suoi articoli ne infilava tre ogni quattro parole.
Come mai per Porta a porta hai scelto la sigla di Via col vento?
Perché è bella. E poi la frase finale di Rossella O’Hara, «dopotutto, domani è un altro giorno», si adatta alla politica.
Per caso, è l’ultimo film che hai visto?
Spiritoso. No, gli ultimi sono Revenant e Quo vado?
Capisco Leonardo DiCaprio, ma Checco Zalone...
Embè? È un film nient’affatto banale. Di cui non capisco il successo gigantesco.
Te l’ha mai detto nessuno che hai la brutta abitudine d’interrompere chi non segue il tuo spartito? Barbara Serra, conduttrice di Al Jazeera, mi ha confessato d’essere ancora traumatizzata da te.
Mi meraviglia che si lamenti una collega conduttrice. I programmi sono fatti di ritmo. Se l’ospite mi attacca un bottone, devo contenerlo. L’ho fatto anche con Berlusconi e con Renzi.
Esisterebbe Porta a porta senza Claudio Donat Cattin?
Sì, ma avremmo più difficoltà. Siamo una redazione che lavora sette giorni su sette, con un’organizzazione militare. Claudio è il sergente di ferro della migliore squadra su piazza. Possiamo andare in onda in qualsiasi momento, su qualsiasi argomento, per qualsiasi durata.
E allora perché non parli mai di lui?
Non vuole neppure il suo nome nei titoli di testa. Non esiste.
Ma perché a te è inibita la prima serata?
Su Rai 1 l’informazione in prima serata non funziona, salvo che nelle grandi emergenze. La gente vuole distrarsi. Porta a porta è nazionalpopolare come Rai 1.
Che significa?
Leader nelle fasce più alta e più bassa. Non a caso si vociferava che la guardassero sia Gianni Agnelli, sia il suo cameriere.
«Sono le montagne russe dell’intelletto» come disse l’inviato speciale del Gazzettino ai colleghi Mino Monicelli e Alfredo Todisco, il giorno che dal Festival del cinema di Venezia fu catapultato a Borgo Valsugana per la morte di Alcide De Gasperi.
Perfetto.
Quale puntata ha segnato il record d’ascolto?
Quella del febbraio 2001 con lo scontro fisico fra Alessandra Mussolini e la comunista Katia Bellillo, ministro per le Pari opportunità: 55 per cento di share, 77 per cento al momento dei calci. In prima serata, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e l’arresto di Annamaria Franzoni per il delitto di Cogne: 8,5 milioni di telespettatori.
Chi non inviteresti mai in trasmissione?
Gli sboccati, quelli del trash.
Fammi un esempio.
No, no, non lo so, non li conosco. Non guardo tanta tv.
Questa è bella.
Ogni volta che apro una rivista di gossip, il 90 per cento delle persone che vedo fotografate non le ho mai sentite nominare. Giuro. Leggo: «Tizio si fidanza con Caia». Io non conosco né Tizio né Caia. Vivo in un altro mondo.
Quanto viene a costare una puntata di Porta a porta?
Dai 40 ai 45 mila euro.
E quanto rende in spot pubblicitari?
Quando l’economia tirava, anche sette volte tanto. Adesso, con la crisi, almeno il triplo.
Quanti soldi ti ha fatto guadagnare in 20 anni?
Abbastanza.
Non significa niente.
Molti. Quelli che la Rai ha ritenuto giusto darmi, senza sopravvalutarmi rispetto ad altri.
Fringe benefit?
Neppure gli abiti. Sono della sartoria napoletana Sabino, citata nei titoli di coda. A fine stagione vengono restituiti.
Ma no! E te ne vai in giro coperto di peli di cammello come il Battista?
Ho nel guardaroba i miei vecchi abiti di Brioni, il sarto dello smoking di James Bond. E ne compro anche di confezionati.
Chi è stato il tuo maestro di vita?
Mia nonna Aida. Mi raccomandava: «Frequenta solo persone migliori di te».
Come t’immagini fa dieci anni?
Spero vivo.
Stefano Lorenzetto

LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.