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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

IL TRIANGOLO MOSCA-RIYAD-TEHERAN


I rapporti della Russia putinana con i duellanti del Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita, possono anche essere raccontati sul filo del paradosso. Perché dell’Iran, con cui ha comunque costruito un rapporto politico ed economico di un certo spessore, la Russia non ha potuto o voluto diventare fino in fondo «amica»; mentre dell’Arabia Saudita, tradizionale alleato degli Usa, rivale sul mercato del petrolio e comunque paese che ha obiettivi spesso in contrasto con quelli del Cremlino e dei suoi alleati, la Russia non ha voluto o non ha potuto diventare fino in fondo «nemica». Strana situazione, che a sua volta produce uno strano equilibrio.
Quando i sauditi hanno decapitato lo sceicco sciita Nimr al-Nimr e altre 46 persone, ai primi di gennaio, dando il via alla crisi che ha portato, dopo l’assalto della folla all’ambasciata saudita di Teheran, alla rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, la Russia, che pure in Siria combatte a fianco degli iraniani e contro le formazioni islamiste sostenute dai sauditi, si è offerta come mediatrice, senza che ciò destasse sorpresa né scandalo. E quando l’Onu ha deciso di esaminare la questione, i diplomatici russi hanno votato senza troppe esitazioni la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che condannava l’Iran per l’assalto senza fare parola dell’ondata di esecuzioni del regime islamista di Riyad. Cose di Medio Oriente, in cui il Cremlino sembra comunque muoversi con una certa disinvoltura.

Il reset con Riyad
I rapporti tra Russia e Arabia Saudita hanno sempre avuto un andamento altalenante. L’Unione Sovietica fu il primo paese al mondo, nel 1926, a stabilire relazioni diplomatiche con il Regno dell’Higaz, proclamato l’8 gennaio di quell’anno, denominazione ufficiale dell’Arabia Saudita fino al 1932. Precocemente nate, quelle relazioni subirono un precoce declino: nel 1938 i sauditi richiamarono in patria i propri rappresentanti a Mosca, chiudendo i rapporti per riaprirli solo nel settembre 1990, alla vigilia della dissoluzione dell’Urss ma, quel che più conta, subito dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’esercito di Saddam Hussein.
Gli anni Ottanta e Novanta segnarono, in quel lungo periodo di chiusura, il punto più basso. L’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979), e i dieci anni di guerra che ne seguirono fino al ritiro Dell’Armata Rossa, provocarono il deciso appoggio ai mujahidin da parte dei sauditi, che furono anche i primi a lanciare il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980. E le due guerre di Cecenia (1994-1996 e poi dal 1999), con la partecipazione di comandanti e guerriglieri sauditi alle operazioni dei ceceni contro i russi e il tentativo di penetrazione culturale e religiosa del wahhabismo di Stato saudita nel Caucaso, con il finanziamento di decine di moschee e scuole coraniche, generarono l’ostilità del Cremlino e il sospetto che, in quel caso, i quattrini convogliati dalle fondazioni e dalle organizzazioni di beneficenza del Golfo Persico fossero anche al servizio di un progetto americano di destabilizzazione del fianco Sud della Russia.
Anche tra Russia e Arabia Saudita, però, è infine arrivato il momento di un reset. A rompere il ghiaccio fu il principe ereditario ‘Abdallah, con una visita di Stato a Mosca nel 2003. In quel momento ‘Abdallah non portava la corona ma di fatto erano già nelle sue mani le redini del regno, visto il pessimo stato di salute di re Fahd, colpito da un ictus nel 1995. E infatti nel febbraio 2007, quando Fahd era ormai morto e Abdallah era salito al trono da meno di due anni. Vladimir Putin poté sbarcare a Riyad con un’imponente delegazione di diplomatici e uomini d’affari in cui era incluso Vagit Alekperov, capo del gigante petrolchimico Lukojl ma anche, all’epoca, unico musulmano russo alla guida di uno dei colossi dell’energia.
Putin portava con sé in Arabia Saudita due cose. Anzitutto, e proprio nel momento in cui la violenza settaria nell’Iraq invaso dalla coalizione angloamericana raggiungeva il culmine, il secco «no» all’unilateralismo americano, espresso con grande decisione pochi giorni prima alla 43ª Conferenza annuale sulla Sicurezza svoltasi a Monaco di Baviera. Insieme, e per conseguenza, la disponibilità russa a rispettare le differenze (di regime, cultura, fede: «Noi favoriamo la creazione di un ordine internazionale più giusto, basato sui princìpi dell’uguaglianza e del rispetto per tutte le persone, a prescindere dal loro credo religioso. La Russia è un paese multinazionale, patria di cristiani, musulmani e rappresentanti di altre religioni che sono coesistiti come buoni vicini in accordo per molti secoli», disse in quell’occasione) e a discutere senza complessi di relazioni economiche all’insegna della reciproca convenienza.
Armamenti, nucleare, finanza, satelliti per le comunicazioni e tariffe doganali (tra il 2000 e il 2005 gli scambi commerciali tra Russia e Arabia Saudita erano aumentati del 230%), ecco gli argomenti sul tavolo di quelle negoziazioni. E naturalmente gas e petrolio. Vladimir Putin disse che i sauditi erano «collaboratori» e non «competitori» nello sviluppo delle fonti energetiche e nello sforzo di garantire stabilità al mercato mondiale dell’energia. Insomma, fece di tutto per inaugurare un rapporto più cordiale con l’Arabia Saudita e approfittare dell’approccio di ‘Abdallah, che sembrava più aperto.
Putin, alfiere del multilateralismo, sperava di lucrare sulla preoccupazione saudita per le azioni americane in Iraq: secondo Riyad, la cacciata di Saddam Hussein poteva preludere a una rinascita dello sciismo iracheno, con l’inevitabile attrazione del governo di Baghdad nell’orbita dell’Iran. Quanto puntualmente avvenuto. I russi, inoltre, speravano forse di convincere i sauditi a intraprendere qualche azione comune sul fronte energetico, se non ad arrivare a quel «cartello internazionale del gas» di cui Putin aveva cominciato a parlare già nel 2002, appena diventato presidente, e di cui in quel viaggio fece cenno anche alle autorità del Qatar, visitato subito dopo l’Arabia Saudita.
I sauditi, e tra loro l’attuale re Salman, allora governatore della capitale Riyad, furono ospiti squisiti. Firmarono grossi contratti e ascoltarono con interesse i delegati russi che spiegavano all’allora secondo compratore mondiale di armi (nel 2006 il regno saudita aveva investito in armamenti 3,5 miliardi di dollari, secondo solo all’India) i pregi della loro industria bellica. Con pazienza esaminarono anche il progetto russo di una ferrovia tra la Mecca e Medina. A loro stavano bene gli affari e, soprattutto, stava benissimo l’idea di sventolare davanti agli occhi degli Usa, insabbiati nelle violenze irachene, il drappo rosso di una possibile alleanza alternativa.
Anche Putin ottenne qualcosa ma, contratti a parte, molto meno di quanto avrebbe desiderato. Nel 2008, quando scoppiò la guerra con la Georgia, poté incassare una presa di posizione saudita di «comprensione» dell’atteggiamento russo su Abkhazia e Ossezia del Sud. E, certo, riportò al Cremlino l’Ordine di ‘Abd al-’Aziz per i servizi resi all’islam, la più alta onorificenza saudita. Dal punto di vista politico, però, nulla di rivoluzionario né di sostanziale: la vicinanza della Russia all’Iran degli ayatollah e alla Siria di Bassar al-Asad, bastioni del mondo sciita in Medio Oriente, continuava a pesare sui rapporti con la monarchia sunnita dell’Arabia Saudita.

La storia si ripete
Tale vicinanza, come abbiamo visto, si è fatta in questi anni ancora più calorosa e significativa. Il Cremlino ha lavorato intensamente perché l’Iran potesse raggiungere l’intesa sul nucleare con il 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Usa, Russia, Francia, Regno Unito e Cina, più la Germania) e poi è addirittura sceso in campo con le armi per aiutare al-Asad in Siria. Però, anche in questo caso, il rapporto di non particolare amicizia con l’Arabia Saudita non si è trasformato in ostilità, né dall’una né dall’altra parte.
Ed è anzi curioso notare come i sauditi, che a certe forme danno carattere di sostanza, abbiano tenuto a replicare nei confronti della dirigenza russa gli atteggiamenti del passato. Nel 1933 era arrivato a Mosca il giovane Faysal, ministro degli Esteri, poi principe ereditario e infine (1964) re. Altrettanto aveva fatto, come abbiamo visto, il principe ereditario (e poi re) ‘Abdallah. L’ascesa al trono di re Salman, nel gennaio 2014, ha portato a una serie di radicali cambiamenti sia nei ranghi della famiglia reale sia negli incarichi di potere. Muhammad bin Nayif, 55 anni, è stato nominato ministro dell’Interno, vice primo ministro e principe ereditario. Rango, quest’ultimo, a cui è asceso grazie alla precipitosa disgrazia di Muqrin bin Abd al-’Aziz, che principe ereditario lo è stato per tre mesi, dalla fine di gennaio all’aprile del 2015.
Questo avvicendamento che sa di siluramento rende ancor più importante l’altra nomina, quella a vice principe ereditario di Muhammad bin Salman al-Saud, 30 anni, figlio di re Salman, diventato nel contempo anche secondo vice primo ministro e ministro della Difesa. Il più giovane ministro della Difesa del mondo. Come se non bastasse, il vice principe è anche presidente del Comitato che sovrintende all’industria energetica saudita: considerato che la sua pur breve carriera si è svolta quasi tutta nel settore privato, e che un noto imprenditore privato come Halid al-Falih è stato nominato presidente di Saudi Aramco, la compagnia petrolifera di Stato, si può ben dire che l’ottantenne ministro del Petrolio ’Ali bin Ibrahim al-Na ‘imi si trovi ora sotto energica tutela. Ma soprattutto, si può ipotizzare che con queste scelte re Salman abbia voluto indicare una strada precisa per il futuro del paese, quasi una sequenza di tappe per la successione al trono.
Insomma, non è di poco significato che nel giugno dell’anno scorso sia toccato proprio al giovane vice principe ereditario Muhammad bin Salman recarsi in Russia, a rinverdire la tradizione delle visite di Stato compiute al Cremlino da coloro che aspiravano al trono dei Sa’ud.
Il figlio del re ha incontrato Vladimir Putin a San Pietroburgo, accompagnato da una delegazione di alto profilo che comprendeva il ministro del Petrolio al-Na‘imi, il ministro degli Esteri al-Gubayr (ex ambasciatore saudita negli Stati Uniti) e molti alti ufficiali dell’esercito e dell’intelligence. Come al solito si è parlato di armi e di nucleare (è stato anche firmato un accordo di cooperazione per lo sviluppo del nucleare civile, in ossequio al proposito saudita di costruire 16 centrali nei prossimi vent’anni) ma soprattutto di politica: la guerra nello Yemen (Mosca, sempre sospesa tra l’amicizia con Teheran e la non inimicizia con Riyad, si era astenuta sulla risoluzione Onu che chiedeva ai ribelli sciiti huti di liberare la capitale San‘à’), la guerra in Siria, l’accordo sul nucleare con l’Iran che ai sauditi continua a restare sul gozzo. Giovane ma prudente, il vice principe Muhammad ha evitato di nominare l’Ucraina.
E per finire il petrolio, naturalmente. In apparenza concorrenti, visto che sono il secondo (l’Arabia Saudita, con quasi 12 milioni di barili prodotti ogni giorno) e il terzo (la Russia, con quasi 11 milioni di barili al giorno) produttore al mondo dopo gli Usa (quasi 14 milioni di barili al giorno), Arabia Saudita e Russia hanno invece seguito un’identica strategia nell’anno orribile in cui il prezzo del greggio è precipitato del 70%, fin quasi ai 30 dollari a barile. Non hanno tagliato la produzione (anzi, l’una e l’altra proprio nel 2015 hanno fatto il record storico di produzione) e hanno lasciato che il prezzo finisse ai minimi degli ultimi dieci anni. Una gara di resistenza per conservare le quote di mercato che ha sfinito le reciproche economie ma che sembra averli tramutati da potenziali concorrenti in alleati forzosi nella comune impresa di vanificare, almeno in termini di resa economica, il vantaggio strategico ottenuto dagli Usa con le nuove tecnologie per l’estrazione dello shale oil.
Insomma, l’altalena continua. E se Vladimir Putin avesse per un attimo scordato che con l’Arabia Saudita non esistono pasti gratis, in ottobre è arrivato il manifesto di 55 esponenti religiosi wahhabiti sauditi che accusano l’Occidente di non appoggiare abbastanza la rivolta anti-Asad e la Russia di combatterla, chiedendo che sia lanciata contro Mosca un vero jihad. Non è un documento ufficiale, non ha il timbro della casa reale né quello del gran mufti, che con la casa reale peraltro è imparentato. Però è difficile, da quelle parti, che un simile pronunciamento possa avvenire contro il volere del Palazzo e della Moschea. Un avvertimento al Cremlino? Forse il segno che il nuovo re Salman non ha proprio tutto e tutti sotto controllo? In ogni caso, qualcosa di cui tener conto.

Intanto, in Iran...
Fino a che punto l’Iran, che da due decenni vanta con la Russia una relazione politica ed economica in costante crescendo, deve preoccuparsi dei maneggi tra Mosca e Riyad, di quel loro perpetuo incontrarsi e salutarsi senza mai dirsi addio? Il matrimonio d’interessi tra Mosca e Teheran, per la verità, ha già superato molte prove. Nel 2008, a quanto si dice, il Cremlino rifiutò una proposta indecente, ovvero molto conveniente, dell’Arabia Saudita, disposta a firmare sontuosi contratti per l’acquisto di armi russe in cambio di un allentamento dei rapporti tra Russia e Iran. E nel 2013 i sauditi avrebbero ricevuto un analogo rifiuto dai russi dopo aver offerto un «accordo quadro» sul mercato globale del petrolio (qualcosa di simile a ciò che sognava Putin per il gas durante la sua visita a Riyad del 2007) in cambio di un disimpegno del Cremlino dalla Siria, che avrebbe inevitabilmente implicato l’allontanamento geopolitico della Russia dall’Iran.
Allo stesso modo, negli ultimi mesi del 2015, dopo la firma del trattato sul nucleare tra Iran e 5+1, lo stesso Vladimir Putin, con gran dispetto dell’Arabia Saudita e di Israele, ha rimosso il divieto (imposto nel 2010 in ottemperanza a una risoluzione dell’Onu che sanzionava l’Iran per il suo programma di arricchimento dell’uranio a scopi militari) alla vendita dei sistemi di difesa aerea e antimissile S-300, mentre ha bloccato un approccio saudita per una fornitura di missili balistici tattici Iskander. In poche parole: sistemi di difesa all’Iran sì, sistemi di offesa che potrebbero essere usati contro l’Iran o dall’Iran, no.
Il fatto è che l’Iran offre alla Russia di Vladimir Putin qualcosa che l’Arabia Saudita, a meno di un improvviso rovesciamento dei rapporti internazionali segnati dal rapporto privilegiato con gli Usa e collaudati nel tempo, non potrà mai offrire e che va molto oltre i contratti e gli affari: la possibilità di contare in Medio Oriente e di contrastare con efficacia l’unilateralismo americano proprio in una delle regioni dove questo si è più dispiegato.
L’affiatamento con l’Iran consente alla Russia un saldo aggancio con il mondo sciita, di cui l’Iran è faro politico e religioso. Un mondo che, attraverso la Mezzaluna Fertile che va dall’Iran al Libano passando per l’Iraq e la Siria, unisce l’Asia al Mediterraneo ed è il perfetto contraltare all’arcipelago sunnita dominato dalle ambizioni geostrategiche degli Stati Uniti e dei loro alleati. Barack Obama e Vladimir Putin, a ben vedere, fanno sul Medio Oriente le stesse considerazioni e hanno gli stessi obiettivi, solo perfettamente rovesciati.
All’uno va benone che i grandi Stati multietnici e multiconfessionali si disgreghino secondo linee di faglia settarie che li renderanno meno autonomi, meno potenti e più controllabili, dagli Usa in prima persona o attraverso gli alleati: al secondo, che non può contare sullo stesso livello di penetrazione e potenza economica e militare, serve al contrario che questi Stati restino il più integri possibile, facendosi garante dei poteri autoritari che, con la forza, impediscono la disgregazione. All’americano interessa dettare le politiche della regione più ricca di riserve di idrocarburi, ora che gli Usa sono diventati non solo il primo produttore mondiale di petrolio e di gas ma anche esportatori di petrolio; al russo, invece, serve che gli altri interlocutori viaggino in un ordine il più possibile sparso, in modo che pesi di più il suo ruolo di grande ma non dominante produttore. L’alleanza con l’Iran, infine, serve alla Russia anche per tenere a freno il progetto della Turchia di estendere la propria influenza geopolitica e culturale sull’Asia centrale ex sovietica. Progetto invece assai ben visto dagli Usa, almeno fino alle più recenti smanie di Recep Tayyip Erdogan, che hanno con la Turchia una ben sperimentata alleanza, tempratasi in sede Nato ai tempi in cui l’esercito turco era il bastione Sud dell’opera di contenimento dell’Unione Sovietica.
In altri termini, l’Iran è oggi il paese che più consente alla Russia di sfuggire alla rete che gli Stati Uniti hanno steso all’Ovest per ridurre la sua influenza strategica e le cui più recenti maglie sono state l’acquisizione dell’Ucraina, dove il ministro dell’Economia è una ex funzionaria del Dipartimento di Stato Usa, e la procedura di inserimento nella Nato del Montenegro. Quanto vale, per un paese che vive di esportazione di materie prime, un’uscita di sicurezza di questo genere?
Vladimir Putin lo sa, quindi si tiene ben stretto il rapporto privilegiato con gli ayatollah. Senza farsene fagocitare, però. Durante la lunga trattativa sul nucleare, il Cremlino ha cercato di porsi in una posizione il più possibile (cioè, al massimo di quanto consentito nei rapporti con un alleato importante da un lato e con la comunità internazionale dall’altro) super partes. Come se volesse garantire il buon esito della trattativa, e quindi un interesse collettivo, piuttosto che un interesse particolare. Ovviamente non è così, perché sotto accusa e sotto scacco economico, attraverso le sanzioni, era l’Iran, che era quindi il soggetto che più aveva da guadagnare da un’intesa. È però innegabile che la Russia abbia sempre rispettato le decisioni dell’Onu e abbia saputo modulare con una certa abilità il proprio appoggio alla causa iraniana: raffreddandolo con il presidente falco Mahmud Ahmadi-Nejad, intensificandolo con il presidente dialogante Hasan Rohani.
Comportamento di una certa saggezza che, a trattativa conclusa, è stato apprezzato e lodato persino da Barack Obama. E che spiega bene perché anche l’Iran sia così attaccato all’interlocutore russo, a costo di farsi fare di tanto in tanto la predica e di sopportare i flirt russi con l’Arabia Saudita. Anche l’Iran aveva e ha bisogno di aprire un varco nel suo accerchiamento, di uscire dalla categoria di «Stato canaglia» che in parte si è guadagnato e in parte, in modo conveniente per il mondo sunnita alleato degli Usa, gli è stata appiccicata. Gli ayatollah vogliono dar fiato all’economia. E ricordano con nostalgia i tempi in cui fiorivano i traffici con Italia e Germania. Ma ne hanno bisogno anche per dar sollievo alla pressione interna, allo scontento di una popolazione giovane (il 41,5% degli iraniani ha meno di 24 anni), colta e moderna, che non sopporta più l’esclusione e l’isolamento e che lo ha dimostrato nei modi più clamorosi, anche se opposti: nel 2009 scendendo in piazza e rischiando la vita contro la repressione per protestare contro la rielezione di Ahmadi-Nejad, che preludeva appunto a una nuova stagione di chiusura; nel 2015 scendendo in piazza e sventolando la bandiera nazionale per accogliere come eroi i diplomatici che avevano firmato l’accordo sul nucleare, visto appunto come una liberazione.

Il triangolo no, non l ’avevo considerato
Il triangolo che lega la Russia all’Iran e all’Arabia Saudita è mobile e fragile. Ma per quanto sembri assurdo, proprio a questo triangolo sono oggi affidate molte delle speranze di tenere la situazione sotto il livello di guardia. La nuova dirigenza saudita sta mostrando in ogni modo di voler giocare in proprio in misura maggiore rispetto al passato. Lo dimostra non solo la politica petrolifera ma l’atteggiamento generale. Le 47 esecuzioni in un giorno sono state, da un certo punto di vista, una sfida rivolta soprattutto all’Occidente. È il richiamo agli alleati di un paese che si sente minacciato dentro dal crollo del petrolio (che impone drastiche revisioni al welfare e potrebbe innescare un malcontento pericoloso, soprattutto se agganciato alle proteste e alle rivendicazioni della minoranza sciita del Qatif) e fuori dal terrorismo e dal risorgente protagonismo iraniano. Un paese che forse ha appreso la lezione di Israele e quindi pone l’amico americano di fronte a una scelta secca: obbedire, dar corso alle crescenti richieste dell’alleato oppure privarsene e abbandonarlo a se stesso.
L’Iran è in una posizione diversa (neanche l’alleanza con la Russia è così decisiva come lo è quella dei sauditi con l’America) ma non meno rivendicativa. Come si è visto. Teheran non aveva la bomba atomica né era molto vicina a ottenerla. Ora che il sospetto è stato disperso, perché all’Iran non dovrebbe essere concesso ciò che è stato sempre concesso a Stati non meno canaglia di lui? Perché l’Arabaia Saudita può accampare diritti sullo Yemen, e bombardare insidiscriminatamente per affermarli, e i pasdaran dovrebbero tenersi fuori dalla battaglia contro l’Is e i suoi simili, in Iraq e in Siria? E così via.
La Russia non è neutrale, ha delle priorità e non le nasconde. Ma negli ultimi tempi si è mossa con molta più abilità, e anche prudenza, se pensiamo a questi due paesi, dall’eterno avversario americano. Bisogna sperare che sappia continuare a farlo.