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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

SOGNAVA MEDIOBANCA INVECE SEMBRA LA GEPI

E adesso c’è anche l’Ilva. I laminati d’acciaio s’aggiungono all’energia (Eni, Terna, Saipem), ai telefoni (Metroweb), alle navi (Fincantieri), agli hotel di lusso (con Rocco Forte), agli immobili di Stato, mentre Sace assicura le esportazioni in attesa che decolli la banca per l’export. La Cassa depositi e prestiti interviene, salva, accumula attività e mestieri. Non sarà il factotum della città, però Claudio Costamagna si sente un po’ come Figaro, tutti lo vogliono, tutti lo cercano.
È arrivato con l’aura del banchiere di lungo corso internazionale, trasversale anche se più orientato verso il centrosinistra. Ma gli esordi alla presidenza della Cdp, con l’amministratore delegato Fabio Gallia al quale sono andate le deleghe operative, non hanno tenuto fede a cotanta fama. Non è tutta colpa sua, sia chiaro. Prendiamo il caso Saipem. Costamagna non può certo controllare il prezzo del petrolio o i giudici che hanno condannato per corruzione internazionale la società dell’Eni specializzata in ricerca e trasporto di idrocarburi. E nessuno avrebbe mai immaginato che il titolo potesse crollare da un euro a 30 centesimi in soli tre mesi, provocando una vera voragine nei conti.
La Cassa, che possiede il 25 per cento dell’Eni, attraverso il Fondo strategico italiano (Fsi) ha acquistato dal gruppo petrolifero il 12,5 per cento di Saipem, spendendo 463 milioni, più altri 437 per partecipare all’aumento di capitale da 3,5 miliardi deciso per abbattere l’indebitamento. Ai valori attuali, la quota del Fsi vale 450 milioni, ciò vuol dire che ne ha persi altrettanti: ci vorranno anni per recuperarli. A quale scopo? Per difendere l’azienda da scalate ostili o alleggerire l’Eni dei 5,7 miliardi di debiti in capo alla sua controllata?
Certo si può dire che la Saipem sia un bene del Paese, proprio come l’Ilva. E allora perché non l’Ansaldo che costruisce treni ad alta velocità, venduta dalla Finmeccanica alla giapponese Hitachi. Il fondo Elliott (con quasi il 20 per cento) è sul piede di guerra e mette in dubbio l’Opa; è intervenuta la Consob e ha acceso un faro anche la magistratura. Forse la vera ragione è un’altra: Taranto è una polveriera politico-sociale a differenza dalla quieta Pistoia.
In realtà, l’operazione Ilva può diventare un vero boomerang. La cordata italiana per ora è nascosta nelle 29 manifestazioni d’interesse (17 nazionali e 12 straniere) mentre l’intervento del Fsi rischia di essere valutato come aiuto di stato dalla Commissione europea, con pericolose ricadute (articolo a pag. 17). Se la Cdp venisse considerata un braccio del Tesoro, suo azionista con l’80 per cento, la prima conseguenza sarebbe un aumento del debito pubblico pari almeno a dieci miliardi di euro. È quel che Giulio Tremonti ha voluto evitare nel 2003 cedendo il 30 per cento del capitale alle Fondazioni di origine bancaria guidate da Giuseppe Guzzetti che sono state via via ridimensionate (oggi hanno il 18 e non esprimono più il presidente).
Un progetto d’interesse nazionale è senza dubbio portare la banda larga in tutto il Paese. Annunciato con le trombe degli arcangeli, si sta perdendo in un labirinto, tra quello che deve fare l’Enel con i nuovi contatori ad alta tecnologia, la neo società pubblica Infratel e Metroweb, senza contare la grande incognita Telecom. Costamagna si muove, soprattutto verso Xavier Niel, e già spira il venticello dei sospetti: l’investitore francese sarebbe un cavallo di Troia per stoppare l’offensiva di Vincent Bolloré e aprire la strada a una pax telefonica nella quale anche la Cdp potrebbe avere il suo ruolo conferendo Metroweb e mantenendo una quota nella nuova società.
La Cassa non vuole diventare una nuova Iri, semmai una Mediobanca di Stato. Il vero pericolo, però, è che si trasformi in una Gepi, la Società gestioni industriali nata nel 1971 per raccogliere le imprese fallite. Fino al 1992 ebbe a disposizione quattromila miliardi di lire (circa due miliardi di euro) e vi finirono 347 aziende compresa la Maserati. Un patchwork senza capo né coda. Con la Legge di stabilità approvata a dicembre, la Cdp ha cambiato statuto: viene definita «istituto nazionale di promozione» e dovrebbe servire ad intercettare gli investimenti del piano Juncker. Che però non si vede e, in ogni caso, è nelle mani della Bei, la Banca europea per gli investimenti.
L’istituto di via Goito non è la cornucopia. Ci sono i 250 miliardi di buoni postali garantiti dallo Stato, tuttavia non possono essere usati per operazioni ad alto rischio. Il patrimonio netto è inferiore ai 20 miliardi, cioè il 5 per cento dell’attivo: per operare come una vera banca dovrebbe aumentarlo. Dunque, non ha risorse per tutto e per tutti. Si cita spesso la cugina tedesca, la Kfw, il suo capitale è pubblico, ma attinge le risorse dal mercato finanziario.
La Cassa muove circa 400 miliardi di euro, 150 servono per acquistare titoli di Stato (e in tempi di tassi negativi non producono grandi guadagni), 105 sono crediti, per lo più agli enti locali, 35 vengono impiegati in titoli e 30 in partecipazioni. Il nuovo piano industriale vuole ampliare la presenza in aziende strategiche di «rilevanza nazionale» e mette a disposizione 160 miliardi in cinque anni «per lo sviluppo». Tuttavia non è chiaro il perimetro dell’intervento pubblico; Costamagna e Gallia navigano a vista. Così, tra tutti i modelli possibili, la Cdp assomiglia sempre più a una zattera nella tempesta.