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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

NIENTE SESSO STO SCRIVENDO

Offre per amore e decide di scrivere le sue pene in un libro. Trova un distributore di self publishing in Rete e inizia a promuoverlo da solo sulla sua pagina Facebook. In pochi mesi il romanzo diventa virale. La Mondadori se ne accorge e un anno fa decide di pubblicarlo: Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti? ha venduto 100 mila copie. L’autore, Antonio Dikele Distefano, ha 23 anni. E se alcune pagine, trattando l’amore tra adolescenti, hanno toni un po’ alla Moccia, il racconto autobiografico che lo sostiene ha senz’altro più spessore, perché Antonio è figlio di immigrati angolani, nato a Busto Arsizio e cresciuto in una città italiana di provincia, Ravenna, tra mille difficoltà. Prima ci sono stati i problemi economici poi, quando la sua famiglia si è sistemata grazie al negozio di alimentari aperto da sua madre, sono rimasti i pregiudizi; i più dolorosi quelli dei genitori della ragazzina di cui si è innamorato che hanno osteggiato la loro relazione.
Quando lo incontro, alla vigilia della pubblicazione del suo secondo libro, Prima o poi ci abbracceremo, lo trovo diverso da come me lo sarei aspettato: l’anima fragile a cui il migliore amico soffia la ragazza, e che si tormenta per una parola non detta, ha un look originale – pantaloni stretti e corti sopra le caviglie e occhiali da vista finti –, occhi penetranti, una sfrontatezza che fatica a controllare, granitiche certezze e una velocità nel consumare la vita piuttosto scioccante. La verità è che parlare con lui fa sentire improvvisamente vecchi.

In questo secondo romanzo torna a parlare d’amore, questa volta però i protagonisti sono due ragazzi bianchi.
«Non è voluto. Semplicemente del mio essere nero e dei problemi di integrazione avevo già detto tutto quello che avevo da dire, da quel punto di vista mi sentivo vuoto. Volevo invece toccare il tema della famiglia perché tante persone che ho conosciuto, da quando ho pubblicato il libro, mi hanno parlato di questo: problemi con il padre o con la madre. Ho attinto dalle loro vite».
E dalla sua?
«Anch’io, come il protagonista, ho una madre che vive lontano: cinque anni fa si è separata da mio padre e ha deciso di tornare in Angola, in Italia non stava bene. E sa che cosa mi pesa più della distanza? Non il fatto di non vederla, perché con Skype ci vediamo, ma il fatto che non abbiamo più molto da dirci perché, se a una persona togli la quotidianità insieme, restano solo le frasi banali, come stai, cosa hai fatto oggi».
Le manca?
«Certo che mi manca, e quando il romanzo è uscito in libreria avrei voluto che fosse qui. Siamo sempre stati una famiglia unita, nonostante le difficoltà. I miei erano innamorati finché sono stati insieme, ho ricordi di loro che si rincorrono in casa scherzando. Quando mamma è partita c’è stato qualche scontro con papà perché è venuto meno il filtro che lei era di fatto tra me e lui. Mio padre, un meccanico, è molto rigido, non ha mai pianto, non ha mai mostrato un cedimento. Non credo sia stato facile per lui trovarsi solo con quattro figli; non gliel’ho mai chiesto ma un giorno forse succederà. Ha dovuto fare da padre e da madre; di colpo, una sera, ha smesso di chiudersi in camera da solo per guardare la Tv ed è restato con noi».
Perché sua madre non stava bene in Italia?
«Perché, lei vive bene qui? Io ho un sacco di amici che se non sono ancora partiti, stanno progettando di farlo».
Perché?
«A Ravenna i ragazzi della mia età pensano solo a trovare un lavoro e alla pensione. Per questo mi sono trasferito a Milano da tre mesi, qui c’è un po’ più di energia, di voglia di fare. Ma anche io ho in programma di viaggiare, un domani mi piacerebbe vivere in un posto con meno rumore».
Raggiungerebbe sua madre in Angola?
«No. In Angola non sono mai stato, dovrei prima conoscerla. Mi sento più coreano che angolano: sono pazzo dei film coreani».
A scuola come andava?
«In prima media mi hanno bocciato perché non andavo mai a lezione; mio padre si è talmente arrabbiato che da quel momento ho rigato dritto. Stavo simpatico ai professori perché ero tranquillo, ma non mi ha mai interessato nulla di quello che ci facevano studiare».
E a scrivere come è arrivato?
«Grazie alla mia ex ragazza Linda, quella del mio primo romanzo. Lei era bravissima a scuola, si è diplomata allo scientifico con il massimo dei voti, e mi ha fatto conoscere la poesia, i libri. Devo tutto a lei, infatti la ringrazierò in ogni romanzo che scriverò».
Però vi siete lasciati.
«I suoi genitori ci hanno fatto la guerra. Quando non puoi vederti in un bar, andare in un cinema insieme, quando non puoi nemmeno litigare perché sai che non avrai il tempo per recuperare, tutto diventa pesante. Lei ha scelto me e i suoi l’hanno mollata; poi l’ho lasciata io perché non ce la facevo a vivere con il suo fiato sul collo, non potevo nemmeno addormentarmi: se mi chiamava e non rispondevo andava in paranoia. Ero sempre teso, angosciato, non ero felice. La vera vittima di questa storia, purtroppo, è lei».
Come ha preso il fatto che lei abbia scritto un libro su voi due?
«Non credo ne sia felice. Sicuramente non lo sono i suoi genitori; sua madre ha fatto una figuraccia davanti a parenti e amici, credo che ora sia ancora più arrabbiata con me».
Era contraria al fatto che la figlia uscisse con un ragazzo nero?
«Non è mai stata chiara in questo senso, non mi ha mai cercato per spiegarmelo, semplicemente non dovevo più frequentare sua figlia. Credo fosse un insieme di cose: il fatto che fosse la prima storia importante di Linda e che sua figlia avesse scelto qualcuno che non le piaceva».
Lei ha più amici bianchi o più neri?
«Non lo so. Sono le persone di quaranta, cinquant’anni che si fanno queste domande. E la politica che sui problemi di integrazione ci marcia. La verità è che quando vado in discoteca in pista ci sono ragazzi con pelle diversa che ballano insieme e nessuno ci fa caso. Da questo punto di vista l’Italia ha più speranze di altri Paesi di raggiungere in futuro l’integrazione rispetto per esempio alla Francia, dove gli immigrati vivono in quartieri ghetto. Io non sono cresciuto con gli angolani ma con i ravennati, i peruviani, gli ecuadoregni».
Perché dice che l’integrazione è una questione politica?
«Il fatto che un ragazzo come me, nato e cresciuto in Italia, debba pagare per il permesso di soggiorno fino a 18 anni, è una questione economica e quindi politica. Con la maggiore età, potrei chiedere la cittadinanza ma questo sì, per me, è razzismo: che ci sia qualcuno che debba chiedere e altri che sono italiani di diritto».
Lei l’ha chiesta?
«No, è una questione di principio. Il giorno che dovessi vendere 300 mila copie e venisse fuori che ho il passaporto angolano tutti si chiederebbero perché. E magari questo aiuterebbe a cambiare le cose. Sa quanti ragazzi italiani sono nella mia situazione?».
Di recente si sono sentiti nuovi cori razzisti negli stadi. Perché, secondo lei?
«Parliamo di gente che va allo stadio solo con il proposito di litigare, menarsi, offendere quelli dell’altra squadra. Non lo definirei razzismo ma totale assenza di cervello. Invece ho apprezzato molto il gesto del calciatore nero che è stato offeso e a fine partita ha regalato la sua maglia a un tifoso (Kalidou Koulibaly, difensore senegalese del Napoli, a Roma contro la Lazio il 3 febbraio, ndr)».
Mario Balotelli è un mito per lei?
«Forse quando ero un bambino, ma onestamente mi sta più simpatico Jovanotti».
Poteva fare di più per i ragazzi neri?
«È un calciatore mica un politico, rappresenta solo se stesso».
Lei non ha mai sognato di fare il calciatore?
«Tutti l’abbiamo sognato ma io non avrei mai potuto diventarlo perché odio avere pressione addosso: mi rifiuto di pensare che la mia vita possa durare novanta minuti, che basti un banale incidente di percorso per passare dalle stelle alle
stalle».
Oggi è fidanzato?
«No, non ho più incontrato nessuna che mi ha fatto battere il cuore. Tutti hanno paura di innamorarsi, invece io ho paura di non innamorarmi più. Mi succede come quando vado da McDonald’s e so già che ordinerò il chicken burger, perché è l’unico che mi piace; finché non avrò davvero voglia di provare un altro panino, non succederà».
Eppure le ragazze non le mancheranno.
«Sono tantissime a scrivermi su Facebook. È pazzesco: solo per il fatto di aver letto il libro pensano di conoscermi e nemmeno mi chiedono come sto. Qualcuna l’ho anche incontrata ma non ha funzionato. Erano ragazze che volevano farmi pagare gli errori degli altri: l’ex le aveva trattate male, allora dovevano essere cattive e diffidenti con chi viene dopo».
Che cosa guarda nei messaggi delle fan per capire se sono interessanti?
«Che cosa leggono, che musica ascoltano. La musica è l’altra mia grande passione, e la metto nei libri: adoro la musica italiana, da Tenco a Tiziano Ferro, quella francese, Stromae in testa, e quella inglese: vado fuori per gli Oasis e i Daughters. E poi c’è la punteggiatura: oggi non la usa più nessuno ma a me prende benissimo quando vedo un punto e virgola, o un punto. Irene, la protagonista del mio nuovo romanzo, è ispirata a una ragazza che mi ha scritto su Facebook: leggeva Dante, ascoltava De André, andavamo d’accordo, abbiamo parlato per due mesi ma poi è finita, non ci siamo mai visti».
Perché?
«Non voglio legarmi, lei nemmeno sa che ha ispirato il mio libro. E poi, quando scrivo, sono scaramantico: niente sesso fino a quando non esce il libro e non capisco se vende. Credo nelle energie positive e non voglio avere contatti con la negatività perché è contagiosa».
Irene, la ragazza del romanzo, soffre di anoressia. Conosce ragazze con questo problema?
«Purtroppo è molto diffuso e spesso ha a che fare con traumi vissuti da piccoli. Una ragazza un giorno mi ha raccontato che non mangiava perché sua mamma diceva che non era bella. Per questa ragione dico sempre ai ragazzi che mi seguono di stare attenti quando criticano qualcuno in Rete o sui social, le parole possono fare molto male».
Studia ancora?
«Non sono fatto per andare a studiare chiuso in un edificio, fatico a dormire la notte quindi mi sveglio quasi sempre alle 3 del pomeriggio. Come il mio coinquilino, che ha 17 anni e fa video musicali, studiamo su Internet quello che ci interessa».
Che cosa?
«Marketing, psicologia, come fare tanti soldi. Io non voglio lavorare, scrivere per me non lo è, e non vorrei che lavorasse più nessuno della mia famiglia».
Quanto impiega a scrivere un libro?
«Un anno, più o meno. Quest’ultimo mi ha fatto soffrire tanto. Io vorrei diventare veramente bravo, il migliore. Le persone come me, che nella vita hanno avuto sempre delle mancanze, devono diventare le migliori per necessità».
Figli ne vorrà?
«Sì, tra un anno, massimo due. Voglio essere un papà giovane. Se lo fai a 40 anni, come pensi di poter partecipare alla sua vita?».
Poi però non può più dormire fino alle tre del pomeriggio, lo sa?
«Questo succede oggi. Ma la vita cambia in un attimo».