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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

«PREFERISCO NON SAPERE». INTERVISTA A FRANCESCO DE GREGORI

«Mi aspettavo una vecchia signora», mi dice Francesco De Gregori. Da uno che fa molto poco per compiacere il prossimo, lo prendo come un complimento.
Siamo in una saletta fumatori di un ristorante romano. Dopo una pausa di vent’anni, da qualche tempo ha «felicemente» ripreso a fumare. Gauloises senza filtro. «Non sono salutista. Una volta, al ristorante con Gianni Morandi, ho ordinato una mozzarella. “Ma che fai?”, mi ha detto. “Io non mangio più latticini, fanno male”».
Sulle tovaglie di ristoranti come questo ha composto molte delle sue canzoni. «Non mi vedrà mai reclino a scrivere nel mio studio. Il mio è un lavoro di osservazione, meditazione, autoflagellazione che si svolge nell’arco delle 24 ore senza regole. Il che mi porta a riuscire a lavorare anche nel mezzo del casino più efferato».
Il 5 marzo ripartirà in tour. Dice che ogni concerto sarà un po’ un unicum: la scaletta cambierà di sera in sera. «Cinque, sei canzoni del nuovo album, non di più perché non sono sicuro che la gente voglia ascoltarle tutte. E anche i pezzi dei dischi precedenti li sceglierò di volta in volta. Se ogni sera so che dopo Generale verrà Rimmel, diventa una routine».

Che ricordi ha delle primissime volte sul palco?
«Be’, per esempio, la soddisfazione di superare le aspettative. Come quando feci una tournée con un gruppo che si chiamava Il Volo (nato nel 1974 dalla scissione della Formula 3, era composto, tra gli altri, da Alberto Radius, Mario Lavezzi e Vince Tempera, ndr). Partimmo che io facevo la spalla, aprivo i loro concerti. Ma, alla fine, i ruoli si erano invertiti, perché veniva più gente per me che per loro. Sembra cattivo dirlo, ma è la verità. Per uno che pensava di essere avviato a una vita professionale più seria, che so, diventare professore o giornalista, fu piacevole e stupefacente».
Le sarebbe piaciuto fare l’insegnante?
«Sì. Mia madre era una professoressa di italiano, latino, storia e geografia alle medie. Mio padre, un bibliotecario».
Per Bowie, la migliore virtù in un uomo era la capacità di restituire i libri presi in prestito. Lei è bravo a renderli?
«Per non correre il rischio di non farlo, evito il più possibile di farmeli prestare. E poi mi scatta la molla del “possesso”. Se un disco o un libro mi interessano, mi piace averli».
Non è bizzarro che, con una famiglia come la vostra, sia lei che suo fratello Luigi siate finiti a fare musica?
«Ci piaceva molto. Lui, che è più grande di me di sette anni (il suo nome d’arte è Luigi Grechi, ndr), aveva vissuto in pieno il periodo di Elvis. Quando avevo 18 anni io, c’erano Dylan e i Beatles. A un certo punto mi sono messo anche a scrivere le mie canzoni. Mi son detto: “Se lo fa De André, posso farlo anch’io”».
Il che dice molto del suo carattere. Quasi chiunque altro avrebbe pensato: «Se lo fa lui, è meglio che lasci perdere».
«Lo so, un pazzo. Ma non pensavo che, poi, le avrei cantate in pubblico. Lo facevo per me».
Molti suoi colleghi hanno cominciato anche per far colpo sulle ragazze. Alle feste, quello con la chitarra acchiappa sempre.
«Sì, forse c’entrava anche quello. Ma non era fondamentale».
In una delle prime immagini del libro fotografico Francesco De Gregori. Guarda che non sono io, la si vede al leggendario Chelsea Hotel di New York nel 1976.
«Con mia moglie, che all’epoca non lo era ancora (si sposarono due anni dopo, ndr), eravamo andati a New York pensando che il padre di un amico ci avrebbe ospitato. Invece, arriviamo, ci offre un tè e ci dice che non possiamo stare da lui. “Dove cazzo andiamo?”. Fu lui a proporcelo. “Quel Chelsea Hotel?”, chiesi. Ho bellissimi ricordi. Per me l’America era un luogo letterario, cinematografico. Scoprire che era esattamente come lo raccontavano creava ancora più stupore. I taxi, i grattacieli. Uguale».
Incontrò qualche musicista noto?
«L’unico che avrei riconosciuto, forse, era Bob Dylan. E lui non c’era».
Dylan ha detto che per amare qualcuno non bisogna per forza sapere tutto e capire tutto. Vale anche nella vita?
«Capire gli altri è un’impresa folle, e anche una pretesa arrogante. Non si conosce mai un altro essere umano. Voler spiegare qualcuno lo trovo un atto di violenza. E invece, siccome io non voglio appropriarmi di te, rinuncio anche a voler sapere tutto. Quello che appare mi basta, oppure no, e allora non mi interessi. Sembra un po’ altisonante a dirlo ma, in un certo senso, non conosciamo neanche noi stessi. Ognuno di noi ogni tanto fa qualcosa che non si sarebbe mai aspettato».
Lei si sarebbe aspettato un matrimonio che si avvia verso i quarant’anni?
«Non mi sono mai chiesto quanto potesse durare. E, comunque, non va neppure bene che uno si sposi pensando: “Che sorpresa se va avanti per tanto”. L’ho fatto perché ero innamorato. Quindi, ero assolutamente convinto che saremmo rimasti insieme. È così strano?».
Di matrimoni finiti in giro ce ne sono parecchi.
«In effetti, tra i miei amici molti non stanno più insieme. Diciamo che, dal punto di vista statistico, dovrei stupirmi».
Tanto più uno come lei, che sarà stato esposto a tentazioni.
«Mi sa che lei ha un’idea mitologica del cantante circondato da ammiratrici. Capita se “cavalchi” la situazione. Ma io non sono quel tipo di uomo. Lo troverei troppo prevedibile».
Che rapporto ha con i selfie?
«Non cattivo, a meno che non ti venga richiesto in un momento inopportuno. Tipo che stai tornando da un viaggio faticoso, con le valigie e la chitarra in mano, e uno ti chiede: “Facciamo un selfie?”. Ma lo vedi in che condizioni sono? Sennò va bene, in qualche modo fa parte dei miei doveri. A volte, è anche piacevole. E se vengo brutto, chi se ne frega».
La sua pagina Facebook suona molto istituzionale: solo notizie sull’uscita dei dischi, le date del tour.
«Non la curo io. Anche perché mi sembra di capire che molte cose che vengono pubblicate sono insignificanti, tipo: “Questa mattina ho mangiato due uova al tegamino”. Uno: non mi va di far sapere al mondo cosa cazzo mangio a colazione. Due: che senso ha che il mondo lo sappia?».
Alcuni suoi colleghi ritengono sia un modo di comunicare più immediato.
«Ma io non ho niente da dire in modo così apodittico. “Sono De Gregori e ti dico che cosa penso del crollo della Borsa”. Ma chi se ne frega».
Apodittico in un’intervista non me l’aveva mai detto nessuno.

A questo punto, nella saletta, si spengono le luci. «È segno che dobbiamo andar via». Ci spostiamo a un tavolino fuori.

Tornando a sua moglie, che cosa vi unisce?
«Fin dall’inizio è stato molto importante tenersi compagnia».
Ha detto: «Insieme non ci annoiamo mai».
«Così è banale. Ho detto: “Senza mia moglie mi annoio”. Che è diverso. Questo lo posso sottoscrivere anche adesso. La noia è una delle cose che mi fa più paura. Un’altra è dover parlare per forza con qualcuno».
Quindi le feste non le piacciono.
«Le detesto. La conversazione è nulla, tutt’al più si parla di argomenti vacui. Di solito, se c’è una libreria in casa, mi metto a guardare i titoli, e se c’è anche una poltrona in disparte vado lì con la scusa che fumo. Ho vari trucchi».
Deduco che non organizzerà un party per i suoi 65 anni ad aprile.
«No. Posso fare un cena con quattro, al massimo dieci amici».
Ho appena letto un articolo sul fatto che a breve potremmo vivere 150 anni, le piacerebbe?
«Non mi dispiacerebbe vivere molto a lungo. Bene. Anzi, forse persino male. Ma non vorrà mica farmi un’intervista sulla morte?».
No. Le chiedo invece di Sanremo: lei è tra i pochissimi che non c’è mai andato.
«Sembra che sia maniaco, e probabilmente lo sono. Ma perché il mio lavoro e quello dei colleghi deve essere giudicato dal televoto? Al festival del cinema di Venezia i film vengono premiati così? Non mi sembra una cosa seria».
A X Factor, come ospite, c’è andato, e anche lì il vincitore lo vota il pubblico.
«Be’, ma sono giovani, è la loro occasione per farsi conoscere. Lo so che sembra un’incoerenza. Però è vero che è diverso. E, comunque, continuerò a essere “incoerente”: a Sanremo non ci vado, ma magari tornerò a X Factor».